Articolo proposto e tradotto da
Francesco Mazzuoli
9 aprile 2018
https://comedonchisciotte.org/lunione-europea-non-puo-essere-democratizzata/
DI BILL MITCHELL E THOMAS FAZI
The New Pretender
L’Unione
Europea non può essere riformata, perché è un progetto teso alla
distruzione degli Stati nazionali e all’annichilimento della democrazia.
Invito
alla lettura e alla diffusione dell’articolo seguente, che dovrebbe
togliere a chiunque gli ultimi dubbi sulle forze politiche e sui singoli
individui che non propongano un’uscita – senza se e senza ma –
dall’Unione Europea.
Per un quadro generale più esaustivo, consiglio di integrare la lettura con i due articoli: L’impero americano è una barca che fa acqua da tutte le parti ed Elezioni in un Paese occupato.
Francesco Mazzuoli
Mentre
la crisi interna dell’Unione Europea peggiora, e molti cittadini si
ribellano contro quello che è diventato un progetto neoliberista, i
politici europei si affrettano a spogliare i governi nazionali di ogni
potere per impedire ulteriori interventi democratici. Il
centro-sinistra crede ancora che la UE sia una istituzione votata al
bene dell’Europa. Omettono la domanda più importante: di quale Europa
stiamo parlando?
Storia della UE neoliberista
Stabilire
il momento in cui il processo di integrazione europea si è volto al
peggio non è compito facile. È una difficoltà dovuta al fatto che gli
aspetti più nefasti (da una prospettiva progressista) di questo processo
sono il risultato di decisioni apparentemente non nefaste prese nei
decenni precedenti. Per semplificare, possiamo fissare il momento di
svolta dell’Europa verso il neoliberismo intorno alla metà degli anni
’70, quando il regime cosiddetto “keynesiano”, adottato in occidente
dopo la seconda guerra mondiale, stava attraversando una crisi
conclamata.
La pressione salariale, i costi
crescenti, e l’aumento della competizione internazionale avevano causato
una riduzione dei profitti, provocando l’ira dei capitalisti. Ma, ad un
livello più profondo, il regime di pieno impiego minacciava di
costituire le fondamenta per un superamento del capitalismo stesso: una
classe lavoratrice sempre più politicamente impegnata aveva iniziato a
fare fronte con i movimenti della controcultura dei tardi anni ’60,
chiedendo una democratizzazione radicale dell’economia e della società.
Come
l’economista polacco Michał Kalecki aveva anticipato trenta anni prima,
il pieno impiego non era divenuto solamente una minaccia economica per
la classe dominante, ma anche una minaccia politica. Durante gli anni
’70 e ’80 ciò costituiva una preoccupazione per le
élites, confermata da svariati documenti pubblicati all’epoca. Lo spesso citato documento della Commissione Trilaterale,
Crisi della democrazia, datato 1975, sosteneva -dal punto di vista dell’
establishment–
che la situazione richiedeva una risposta a molteplici livelli. Una
risposta mirata non solo a ridurre il potere contrattuale del lavoro, ma
anche a promuovere un “più alto grado di moderazione nella democrazia” e
un maggiore disimpegno (o “non impegno”) politico della società civile
rispetto a quanto il sistema faceva, da raggiungere attraverso la
diffusione dell'”apatia”.
Il secondo obiettivo
–che la Commissione Trilaterale giudicava come una “precondizione
fondamentale” per raggiungere il primo obiettivo, la transizione ad un
nuovo ordine economico (cioè il neoliberismo)– è stato raggiunto, prima
di tutto, mediante una graduale de-politicizzazione della politica
economica. Ciò significava svuotare la sovranità nazionale e sottrarre
la politica macroeconomica dal controllo democratico parlamentare –per
esempio, rendendo le banche centrali formalmente indipendenti dai
governi– isolando, in tal modo, la transizione neoliberistica dalla
contestazione popolare. “Legando le proprie mani”, i governi erano in
grado di ridurre i costi politici della transizione neoliberistica –che,
chiaramente, comportava politiche impopolari– addossando la
responsabilità ad accordi, trattati internazionali e istituzioni
multilaterali. Tali politiche furono quindi presentate come
l’inevitabile risultato della nuova e dura realtà della globalizzazione.
In
Europa occidentale, questa lotta per smobilitare i movimenti popolari è
stata portata alla sua più estrema conclusione. Nel 1971, a seguito del
collasso del sistema di cambi fissi di Bretton Woods, la maggior parte
dei Paesi europei continuò a sperimentare varie forme di accordi
valutari. Ciò condusse, infine, alla creazione dello SME (Sistema
Monetario Europeo), che, in sostanza, ancorava tutte le valute
partecipanti al marco tedesco e, per consequenza, alle posizioni
“anti-keynesiane” e anti-inflazionistiche della Bundesbank. La strategia
ebbe successo nel promuovere una maggiore coesione del tasso di cambio,
ma l’aggiustamento ricadde interamente sulle spalle dei Paesi con alta
inflazione e valuta più debole. Le loro valute si apprezzarono in
termini reali e trasmisero un impulso disinflazionistico attraverso lo
SME. Questa “disinflazione competitiva” portò alla bassa crescita e alta
disoccupazione che caratterizzò l’economia europea ngli anni ’80,
generando deficit strutturali delle partite correnti in Paesi come
Italia e Francia.
La decisione delle nazioni con
valuta più debole di partecipare allo SME condusse le stesse ad una
perdita di competitività e di quote di esportazione, mentre beneficiò in
modo enorme le nazioni con valuta forte (in particolare la Germania).
Dal punto di vista delle prime, sembrerebbe trattarsi di una decisione
in larga misura autodistruttiva. Tuttavia, una simile decisione non può
essere compresa ragionando esclusivamente in termini di interesse
nazionale, ma dovrebbe essere vista come il modo in cui una parte della
comunità nazionale è stata in grado di porre vincoli ad un’altra, come
ha notato James Heartfield. Fu la reazione alla lotta distributiva degli
anni ’70, quando il capitale europeo si rivolse allo Stato per
disciplinare la classe lavoratrice e le sue organizzazioni, con
l’intento –prima di tutto– di ristabilire la redditività del capitale
attraverso la compressione dei salari. In tal senso, la logica della
“disinflazione competitiva”, contenuta nello SME, consentiva ai politici
nazionali, adesso “privati” dello strumento della svalutazione
competitiva, di presentare la compressione dei salari e l’austerità
fiscale come i soli mezzi attraverso i quali fosse possibile recuperare
la competitività del proprio Paese.
Il prisma
della “de-politicizzazione”, una volontaria e cosciente limitazione dei
diritti di sovranità dello Stato da parte delle élites nazionali, ci aiuta a comprendere tutte le fasi successive del processo di integrazione europea.
Un
passo decisivo fu compiuto nel 1986, con il Single European Act (Atto
Unico Europeo), che abolì il controllo dei capitali in tutta la CEE.
Quei controlli erano stati la ragione principale di qualsiasi senso di stabilità valutaria in Europa fino a quel momento
-ma ciò fu ignorato dal rapporto Delors del 1989, che era l’estensione
logica della legislazione del mercato unico e che fungeva da modello per
il Trattato di Maastricht del 1992. Questo trattato (formalmente
Trattato dell’Unione Europea o TUE) stabilì un calendario ufficiale per
la creazione di una unione monetaria europea. La maggior parte degli
Stati partecipanti acconsentì ad adottare l’euro come propria valuta
ufficiale, e a trasferire il controllo della politica monetaria dalle
rispettive banche centrali alla Banca Centrale Europea (BCE) entro il
1999. La Germania insistette anche perché l’unico obiettivo della BCE
fosse tenere bassa l’inflazione: il primo, se non l’unico, criterio per
agire doveva essere assicurare la stabilità dei prezzi. Inoltre, gli
articoli da 123 a 135 della versione aggiornata del Trattato di
Maastricht, il Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea, proibisce
in modo chiaro alla BCE di finanziare i deficit pubblici.
Col
senno di poi, lo scopo appare chiaro: estendere la logica del libero
mercato alle finanze pubbliche degli Stati, e così attivare un effetto
di disciplina. Abbiamo visto i brutti effetti di questo in seguito alla
crisi finanziaria 2007-2009. Jean-Clude Trichet, ex presidente della
BCE, non ha fatto mistero del fatto che il rifiuto
della banca centrale di sostenere i mercati dei titoli pubblici nella
prima fase della crisi finanziaria era finalizzato a costringere i
governi della zona euro a consolidare i loro bilanci.
Il
trattato di Maastricht stabiliva, inoltre, limiti rigorosi in termini
di deficit e debito/PIL per gli Stati membri, che sono stati
successivamente ristretti. Ciò, in sostanza, privava i Paesi della loro
autonomia fiscale, senza trasferire questo potere di spesa a un’autorità
superiore. Come ha scritto Heartfield, l’unione monetaria può quindi
essere considerata essenzialmente “un processo di de-politicizzazione di
un asse centrale dell’amministrazione economica e fiscale: la moneta”.
In questo senso, l’istituzione dell’euro può essere considerata il punto
finale dei decenni di guerra delle élites europee alla sovranità e alla democrazia.
Come
scrisse il grande economista britannico Wynne Godley nel 1992, “il
potere di emettere la propria moneta, di disporre della propria banca
centrale, è ciò che, più di tutto, definisce l’indipendenza nazionale”.
Pertanto, adottando l’euro, gli Stati membri hanno effettivamente
acquisito lo status di autorità locali o colonie.
La questione centrale dei trattati europei
La
portata dei trattati europei, tuttavia, va ben oltre la politica
fiscale e monetaria. Attraverso di essi si stabilisce, in realtà, la
struttura giuridica fondamentale della politica economica dell’Unione
Europea. Ed essa è rimasta immutata nella sostanza. I principi guida
dell’UE sono chiaramente indicati nel capitolo sulla politica economica,
in cui si afferma che l’UE e i suoi Stati membri devono condurre una
politica economica “in conformità al principio di un’economia di mercato
aperta e in libera concorrenza” e rispettare i principi guida dei
“prezzi stabili, finanze pubbliche e condizioni monetarie solide e una
bilancia dei pagamenti sostenibile”.
Altri articoli rilevanti del TFUE includono:
Articolo
81, che proibisce ogni intervento dei governi in materia economica “che
possa pregiudicare il commercio tra Stati membri”;
L’
articolo
121, che conferisce al Consiglio Europeo e alla Commissione Europea –
entrambi organismi non eletti – il diritto di “formulare… gli indirizzi
di massima per le politiche economiche degli Stati membri e
dell’Unione”;
L’articolo 126, che regola le misure disciplinari da adottare in caso di deficit eccessivo;
L’articolo
151, che stabilisce che la politica sociale e riguardante il lavoro
della UE, terrà conto della necessità di “mantenere la competitività
dell’economia dell’Unione”;
L’ Articolo 107, che vieta gli aiuti di Stato alle industrie nazionali strategiche.
I
trattati hanno incorporato il neoliberismo nel tessuto stesso
dell’Unione Europea, mettendo di fatto al bando le politiche
“keynesiane” che erano state comuni nei decenni precedenti. Essi
impediscono la svalutazione della moneta e l’acquisto diretto da parte
della banca centrale del debito pubblico (per quei paesi che hanno
adottato l’euro). Impediscono politiche di gestione della domanda o
l’uso strategico degli appalti pubblici e impongono severe restrizioni
alla previdenza sociale e alla creazione di
occupazione attraverso la spesa pubblica. I trattati hanno gettato le
basi per una reingegnerizzazione su larga scala delle economie e delle
società europee.
Le
implicazioni giuridiche di questi trattati – che sono spesso oscurate
da considerazioni sociali ed economiche – devono essere prese in seria
considerazione. Questo perché, nonostante la Francia e l’Olanda abbiano
votato contro una costituzione europea nel 2005, “in definitiva, i
trattati stabiliscono un ordine costituzionale per l’UE”. Un ordine
costituzionale molto particolare, dovuto alla sua natura sovranazionale
(e quindi intrinsecamente non democratica). Infatti, a differenza delle
costituzioni nazionali, tale ordine non può essere modificato
democraticamente dai cittadini: può soltanto essere emendato
all’unanimità nel contesto di un nuovo accordo internazionale – che, in
termini pratici, significa che non è modificabile. L’unica cosa che i
singoli Stati possono fare è ripudiare l’intera struttura. Come
ha affermato il presidente della Commissione europea, Jean-Claude
Juncker, all’inizio del mandato di SYRIZA, “non può esserci alcuna
scelta democratica contro i trattati europei”.
Inoltre, a differenza di altre costituzioni
e quadri giuridici, che generalmente sono tesi a definire la relazione
tra le varie istituzioni di uno Stato e i diritti fondamentali dei
cittadini, questa costituzione europea di fatto “stabilisce
una specifica filosofia economica (o ideologia) sulla quale poi basa – o
meglio ‘costituzionalizza’ – regolamenti dettagliati che vincolano la sua politica economica”. Lo
fa anche ancorando norme e regolamenti all’interno delle costituzioni
nazionali, svuotandole, in tal modo, progressivamente dall’interno. Ciò
conferisce poteri immensi alla Corte di Giustizia Europea, che ha
l’ultima parola sulle controversie legali tra governi nazionali e
istituzioni della UE. Non sorprende che Alec Stone Sweet, un esperto di
diritto internazionale, l’abbia definito un “colpo di Stato giuridico”.
Negli
ultimi anni il costituzionalismo autoritario dell’Unione Europea si è
evoluto in una forma ancora più anti-democratica che si sta allontanando
dagli elementi di democrazia formale, portando alcuni osservatori a
suggerire che l’UE “potrebbe facilmente diventare il prototipo
post-democratico e persino una struttura di governo pre-dittatoriale
contro la sovranità nazionale e le democrazie “. Lo abbiamo visto in
Grecia nel 2015, quando la BCE ha tagliato la liquidità di emergenza
alle banche greche per mettere in riga il governo di SYRIZA e
costringerlo ad accettare il terzo memorandum di salvataggio.
Per
concludere, qualsiasi convinzione che la UE possa essere
“democratizzata” e riformata in una direzione progressista è una pia
illusione. Non sarebbe soltanto necessario un impossibile allineamento
dei movimenti/ governi di sinistra per emergere simultaneamente a livello internazionale, ma, ad un livello più fondamentale,
un sistema creato con l’obiettivo specifico di limitare la democrazia
non può essere democratizzato. Può essere soltanto rifiutato.
Thomas Fazi è uno scrittore, giornalista, traduttore e ricercatore. Bill Mitchell è professore di economia e direttore del Centre of Full Employment and Equity all’università di Newcastle, Australia.
08.03.2018
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