In questo esaustivo articolo del filosofo e storico prof. Lamendola sono spiegate le cause del differente trattamento riservato dalle potenze alleate alla Francia rispetto all'Italia, alla fine della II Guerra Mondiale, privilegiando la prima e penalizzando al massimo la seconda, pur avendo la Francia parecchie e gravissime colpe da farsi perdonare, essendo stata più collaborazionista coi nazisti di quanto non fosse stata l'Italia.
Il merito è da attribuirsi soprattutto a De Gaulle, alla sua fierezza e leadership politica manifestata pur in assenza di elementi oggettivi a suo sostegno, come un giocatore di poker che sa bluffare e spacciarsi per un abile professionista, pur avendo pessime carte da giocare.
Al contrario in Italia avevamo una pessima classe politica, a partire dalla monarchia dei Savoia, il cui sovrano al potere da mezzo secolo, Vittorio Emanuele III, avrebbe dovuto essere quasi infallibile se avesse appreso dall'esperienza maturata in un lasso di tempo tanto lungo, invece negli ultimi anni non ne aveva imbroccata neppure una, tutte scelte sbagliate, all'ombra del duce Mussolini, e dopo aver fatto fuori il capo del fascismo, gli sbagli del sovrano si fecero ancora più clamorosi e nefasti.
A cominciare dalla ignominiosa fuga da Roma senza dare direttive precise alle Forze Armate e la nomina del Maresciallo Badoglio a capo del governo, suo amico di lunga data, fin da prima della Grande Guerra.
Badoglio, pochi sanno che fu il maggiore responsabile, tra i generali di corpo d'Armata, della disfatta di Caporetto, perché accentrando su di sè pieno potere senza delegare alcuna fiducia agli ufficiali subordinati, aveva ordinato di non prendere alcuna iniziativa senza un suo ordine diretto, di fatto impedendo alle sue artiglierie di aprire il fuoco sul nemico, in quanto in quei giorni si era reso irreperibile. Era infatti imboscato nelle retrovie in una sorta di pausa relax, nonostante si sapesse da giorni, grazie ai servizi di intelligence, che il nemico stava per lanciare una potente offensiva, attaccando in massa e lui come i suoi colleghi avrebbe dovuto trovarsi al fronte per gestire in prima persona la situazione, se fosse stato un comandante responsabile.
Fu l'unico a non subire conseguenze punitive, nessuna imputazione, perché era considerato un protetto del re, anzi fu l'unico a fare carriera fino ai massimi livelli possibili, in quanto il suo cinismo e opportunismo lo fecero aderire al fascismo traendone benefici. E pare che sia uno dei pochi personaggi di cui la sua terra natia vada fiera, avendogli anche intestato il nome di borghi, vie e piazze.
E' ovvio che con personaggi della levatura morale e intellettuale di Vittorio Emanuele III e Badoglio, l'Italia non poteva che essere trattata nel peggiore dei modi e con disprezzo dagli alleati, e così fù.
E noi italiani ancora oggi dopo quasi ottant'anni ne subiamo le conseguenze, assistendo a una Francia arrogante che ci umilia e penalizza in continuazione su tutti i fronti e che continua a sfruttare ancora oggi i diritti acquisiti come credibilità internazionale per merito della leadership di De Gaulle, mentre noi non riusciamo a riscattarci e affrancarci dalla pessima eredità monarchica e fascista che ha portato il paese alla distruzione.
Claudio Martinotti Doria
1944, De Gaulle salta in extremis sul cavallo vincente. De Gaulle non
accettò mai di farsi trattare come un subordinato o uno sconfitto e
pretese sempre, a rischio di apparire patetico, un ruolo paritario
rispetto agli Alleati di Francesco Lamendola
1944, De Gaulle salta in extremis sul cavallo vincente
di
Francesco Lamendola
Perché la Francia è considerata, oggi, a livello geopolitico, una “media potenza”,
ossia l’equivalente del termine “grande potenza” adoperato prima della
Guerra fredda, cioè prima che il mondo venisse sottomesso alla logica di
due sole superpotenze, gli Stati Uniti e l’Unioni Sovietica, e infine,
dopo il 1990, alla logica di una sola superpotenza planetaria, quella
americana? Perché la Francia ha conservato alcuni sparsi, ma preziosi
brandelli del suo passato impero coloniale, nonché un sistema monetario
speciale con alcune nazioni africane, che le consentono di imporre ad
esse il suo franco, mentre, nell’Unione europea, essa ha adottato
l’euro? E perché ha conservato una catena di isole e di basi
scientifiche e militari, navali ed aeree, dai Caraibi all’Oceano Indiano
e dal Pacifico all’Antartide, che le consentono ancora una politica
internazionale di ampio respiro? E perché occupa un seggio permanente
nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, insieme a Stati Uniti,
Gran Bretagna, Russia e Cina? Infine, perché possiede un arsenale
nucleare, che sottopone a dei test di tanto in tanto, fra gli atolli
della Polinesia, il che ne fa un membro a pieno titolo del ristretto club delle potenze atomiche,
in possesso di un’arma di dissuasione estremamente temibile? Potremmo
riassumere tutte queste domande in un unico interrogativo, formulandolo
in questo modo: per quale ragione la Francia, sconfitta
disastrosamente nella Seconda guerra mondiale, e per risorse, per
popolazione, per capacità industriale tutt’altro che una superpotenza:
per quale ragione un Paese così si trova ancora ad occupare una
posizione eminente dal punto di vista politico internazionale, che le
consente invidiabili margini di autonomia, tanto più che, fin dai tempi
di de Gaulle, essa ha espulso le basi militari straniere, cioè
americane, pur restando a far parte del sistema di difesa integrato del
Patto Atlantico?
De
Gaulle rappresentava poco piu' di se stesso? Tutti gli storici si sono
sforzati di dimenticare che in Francia esisteva il governo del
maresciallo Pétain: ed è stato un governo che ha collaborato per 4
lunghi anni con i tedeschi, amministrando gran parte dell’impero
coloniale e senza collaborare con la causa alleata. Non solo, Pétain ha
spinto il suo collaborazionismo fino ad attuare una decisa politica
antisemita. Senza dimenticare il doloroso ricordo di Mers-el-Kebir, il
cruento attacco della marina britannica contro la flotta francese del
Mediterraneo che causò la morte di alcune migliaia di marinai francesi,
da parte degli "alleati inglesi" !
Per tentare di rispondere, rifacciamoci a quanto scrive lo storico Claude Bertin nel libro La vera storia dello sbarco in Normandia (titolo originale: Histoire du débarquement, Editions Presence de l’Histoire, 1962; traduzione dal francese, Ginevra, Editions de Cremille, 1969, pp. 154-157):
(…)
Churchill ed Eisenhower ricevettero De Gaulle il 4 giugno [1944].
Quando lo convocarono, lo sbarco era stato fissato per il giorno 5, e
quindi la notizia gli veniva data con un anticipo di 24 ore. Forse non
gli avrebbero nemmeno detto nulla se non avessero avuto bisogno di lui.
Scrive Eisenhower nelle sue memorie: “Il nostro piano teneva anche nel
dovuto conto l’appoggio che ci avrebbero dato i partigiani francesi; ci
era noto che essi erano particolarmente numerosi in Bretagna e nelle
zone di montagna e collina prospicienti il Mediterraneo. Di conseguenza
un conflitto aperto con de Gaulle avrebbe potuto crearci grosse
difficoltà, con amari risentimenti da una parte e dell’altra e inutili
perdite di vite umane”. Ma in più gli Alleati volevano che de Gaulle
partecipasse ad una trasmissione radio prevista per il giorno X: avrebbe
dovuto parlare dopo il re di Norvegia, la regina di Olanda, la
granduchessa del Lussemburgo, il primo ministri del Belgio e Eisenhower.
Quest’ultimo mostrò a de Gaulle il testo del proclama che aveva
l’intenzione di leggere alla radio al popolo di Francia; ma il generale
francese non lo gradì, lo interpretò anzi come una pesante interferenza
nella politica interna di Francia.
In
realtà era tutto il contrario. In base alle istruzioni ricevute da
Roosevelt, Eisenhower lasciava i francesi liberi di scegliersi da soli
il proprio governo. Il proclama radio aveva un valore unicamente
militare e de Gaulle teoricamente avrebbe anche potuto accettarlo quando
era soltanto presidente del Comitato Francese di Liberazione Nazionale.
Ma dal 15 maggio il C.F.L.N. sui era tramutato in G.P.R.F., Governo
Provvisorio della Repubblica Francese. Il G.P.R.F. aveva sede
provvisoria ad Algeri e i suoi rapporti con gli Anglo-Americani erano
andati vieppiù deteriorandosi, tanto che gli Alleati avevano stabilito
che nessun telegramma cifrato fosse più trasmesso fra Algeri e Londra.
De Gaulle aveva considerato tale decisione un affronto per la Francia.
Fin dal 25 aprile, del resto, la Missione Militare di Collegamento
Amministrativo aveva esaminato con gli ufficiali alleati delegati agli
Affari Civili una questione importante: chi avrebbe nominato i nuovi
funzionari francesi man mano che il territorio fosse stato liberato? Gli
Alleati erano disposti a non applicare il sistema dell’Amgot (Allied
militari government of occupated territories), come invece avvenne in
Italia. Se infatti fosse stato accettato tale principio, è chiaro che
anche la Francia sarebbe stata considerata alla stregua di un territorio
conquistato, e con come un Paese alleato. Roosevelt era favorevole
all’applicazione del regime dell’Amgot, dato che non aveva simpatia per
il generale. Churchill, benché spesso esasperato dalle pretese del
generale, lo capiva di più e forse segretamente lo ammirava. Per
Churchill, de Gaulle era una specie di Giovanna d’Arco ingombrante:
“Soprannominiamola Giovanna d’Arco e cerchiamo poi dei vescovi per
metterlo al rogo!”. Eisenhower, trovandosi sul posto, riusciva a capire
meglio di Roosevelt il punto di vista francese, anche se non era facile.
Infatti, per esempio, il 15 maggio de Gaulle da Algeri impartiva
l’ordine di rompere la relazione con gli Alleati. Il giorno successivo
spiegava la ragione del provvedimento: era una rappresaglia contro la
sospensione delle comunicazioni fra Londra e Algeri che de Gaulle
pretendeva fossero ristabilite. Per tutti i giorni che seguono, gli
Alleati tentano di far rientrare questo atteggiamento, ma sono divisi
anche fra loro. Infatti, mentre gli inglesi si mostrano più concilianti,
gli americani non si preoccupano molto del problema. E de Gaulle non
perdona inoltre a questi ultimi di avere stampato per conto proprio le
banconote destinate alla Francia.
Quando
de Gaulle arriva a Londra il 4 giugno con l’aero personale di
Churchill, il G.P.R.F. non è ancora stato riconosciuto né dagli inglesi
né dagli americani. I colloqui del 4 giugno mancano di cordialità, come
abbiamo già visto. L’indomani de Gaulle rifiuta gli ufficiali di
collegamento che gli sono stati assegnati e rifiuta pure di parlare alla
B.B.C., finché le libere comunicazioni non fossero ristabilite fra
Londra e Algeri e il G.P.R.F. fosse stato riconosciuto. Alla fine, de
Gaulle parlerà alla radio il 6 giugno, ma da solo, nel pomeriggio
inoltrato. Accetterà pure 20 ufficiali di collegamento su 160, a patto
che non assolvessero incarichi amministrativi per conto degli Alleati. Il
messaggio del 6 giugno ignorava completamente il puto di vista
americano. De Gaulle, capo di Stato, si rivolge al suo popolo: sono i
francesi che riconquistano la Francia. Ma il 6 giugno, fra le truppe che
sbarcano, vi sono solamente 180 francesi. Comunque, l’oratoria, la
personalità, la capacità di fare leva sullo spirito nazionalista di de
Gaulle permettono alla Francia, praticamente rimasta senza forze armate,
di ridivenire un Paese sovrano che prende parte agli ultimi
combattimenti della guerra e alla vittoria finale. Saranno comunque i
paracadutisti francesi del colonnello Bourgoin a porre piede per primi
sul suolo di Francia.
Vittorio
Emanuele III aveva in mano carte migliori di quelle di de Gaulle nel
1944; ma il fatto è che le giocò malissimo. Il suo primo errore fu
quello di non aver abdicato fin da subito e non aver ceduto la corona a
suo figlio Umberto, il quale godeva di una credibilità assai superiore
alla sua.
Il
punto di svolta è tutto qui, fra il 4 e il 6 giugno 1944. In quelle
quarantotto ore de Gaulle, arrivato a Londra alla vigilia dello sbarco
in Normandia, che si effettuerà con forze pressoché interamente
angloamericane e del quale viene messo al corrente con sole 24 ore di
anticipo, come se di lui non ci si fidasse e come se la sua fosse una quantité néglieable
(il che è oggettivamente fin troppo vero), e arrivato senza nemmeno un
suo aereo personale, ma ospite su quello di Churchill, quindi
praticamente nelle condizioni di un postulante col cappello in mano,
riesce a ribaltare la situazione di centottanta gradi, e ciò nonostante
la personale antipatia di Roosevelt nei suoi confronti, ossia del socio
di maggioranza degli Alleati, peraltro cordialmente ricambiata. In
quelle quarantotto ore, de Gaulle ottiene praticamente tutto quel che
gli serve perché la Francia venga restaurata nella sua antica posizione
di grande potenza e, soprattutto, perché sia riconosciuta come
socio alla pari dello schieramento alleato: e ciò benché meno di 200
soldati francesi prendano parte allo sbarco e, sul suolo francese, egli
non controlli ancora neppure un chilomentro quadrato di territorio (i
partigiani francesi sono attivi, ma agiscono con la tecnica del mordi e
fuggi e, inoltre, non tutti riconoscono De Gaulle quale capo supremo).
Addirittura, la sua pretesa di essere considerato il capo della Francia è
parecchio temeraria: dopotutto, si è proclamato da solo capo di un
fantomatico governo provvisorio che non esercita la sua autorità su
nessun lembo del territorio metropolitano e che non è stato votato, né
riconosciuto formalmente, da un solo cittadino francese. Tutto quello
che ha da gettare sul piatto della bilancia sono le passate benemerenze
democratiche della Francia; l’essersi il governo francese schierato a
fianco della Gran Bretagna sin dal 1° settembre 1939, quando Hitler
attaccò la Polonia; e l’aver offerto – molto malvolentieri – una
collaborazione in Africa settentrionale nel 1943, per la conclusione
della campagna contro gli italo-tedeschi in Libia e, poi, per lo sbarco
in Sicilia. In effetti, poco e niente, in uno scontro di titani, quale è
stato la Seconda guerra mondiale, dove ha voce in capitolo solo chi può
vantare una effettiva capacità di disporre della forza militare
necessaria per imporsi. E de Gaulle, questa forza, non ce l’ha. Peggio
che peggio: in Francia esiste un governo francese, dopotutto, quello del maresciallo Pétain:
ed è un governo che ha collaborato con i tedeschi e che ha amministrato
gran parte dell’impero coloniale, senza collaborare con la causa
alleata, anzi, tentando di ostacolarla (come è accaduto per la breve, ma
sanguinosa campagna di Siria, nota come Operazione Exporter,
nel 1941). E non solo Pétain è stato alleato di Hitler e Mussolini, e
ha spinto il suo collaborazionismo fino ad attuare una decisa politica
antisemita; ad inasprire le relazioni tra de Gaulle e gli Alleati c’è
anche il doloroso ricordo di Mers-el-Kebir, il proditorio e cruento attacco della marina britannica contro la flotta francese
del Mediterraneo. Ci sarebbero pertanto tutte le condizioni perché gli
Alleati, al momento di effettuare lo sbarco in Normandia, considerino la
Francia semplicemente come un territorio da occupare, e il solo governo
francese internazionalmente riconosciuto, quello di Pétain, come un
governo nemico. Eppure, de Gaulle riesce a capovolgere una situazione così sfavorevole
e a conseguire praticamente tutti i suoi obiettivi: dal riconoscimento
del suo governo provvisorio, a quello del ruolo di cobelligerante;
addirittura, saranno gli americani a rifornire interamente di
equipaggiamento le truppe francesi impegnate nella fase finale della
campagna d’Occidente. Un bell’esempio di come, secondo Machiavelli, si
può conquistare uno Stato servendosi delle arme altrui invece
che delle proprie: il segretario fiorentino si sarebbe tolto tanto di
cappello. I francesi di de Gaulle entreranno in territorio tedesco
armati, calzati e vestiti dagli americani, eppure saranno a tutti gli
effetti la quarta potenza alleata, accanto ad americani, britannici e
sovietici; e alla Francia spetterà la sua zona di occupazione sia in
Germania che in Austria, e così pure il suo settore di Berlino da
amministrare, dopo la caduta della capitale del Terzo Reich. Infine,
alla firma dei trattati di pace, nel 1947, la Francia siederà da
vincitrice, accanto alle altre potenze, e detterà, con esse, le sue
condizioni agli sconfitti (Italia, Romania, Ungheria, Bulgaria,
Finlandia; Germania esclusa perché totalmente debellata e priva di un
governo); e la sede dei trattati sarà proprio Parigi. Una bella
soddisfazione, per una capitale che era stata per quattro anni sotto il
tallone dell’occupazione tedesca. Come ha potuto realizzare, il generale francese, un simile miracolo diplomatico?
Perché, una volta capito questo, si comprende anche il recuperato ruolo
di “media potenza” della Francia d’oggi, con il suo arsenale nucleare e
il suo seggio permanente al Consiglio di Sicurezza del’O.N.U.
Cassibile, 3 settembre 1943: la resa "incondizionata" dell'Italia. A favore della Francia giocò il sentimento nazionale; in Italia, quando le plebi corsero ad applaudire i carri armati dei liberatori e a elemosinare cioccolata e sigarette, gli alleati capirono con che razza di popolo avevano a che fare...
Per capire come questo piccolo miracolo sia stato possibile, sarà utile stabilire un confronto con la situazione italiana.
L’Italia, dal punto di vista degli Alleati, era, come la Francia, una
grande potenza – tale il suo status riconosciuto fra il 1919 e il 1940 -
che, alla prova delle armi, aveva fallito, quindi non era più
“meritevole” di conservare il proprio rango internazionale e doveva
adattarsi a svolgere un ruolo secondario nel mondo futuro, rinunciando
alla propria indipendenza e rientrando nella sfera d’interessi
angloamericana. Il re, Vittorio Emanuele III, aveva condiviso le
responsabilità di Mussolini e controfirmato la dichiarazione di guerra
del 1940 (nonché la successiva dichiarazione di guerra agli Stati Uniti,
dopo Pearl Harbor). Al momento dell’invasione alleata e dell’armistizio
dell’8 settembre 1943, dunque, egli era, ai loro occhi, in una
posizione paragonabile a quella di Pétain. Il disprezzo con cui lo
trattarono gli Alleati (come quando il generale MacFarlane gli si
presentò a colloquio in calzoncini corti e maniche di camicia) era
l’espressione del disprezzo che essi avevano per l’Italia, considerata
una nazione vinta e indegna di essere considerata alleata alla pari,
nonostante il rovesciamento di fronte e la dichiarazione di guerra alla
Germania. Il fatto è che De Gaulle non accettò mai di farsi
trattare come un subordinato o come uno sconfitto e pretese sempre,
perfino a rischio di apparire patetico, un ruolo paritario rispetto agli
Alleati. Non aveva una capitale, né un esercito, né una
finanza, e neppure un aereo per recarsi a Londra, eppure si considerava
il capo di una futura Francia vittoriosa, e il suo orgoglio si impose al
rispetto di Churchill e Roosevelt (a Stalin, della Francia, non gliene
importava nulla: lui giudicava le cose molto concretamente, come quando
chiese: quante divisioni ha il Vaticano?; e siccome la Francia,
nel 1944, divisioni non ne aveva, per lui non contava niente). Ma,
naturalmente, il diverso trattamento ricevuto dall’Italia e dalla
Francia non è dovuto solo al carattere dei rispettivi leader. Dopotutto,
un governo italiano perfettamente legale esisteva, effettivamente, nel
Sud; esisteva perfino un piccolo esercito, schierato contro i tedeschi; e
questo governo aveva consegnato agli Alleati, per il comune sforzo
bellico, tutta la sua flotta, che era, o era stata, a un certo momento,
la più potente del Mediterraneo; inoltre, al Nord c’erano i partigiani,
che combattevano per la causa alleata. Di più: fin dall’inizio della
guerra, fin dal 10 giugno del 1940, settori delle Forze armate italiane
avevano collaborato con gli Alleati, come rivelerà implicitamente l’articolo 16 del Trattato di pace;
e questo, che si chiama, fino a prova contraria, alto tradimento, dal
punto di vista alleato avrebbe dovuto costituire una grossa benemerenza.
De Gaulle non aveva alcuno di questi elementi a suo favore: la
grandezza, o anche solo la sovranità, della Francia era tutta da
ricostruire, e dipendeva interamente dalla buona volontà alleata. Sul
piatto della bilancia egli non poteva gettare altro che il fatto di non
essersi arreso dopo Dunkerque e di non aver accettato l’armistizio del
1940; restava però il fatto che il governo legale della Francia si era
arreso e aveva collaborato coi Tedeschi per quattro anni. Tutto
sommato, Vittorio Emanuele III aveva in mano carte migliori di quelle di
de Gaulle nel 1944; ma il fatto è che le giocò malissimo. Il
suo primo errore fu quello di non aver abdicato fin da subito e non aver
ceduto la corona a suo figlio Umberto, il quale godeva di una
credibilità assai superiore alla sua (un errore che, alla fine,
significò anche la fine della monarchia, nel 1946). Oltre a questo, non
ebbe la fierezza né l’iniziativa che le circostanze richiedevano; non
somigliò in nulla a quello che era stato nel 1917, subito dopo
Caporetto, quando si era imposto al rispetto degli Alleati alla
conferenza di Peschiera. Del resto, quella dell’8 settembre era stata
una resa senza condizioni.
In
definitiva, quel che fece la differenza fra il diverso destino
dell’Italia e della Francia alla conclusione della Seconda guerra
mondiale fu soprattutto il calcolo delle potenze vincitrici: e fu allora
che si vide, per chi volle vederlo, ciò che quasi tutti si erano sempre
rifiutati di ammettere: che gli Alleati non avevano fatto la guerra solo per abbattere il fascismo, ma proprio per abbattere l’Italia.
Come grande potenza, indipendente e dotata di margini d’iniziativa
autonoma, essa doveva sparire. Per questo fu privata del suo impero
coloniale, della flotta, e amputata di una fetta del suo territorio
nazionale (non si dimentichi che tornò in possesso di Trieste solo nel
1954). Anche la Francia, come grande potenza, era finita (lo si era già
visto nel 1870, e nel 1914 solo un autentico miracolo le aveva evitato
il destino che poi subì nel 1940), però agli angloamericani faceva
comodo restaurarla, perché ciò rientrava nel loro disegno di
ridefinizione degli equilibri mondiali. Avevano bisogno, insomma, di una
finta media potenza che tirasse fuori dal fuoco, al posto loro, ma
sostanzialmente per conto loro, le castagne bollenti in talune
situazioni internazionali. Il suo seggio permanente al Consiglio
di Sicurezza dell’O.N.U., con diritto di veto, faceva comodo per
mettere in minoranza l’Unione Sovietica (cui si aggiunse più
tardi la Cina comunista); il suo arsenale nucleare faceva comodo in
funzione antisovietica; e anche in alcuni teatri coloniali e
postcoloniali, come il Vietnam, faceva comodo che ci fossero i francesi,
anche se poi si dimostrarono incapaci di svolgere un ruolo primario e,
sconfitti a Dien Bien Phu, dovette intervenire direttamente l’America).
La
differenza fra il diverso destino dell’Italia e della Francia alla
conclusione della Seconda guerra mondiale fu soprattutto il calcolo
delle potenze vincitrici: e fu allora che si vide, per chi volle
vederlo, ciò che quasi tutti si erano sempre rifiutati di ammettere: che
gli Alleati non avevano fatto la guerra solo per abbattere il fascismo,
ma proprio per abbattere l’Italia.
Un ultimo fattore importante che fece la differenza nel destino delle due nazioni è il diverso sentimento nazionale.
Entrambi i Paesi conobbero una guerra civile, però nel casi della
Francia essa si innestò su una robusta coscienza nazionale, temprata da
secoli di esistenza di un forte Stato, mentre nel caso dell’Italia essa
accentuò le divisioni e le fratture sociali e politiche che risalivano
assai indietro nel tempo, a fronte di uno Stato nazionale che esisteva
da soli ottant’anni e non aveva avuto il tempo né il modo di rafforzare
un forte sentimento nazionale. Certo, resta da chiedersi perché il Piave
vide un soprassalto di orgoglio patriottico, mentre lo sbarco alleato
in Sicilia vide la dissoluzione di un esercito, di un popolo e di uno
Stato. In ogni caso, a favore della Francia giocò il sentimento
nazionale; in Italia, quando le plebi corsero ad applaudire i carri
armati dei liberatori e a elemosinare cioccolata e sigarette, gli alleati capirono con che razza di popolo avevano a che fare...
Del 30 Luglio 2018