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07 ottobre 2017
Le isole artificiali tra scienza e utopie
La vista è incomparabile. A destra, ripide montagne vulcaniche coperte di verde si ergono da un palmeto di noci di cocco sulla spiaggia. A sinistra, l'oceano Pacifico brilla di un colore turchese sotto il sole di mezzogiorno.
È qui, in questa laguna tahitiana, che un gruppo di imprenditori intende costruire un'isola artificiale: tre quarti di ettaro di spazio galleggiante destinato ad alloggi e ricerca, composto da piattaforme collegate tra loro.
Se il gruppo avrà successo, il progetto potrebbe diventare realtà entro il 2020. Ma sarebbe solo il primo passo, dice Joe Quirk, che si autodefinisce "seavengelist, evangelista del mare". L'obiettivo finale è costruire in mare aperto intere nazioni sovrane fatte di unità galleggianti modulari.
"La Polinesia Francese ha tutto ciò che serve: lagune, atolli, acque poco profonde proprio accanto ad acque più profonde", dice Quirk.
Quirk, uno dei cinque amministratori delegati della società che sta dietro il progetto, ritiene che le isole artificiali possano servire come laboratori per sperimentare nuove tecnologie ed esplorare strutture sociali, oppure servire da zattere di salvataggio per le popolazioni costiere evacuate a causa dell'innalzamento del livello del mare.
L'associazione no profit Seasteading Institute è stata fondata nel 2008 dall'ex ingegnere di Google Patri Friedman e ha ottenuto il sostegno di persone influenti degli ambienti legati alla Silicon Valley, alla politica libertaria e al festival Burning Man che si tiene nel deserto del Nevada.
Tuttavia, la maggior parte degli articoli pubblicati sui media ha espresso scetticismo. Il progetto è stato definito il sogno di “due ragazzi con un blog e una passione per la scrittrice Ayn Rand" e “un approccio al governo da hacker con idee alla Waterworld del 'Destino manifesto'” (la dottrina secondo cui gli Stati Uniti hanno la missione di espandersi).
Eppure nel corso dell'ultimo anno il Seasteading Institute e il nuovo spin-off a scopo di profitto Blue Frontiers hanno ottenuto alcuni successi nel mondo reale. A gennaio hanno firmato un protocollo d'intesa con il governo della Polinesia Francese che pone le basi per la costruzione del loro prototipo. E a maggio, a Tahiti hanno tratto nuovo slancio da una conferenza delle parti interessate a cui hanno partecipato centinaia di persone.
Il focus del progetto si è spostato dalla costruzione di un'oasi libertaria a un luogo per ospitare esperimenti sugli stili di governo ed esibire una miscela di tecnologie sostenibili destinate, tra l'altro, alla desalinizzazione, all'energia rinnovabile e alla produzione alimentare. Lo spostamento ha conferito maggiore serietà all'impresa e alcuni ecologisti hanno mostrato interesse per i laboratori galleggianti permanenti.
Ma il progetto deve ancora affrontare alcune sfide formidabili. Deve convincere i cittadini della Polinesia Francese che trarranno benefici da queste isole sintetiche; deve raccogliere abbastanza soldi per realizzare il prototipo che, secondo le stime, costerebbe fino a 60 milioni di dollari; e dopo averlo costruito, il gruppo deve convincere il mondo che le isole artificiali galleggianti non sono solo una trovata pubblicitaria. La produzione di scienza di valore e di tecnologie di grande utilità potrebbero fare molto per arrivare a questo obiettivo.
"Il nostro sogno è che questa struttura possa diventare un laboratorio scientifico", sottolinea Winiki Sage, capo del Consiglio economico, sociale e culturale della Polinesia Francese a Tahiti, che si preoccupa per la fuga di cervelli dal suo paese.
Fascino estetico
I prototipi di isola sono in fase di progettazione e il loro aspetto è una parte fondamentale della strategia di pubbliche relazioni di Blue Frontiers. I progetti attuali della società non sono perfettamente in linea con le rappresentazioni artistiche presentate sul sito del Seasteading Institute, che spaziano dal bar sulla spiaggia a svariate versioni di Tomorrowland. Bart Roeffen, "pioniere dell'acqua" della società olandese di design Blue21, sta elaborando nuovi progetti che si adattano al paesaggio e alla cultura del luogo.
"Stiamo lavorando insieme ai progettisti tahitiani per realizzare una cosa che non assomigli a un'invasione aliena", dice Roeffen. In particolare, vuole ispirarsi alla tradizione polinesiana di costruzione delle imbarcazioni.
Le eleganti canoe a bilancere, o va'a, utilizzate dagli isolani, sono stabili e leggere; le versioni oceaniche sono simili alle imbarcazioni con cui gli antichi tahitiani scoprirono le Hawaii e Nuova Zelanda attorno all'anno 1100. Le piattaforme collegate sarebbero disposte in modo da assicurare che in acqua nessun corallo sia messo completamente in ombra e muoia. L'obiettivo, anzi, è di espandere l'habitat delle specie che vivono tra le scogliere (Si veda l'infografica di "Nature").
Il gruppo non intende fornire informazioni dirette sui finanziamenti. Peter Thiel, cofondatore di Paypal ed ex seguace di Donald Trump, avrebbe garantito al Seasteading Institute 1,7 milioni di dollari, ma il suo ultimo contribuito al progetto risale al 2014 e gli investitori più recenti stanno mantenendo un profilo basso. Quirk dice che hanno "una bella quantità di denaro” e si stanno preparando alla cosiddetta coin offering iniziale, un meccanismo di investimento che utilizza criptovaluta digitale. In seguito, la società spera di generare profitti affittando spazi sull'isola e offrendosi per consulenze ad altri aspiranti costruttori di isole.
Oltre ad assumere Quirk e altri quattro direttori generali, Blue Frontiers ha messo insieme uno staff di dieci persone e commissionato studi ambientali, giuridici ed economici sugli impatti del progetto per gli investitori e il governo.
Alla domanda "perché?" – la prima che viene in mente a chiunque sulle colonie marine – ogni soggetto coinvolto risponde in modo diverso. Alcuni sono affascinati dal progetto perché è una scusa per portare il design sostenibile a un livello più elevato. Per chi abita in isole poco al di sopra del livello del mare potrebbe essere una zattera di salvataggio.
Félix Tokoragi, sindaco di Makemo, un atollo dell'arcipelago di Tuamotu, nella Polinesia francese, ha detto a Blue Frontiers di essere interessato. Le isole Tuamotu hanno subito un'inondazione diffusa, e Tokoragi è preoccupato che il suo possa diventare un popolo di profughi del cambiamento climatico. "Siamo radicati nel nostro atollo; siamo legati alla nostra cultura", dichiara. "Non siamo contrari a questa idea perché la tecnologia può rispondere ai problemi che abbiamo di fronte".
Per altri, le attrattive del progetto in ultima analisi sono autonomia e autosufficienza, in particolare di governo: chiunque decida che lo stile politico dell'isola non fa per lui, può andarsene in un altro sistema che apprezza di più.
Secondo uno degli scienziati che collaborano al progetto, Neil Davies, direttore esecutivo di una stazione di ricerca sull'isola vicina di Moorea dell'Università della California a Berkeley, il richiamo dell'isola è che potrebbe essere una base per ricerche che "colmino il divario tra le navi oceanografiche e i laboratori marini costieri".
Le navi stanno in acqua, ma sono "incredibilmente costose", dice, e non restano fisse. I laboratori costieri possono raccogliere dati con una lunga serie temporale, ma non consentono l'accesso ad acque più profonde. Davies sogna "stazioni marittime" galleggianti che consentirebbero un accesso all'oceano a lungo termine, a vantaggio specialmente degli studenti dei paesi tropicali "dove i sistemi naturali sono tra i più sensibili alle attività umane", sottolinea.
Gli esperimenti potrebbero includere le variazioni di pH o della temperatura su piccole sezioni della barriera corallina per simulare le condizioni ambientali future, o la coltivazione di diversi coralli per indagare quali vivranno meglio in futuro. I dati potrebbero essere raccolti usando sensori semi-permanenti e telecamere, o mediante la raccolta regolare di campioni biologici.
Alcuni ricercatori non coinvolti nel progetto vedono un valore anche nell'idea in sé. "Se si dispone di un'isola galleggiante e si desidera condurre uno studio a lungo termine, questo è un modo perfetto per farlo", spiega Ross Barnes, sovrintendente delle operazioni marittime presso il Marine Center dell'Università delle Hawaii a Honolulu, che gestisce due grandi navi di ricerca e laboratori sulla terraferma. L'università sta conducendo ricerche in un sito oceanico chiamato Station ALOHA, che gli scienziati hanno visitato in barca quasi 300 volte dal 1988. Una piattaforma galleggiante, dice, avrebbe permesso ai ricercatori di lasciare sul posto alcuni strumenti, o di rimanere di persona, consentendo misurazioni continuative. "È una buona idea", dice Barnes.
Attualmente, Davies sta aiutando i coloni marini a scegliere siti e progetti ecologicamente validi. Inoltre, prevede di aiutarli a documentare le prestazioni dell'installazione usando sensori che misurano parametri quali la spesa energetica e la produzione di rifiuti sulle piattaforme, nonché la temperatura e la qualità dell'acqua. E vede il progetto come una grande opportunità di apprendimento per i numerosi studenti che visitano la sua stazione. "La colonizzazione del mare solleva molti problemi sociali, legali, etici e ambientali, anche se non va mai da nessuna parte", dice.
Il progresso delle colonie marine dipende dal fatto che il progetto sia abbracciato dalla Polinesia Francese, che fa parte dei Départements et territoires d'outre-mer, le ex colonie francesi oggi in gran parte autonome, ed ha una popolazione di 287.000 persone in 67 isole sparse su un'area grande quasi come l'Europa.
Da un certo punto di vista, un grande progetto galleggiante dovrebbe interessare questa nazione di navigatori e costruttori di barche. Ma la Polinesia Francese in passato è rimasta scottata da grandi progetti scientifici e tecnologici.Tra il 1966 al 1996, la Francia ha condotto nei suoi possedimenti polinesiani 193 test nucleari, molti dei quali in atmosfera. Nel febbraio 2016, l'allora presidente francese François Hollande ha ammesso che i test hanno causato danni all'ambiente e alla salute umana. E la zona è costellata di progetti abbandonati e alberghi chiusi.
"In passato ci hanno preso in giro spesso", afferma Pauline Sillinger, specialista di sviluppo sostenibile di Te Ora Naho, una federazione di gruppi ambientalisti della Polinesia Francese. "Test nucleari, grandi alberghi e bianchi simpatici, intelligenti e sorridenti che ci dicevano che per noi erano una cosa buona."
Ma la loro diffidenza si scontra con il bisogno disperato di nuove fonti di reddito, dice Sage. Dopo aver interrotto i test nucleari, la Francia ha iniziato a versare alla Polinesia Francese più di 100 milioni di dollari all'anno per compensare il reddito perso a causa delle attività militari. Ma nel 2016 l'importo è stato ridotto e nel frattempo i ricavi del turismo non sono mai tornati ai livelli precedenti alla recessione del 2008.
Grazie all'aumento della stabilità politica e ad altri fattori, le cose sono migliorate rispetto al 2014, quando la collettività era così squattrinata che rischiava di non pagare gli impiegati pubblici, aggiunge Sage. Ma è ancora pericolosamente dipendente da un numero limitato di fonti di reddito: turismo, perle e olio di cocco. La disoccupazione è quasi al 18 per cento. "Stiamo cercando nuove idee", dice Sage. "Siamo veramente aperti a ogni idea, a ogni investitore".
Ma mentre Sage pur essendo scettico, è disposto a fare un tentativo, altri ne hanno abbastanza di progetti grandiosi. Tra loro vi è un leader religioso di Tahiti, Frère Maxime Chan, alla guida dell'Association 193, che rappresenta coloro che hanno subito le conseguenze dei test nucleari. C
han è anche vicepresidente di Te Ora Naho (Sage, per inciso, è il presidente dell'organizzazione). Chan dice che il suo vecchio amico Sage e il resto del governo sono "abbagliati" dai soldi di Seasteaders. Parla di progetti recenti – tra cui un resort turistico, un impianto di acquacoltura e un eco-resort – che sono stati tutti annunciati con fanfare e ottimistiche prospettive occupazionali per poi essere cancellati, ridimensionati o sospesi sine die. Chan desidera che il governo ammetta che il tenore di vita del tahitiano medio è stato gonfiato artificialmente dai soldi per i test nucleari e che deve diminuire. Ciò può essere fatto senza sofferenza, afferma Chan, tornando a una versione dell'economia di sussistenza pre-anni sessanta. "Piccolo è bello", dice.
Convincere la Polinesia Francese a sostenere il progetto spetterà soprattutto a Marc Collins, un altro direttore generale di Blue Frontiers. Collins è di Tahiti e ora vive lì, ma nei primi anni novanta viveva nella Silicon Valley, e s'innamorò di quella cultura in veloce divenire, fatta di grandi idee e possibilità infinite.
Da allora, ha tenuto un piede in quel mondo abbonandosi alla rivista "Wired". Nel maggio 2015, questa rivista dedicata al mondo digitale ha pubblicato un articolo su come il movimento di colonizzazione dei mari aveva deciso di ridimensionare il suo grande progetto per il mare aperto, riorientandosi verso acque più sicure e più basse e cercando "soluzioni di riduzione dei costi all'interno delle acque territoriali di una nazione ospitante”.
Collins, un imprenditore coinvolto in ogni grande industria della Polinesia Francese, dagli alberghi alle perle nere e alle telecomunicazioni, ha visto l'opportunità di portare, come dice lui stesso, "parte del DNA della Silicon Valley a Tahiti". Tahiti è entrata nel mondo di Internet ad alta velocità nel 2010, con la posa di un cavo in fibra ottica sottomarino che la collega alle Hawaii. Ha lagune calme in abbondanza e voli giornalieri da Los Angeles, e, come ulteriore vantaggio, è generalmente considerata un paradiso in Terra.
Collins ha mandato un messaggio al direttore esecutivo del Seasteading Institute, Randolph Hencken. Gli esponenti di del Seasteading Institute erano interessati al passo fatto da Collins, ma volevano un gesto ufficiale di supporto. Così Collins, che è stato ministro del turismo della Polinesia francese nel 2007 e nel 2008, ha iniziato a sollecitare i suoi contatti governativi. Ad agosto, il presidente della Polinesia francese Édouard Fritch ha firmato una lettera che invita formalmente gli esponenti dell'Istituto a presentare le proprie idee. Una delegazione di nove persone ha raccolto l'invito nel mese successivo e a gennaio è stato firmato un memorandum d'intesa con impegni di cooperazione.
Il prossimo passo per rendere realtà l'isola sarà l'approvazione di una legge che definisce una "zona economica speciale" che comprenderà l'isola sintetica. Blue Frontiers non chiede alla Polinesia francese alcuna sovvenzione per costruire l'isola, ma chiede un'aliquota d'imposta dello zero per cento, tra le altre eccezioni legislative. Ha ingaggiato l'azienda francese GB2A, con sede a Parigi, per preparare una ricerca legale e una serie di richieste che i Blue Frontiers hanno presentato al governo alla fine di settembre. Il gruppo spera di vedere un progetto di legge prima della fine dell'anno.
Nel frattempo, il Seasteading Institute sta alimentando l'entusiasmo e corteggiando i potenziali investitori con una serie di incontri. Nel mese di maggio, ha avviato colloqui e organizzato eventi di networking e tour a Tahiti. Tra i relatori, vi erano Fritch; Tony Hsieh, amministratore delegato dell'azienda di vendita online Zappos di Las Vegas, in Nevada; Tua Pittman, esperto conduttore di canoe delle Isole Cook, oltre a ingegneri e nanotecnologi, e a uno "stratega di blockchain", cioè uno specialista dei sistemi informativi distribuiti che supportano le cripto-valute. L'Istituto spera di utilizzare tali sistemi per gestire i propri finanziamenti, nonché i dati scientifici che generano. Ma l'evento non esauriva tutto il lavoro. L'annuncio di una festa su canoe a bilanciere suggerì gioiosamente di "Non indossare tacchi e di portarsi dietro un costume da bagno per un'eventuale nuotata al chiaro di luna".
Tra il 22 e il 29 ottobre prossimi, Blue Frontiers organizzerà una settimana di accesso libero per sostenitori e investitori potenziali, un mix di tour, di discussioni e sedute mattutine di yoga con Hencken. Sempre ambizioso, il gruppo spera di avere una proposta di legge da parte del governo polinesiano, e alcuni progetti architettonici dettagliati. L'obiettivo è quello d'iniziare i lavori nel 2018.
Mentre dietro le quinte ferve tutto questo lavoro, la laguna rimane abbastanza tranquilla. In una giornata di luglio, i locali partecipano a una competizione di stand-up paddle, mentre le famiglie giocano sulla riva e le ragazze bevono birra con i piedi tra le onde. Su bordo della strada, si vendono tonni appena pescati. Da un certo punto di vista, è difficile immaginare che questo posto possa migliorare.
Solo il tempo ci dirà se l'isola dei coloni marini diventerà un rifugio per i polinesiani in fuga dall'innalzamento dei mari e un incubatore per la scienza e l'attività polinesiane, o semplicemente un parco giochi per stranieri ricchi che vogliono evitare leggi fastidiose. E soprattutto se l'isola verrà mai realizzata.
(L'originale di questo articolo è stato pubblicato su Nature il 4 ottobre 2017. Traduzione ed editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.)
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