Il lungo ed esaustivo articolo che oggi vi propongo, del
filosofo ed erudito Francesco Lamendola, è certamente fuori dal comune, espone
un pensiero non omologato e piuttosto critico nei confronti degli USA ma
soprattutto dell’addomesticamento subito da noi europei negli ultimi decenni,
che abbiamo commesso il grave errore di allontanarci dai nostri secolari legami
con la Russia (che rammentiamolo, costituisce la metà del continente europeo,
la c.d. Russia Europea) e soprattutto con l’Asia, fino a considerarli corpi
estranei e culture distanti ed inconciliabili con la nostra, quasi aliene,
rimuovendo dalla memoria ogni residuo storiografico.
Il lavaggio del cervello subito dagli europei negli ultimi
settant’anni, cui accenna l’autore, è a mio avviso soprattutto frutto della
potenza comunicativa dell’industria ed ideologia hollywoodiana, che nell’arco
di pochi decenni è riuscita a conquistare il mondo dando un’immagine favorevole
degli USA, nonostante gli aspetti negativi (politico istituzionali e
finanziari) non taciuti, o addirittura denunciati in alcune produzioni
cinematografiche, in particolare negli ultimi anni, ma comunque minimizzati,
quasi giustificati come un male necessario.
Questo successo planetario di conquista culturale e
consumistica è stato veicolato soprattutto dalla televisione con l’ovvia
complicità (involontaria o no, il risultato non cambia), della classe dirigente
politica, istituzionale e mediatica dei singoli paesi occidentali, che ha
favorito i prodotti cinematografici e televisivi USA a scapito di quelli
europei. Unica eccezione: i francesi, che per volontà politica negli ultimi anni
hanno rivitalizzato il loro cinema, anche con risultati lodevoli.
Paradossalmente, anche se riduttivamente e simbolicamente, i prodotti culturali
americani sono quasi interamente ispirati alla nostra storia, mitologia, arte,
creatività, ecc. (basti vedere quanta influenza e fascino ha esercitato
l’Impero Romano sulla società americana, cinema e politica comprese), ma sono
riusciti abilmente a farne un uso strumentale a proprio esclusivo vantaggio,
quasi impossessandosene.
Per sintetizzare radicalmente, gli europei hanno rinunciato
alla loro identità per assumere quella americana come modello di riferimento,
fornendo un consenso più o meno implicito al loro dominio e subordinandosi ai
loro interessi (spesso divergenti da quelli europei), in ogni settore, soprattutto
economico militare. Un uso intimidatorio (e non solo deterrente) della forza,
che condiziona a tal punto gli alleati (vassalli), da autorizzarli ad
insediarsi nei territori europei come fossero a casa loro, posizionandosi
strategicamente e favorendo il business delle loro multinazionali (cui il
governo degli USA è subordinato, per non dire interamente al loro servizio),
che considerano i partner locali degli utili idioti e la popolazione una
semplice variabile manovrabile a piacimento tramite i mass media da loro quasi
interamente controllati e diverse ONG e Fondazioni da loro finanziate e
pianificate.
L’articolo è datato, risale ai tempi in cui negli USA
governava Bush Junior ed in Gran Bretagna Tony Blair, i quali con l’inganno
pianificato e pretestuoso delle armi di distruzione di massa attribuite a
Saddam Hussein, hanno scatenato e giustificato la Guerra in Iraq che perdura
ancora oggi (guerra permanente).
Articolo datato ma più che mai attuale, soprattutto alla
luce dei recenti bombardamenti Usa in Siria che rischiano di far precipitare
nuovamente il mondo nell’incubo di un’ulteriore guerra mondiale, sempre sul
suolo altrui.
Claudio Martinotti Doria
L'ATLANTICO O GLI URALI?
di Francesco
Lamendola
Uno sguardo anche distatto al planisfero terrestre fa balzare
all'occhio una circostanza sorprendente e alquanto innaturale: i legami
secolari fra Asia ed Europa si sono allentati al punto che perfino la Russia -
paese di civiltà europea e che occupa, da solo, circa metà della superficie
dell'Europa - vista da Londra, Parigi, Roma o Berlino appare quasi come un
corpo estraneo; col mondo islamico il dialogo e la comprensione sono sempre più
difficili; India, Cina e Giappone sembrano appartenere a un alro mondo. Si ha
l'impressione di essere tornati ai tempi di Marco Polo, quando l'Asia
costituiva un mistero, una realtà "altra", remota e quasi
irraggiungibile, posta ai confini della realtà; o a quelli di Cristoforo
Colombo, che sperava di raggiungere il Cipango ed il Catai navigando sempre
verso occidente, animato dal miraggio delle spezie e della seta. Viceversa il
continente nordamericano, che solo negli ultimi secoli è entrato nel quadro
storico europeo, si è imposto come referente privilegiato e, complici le due
guerre mondiali e la "guerra fredda" col suo ricatto nucleare, ha
praticamnente assogettato la vecchia Europa, trasformandola in una sua
appendice, anzi in un suo avamposto. Ma il "rozzo cocchiere
americano", per usare l'espressione di Michele Federico Sciacca, è davvero
iu grado di traghettare l'Occidente verso le sfide del terzo millennio?
Da Berlino si può viaggiare comodamente in treno fino all'Oceano
Pacifico, sulle rotaie della Transiberiana, da oltre un secolo; eppure i
giovani di Berlino, come quelli di Londra, Parigi, Roma, Varsavia, si sentono
spiritualmente più vicini ai loro coetanei di Los Angeles. Artisti, scrittori,
giornalisti europei si sentono di casa a New York, ma non a Mosca, Kazan e
tantomeno a Vladivistok; scienziati europei fanno la spola tra le due sponde
dell'Atlantico, ma non sono mai stati più a est di Vienna; professori
universitari europei tengono cattedra a Yale o Harvard, mai però si
sognerebbero di insegnare in Russia, per non dire in India o in Cina;
imprenditori che fanno la spola fra il vecchio continente e Chicago pensano che
Mosca, Delhi o Pechino siano più lontane della Luna; e persone anche di media
cultura sanno più cose della politica, della storia, della letteratura, della
musica leggera statunitensi di quante ne sappiano del proprio Paese, mentre la
storia, la filosofia e l'arte dell'Asia (e della stessa Europa orientale) sono
per esse una vera e propria tabula
rasa. Dopo il 1945, complici le due guerre mondiali, la
"guerra fredda" e il lungo ricatto atomico, ci siamo abituati a
considerare tutto questo come perfettamente normale, mentre basta uno sguardo
anche frettoloso al planisfero terrestre, per non parlare di un qualunque
manuale di storia anteriore a quella data, per afferrare istantaneamente tutta
l'innaturalità di un tale stato di cose.
Il rapporto fra Europa ed Asia che per
millenni, attraverso invasioni e migrazioni, scambi commerciali e culturali,
scontri e incontri religiosi, ha costituito la linfa delle civiltà che sono
fiorite nel continente euro-asiatico, si è assotigliato fino ad apparire come
una fastidiosa zavorra, peggio: una eredità imbarazzante. Che cosa abbiamo a
che fare, tuonava Oriana Fallaci, con quei
barbari maomettani che se ne stanno col culo all'aria per cinque
volte al giorno e che, invece di contribuire al progresso dell'umanità,
sprecano il loro tempo in preghiere interminabili? Molti intellettuali, più
discreti o più ipocriti della Fallaci, non lo dicono ad alta voce, ma pensano:
"Che cosa abbiamo a che fare con gli Indiani che bloccano il traffico
delle loro grandi città quando una mucca sacra fa per attraversare la strada;
con quei Cinesi dai disegni incomprensibili, che celano i loro pensieri dietro
un enigmatico sorriso; o con quei Giapponesi che si disperano a milioni quando
muore il loro "divino" imperatore o che si commuovono davanti a
un ciliegio in fiore del sacro Fuijama, ma che hanno fatto di Tokyo una New
York più aggressiva, più inquinata, più produttiva, più esasperatamente
"occidentale" dell'originale? E gli stessi Russi, sono forse europei?
Non c'è in loro il peso evidente del retaggio tartaro, di un dispotismo
asiatico che da Ivan il Terribile a Stalin, Eltsin e Putin ha evidenziato la
loro impossibilità di essere veramente europei, cioè riconducibili agli schemi
mentali e ai comportamenti tipici dell'Occidente? Non parliamo dei popoli
balcanici: relitti storici che il naufragio dell'Impero Ottomano ha lasciato a
riva dietro di sé, rompicapi irrisolvibili che da Sarajevo al Kosovo, dalle
foibe di Basovizza alla pulizia etnica di Srebrenica sfidano le capacità di
comprensione dell'europeo occidentale. Quei ragazzi kosovari che nel 1999
sputavano in faccia alle truppe ONU perché queste, facendo cordone, impedivano
il linciaggio della minoranza serba; che guardavano con occhi carichi d'odio
quei loro coetanei francesi in divisa mimetica, quasi che li detestassero e li
disprezzassero più ancora degli stessi Serbi, dalle cui violenze erano stati
appena liberati, parevano appartenere a un altro mondo, a un altro tempo, a un
altro universo etico e spirituale.
Bush Junior
Invece non è così. La ragione per
cui l'europeo occidentale si sente spiritualmente vicino agli Americani e
lontanissimo da Russi, Arabi, Indiani, Cinesi e Giapponesi è sostanzialmente il
lavaggio del cervello che sessant'anni di predominio statunitense gli hanno
fatto subire. L'oblio dei legami millenari con l'Asia è l'altra faccia della
medaglia dell'oblio di sé medesimo. Lo stesso termine "Occidente" è
un clamoroso falso storico perché sottintende un legame spirituale fra le
sponde dell'Atlantico più forte di quello da sempre esistente fra la regione atlantica
dell'Eurasia e quelle indo-pacifiche della stessa. Il fatto che un parigino o
un milanese si "sentano" più di casa a New York o a Los Angeles che a
Praga o a Budapest (per non dire a Kiev, Istanbul, Gerusalemme) è la spia di un
oblìo radicale delle proprie radici e della propria identità. Barbaro non è chi
viene da lontano, ma chi dimentica e rinnega le proprie origini, diceva
qualcuno. A forza di sorbirci film e telefilm americani, di ascoltare musica
americana, di leggere romanzi americani, di comprare jeans e magliette
americani (o con scritte americane) abbiamo finito per perdere i legami con la
nostra civiltà e la nostra storia. Anche l'espressione "America", del
resto, è un falso storico: "America" è quel continente che va dallo
Stretto di Behring al Capo Horn ed è, quindi, per oltre due terzi (dal Capo
Horn al Rio Grande) di lingua e cultura latina (e un'altra enclave latina è in
Canada, nel Québec francofono). Ma per noi gli Stati Uniti sono diventati
l'America tout-court,
così come il grido di Monroe "l'America agli Americani" voleva dire,
ed è stato in pratica, "l'America allo zio Sam": e il primo a farne
le spese è stato il Messico che, col Tratto di Guadalupe-Hidalgo del 1848, ha
lasciato nelle sue poderose mandibole una buona metà del suo territorio (per
non parlare dei legittimi abitanti del nord America, quei
"pellerossa" che gli Statunitensi hanno semplicemente cancellato,
come se l'immenso territorio fra l'Atlantico e il Pacifico fosse res nullius, terra di
nessuno).
Ora, c'è una cosa che distingue
profondamente la pax americana,
imposta all'Europa occidenale nel 1945 e a quella centro-orientale
nel 1991, dalla pax macedonica sulle
poleis greche, o dalla pax
romana sull'intero bacino mediterraneo, o dalla pax mongolica su gran parte
dell'Eurasia e perfino dalla pax
hispanica di Carlo V e Filippo II: l'ipocrisia, la pretesa di una
superiore moralità, di un peso di civiltà auto-evidente. Figlia, in questo,
della pax britannica dell'età
vittoriana, quando un quarto delle terre emerse (un quarto delle terre emerse!) godevano del
privilegio di prosperare all'ombra dell'Union Jack, la pax americana si autoalimenta
di un circolo "virtuoso" di presunzione ideologica e schiacciante
superiorità economica, incarnando il dèmone della modernità nella sua forma più estrema e brutale.
Nata con i due funghi di Hiroshima e Nagasaki (e oggi, finalmente, sappiamo
quanto furono irrilevanti le pretese "ragioni militari" nell'impiego
dell'atomica, di contro a quelle politiche e psicologiche), la pax americana ha potuto
realizzare un inganno pressoché unico nella storia del mondo: travestire
l'imperialismo più sfrenato sotto le vesti rassicuranti e benevole di un potere
umanitario e paternalistico che esercita la polizia dell'intero pianeta al solo
fine di mantenere pace, democrazia e benessere per il più gran numero possibile
di abitanti della Terra.
Tony Blair
Abbiamo così assistito senza batter ciglio,
anzi prendendo la propaganda più rozza e spudorata per oro colato, allo
spettacolo straordinario di un popolo, nei cui cromosomi vi è il doppio,
incancellabile crimine della schiavitù dei neri e del genocidio degli Indiani,
ergersi a supremo giudice e giustiziere di tutti i crimini contro l'umanità,
come la "pulizia etnica" di Milosevic nel Kosovo, o di Saddam Hussein
nel Kurdistan; e farsi esportatore, con le buone o con le cattive,
dell'economia di mercato, cioè della rapina mondiale delle multinazionali, e
della democrazia, cioè di un sistema politico attualmente basato sulla
manipolazione sistematica della "verità" e sull'inganno demagogico
che rende possibile la dittatura de
facto di potenti lobbies
finanziarie che agiscono nell'ombra. Per decenni abbiamo fatto il
tifo, nelle sale cinematografiche, per i cow-boys
leali e coraggiosi che devono difendersi da orde di indiani
incivili, crudeli e sleali; salvo poi, con Soldato
blu di Raplh Nelson, obbedire altrettanto ciecamente al contrordine
e piangere la triste sorte del "buon selvaggio" di rousseiana
memoria: tutto previsto e tutto calcolato dall'industria hollywoodiana,
l'importante è il business.
Per decenni abbiamo fatto il tifo per i "buoni" marines che liberavano
l'Europa dall'incubo nazista; dimenticando i criminali bombardamenti con bombe
incendiarie sulle nostre città, la fucilazione dei soldati italiani fatti
prigionieri durante lo sbarco in Sicilia, le stesse bombe atomiche lanciate su
due città giapponesi indifese e abitate solo da anziani, donne e bambini… Per
decenni i nostri capi di Stato si sono profusi in ringraziamenti ai presidenti
americani per averci "liberati" nel 1943-45 e hanno deposto fiori
sulle tombe dei ragazzi yankee
caduti sulle spiagge di Normandia: dimenticando che se gli Stati Uniti hanno
avuto 50.000 morti in tutta la seconda guerra mondiale (compreso il
fronte del Pacifico), l'Unione Sovietica, per esempio, ne ha avuti 20 milioni,
oltre metà dei quali erano civili.
E ancora: per decenni abbiamo ringraziato
gli Americani per l'ombrello atomico che ci offrivano generosamente,
spalancando loro enormi basi militari, terrestri, navali ed aeree, sacrificando
un pezzo dopo l'altro della nostra sovranità e dignità, tollerando interferenze
politiche d'ogni sorta, ricatti e minacce, complotti dei servizi segreti
statunitensi e beffarde violazioni del codice penale (quanti Italiani si ricordano
ancora della strage del Cermis? Eppure son passati pochi anni, e tutto si è
concluso in una farsa ingiuriosa). Per decenni, affascinati da Fonzie e da Gary
Cooper, da Luois Armstrong e da Andy Warhol, abbiamo pensato che americano è bello, che non ci
può essere niente di più intelligente che masticare chewin-gum o bere Coca-Cola, indossare magliette targate Berkeley o pettinarci come
Elvis Presley e ballare come John Travolta. Nell'Editto di Teodorico si legge che il re
"barbaro" considerava degno di elogio il Goto che voleva assomigliare
a un Latino, meritevole di disprezzo il Latino che volesse somigliare al Goto.
Noi non ci siamo vergognati di voler assomigliare ai barbari e, horribile dictu, in tale
operazione - anche quand'era più grottesca, come nel celebre film di Alberto
Sordi - ci siampo piaciuti, stregati
dal caratteristico autocompiacimento che gli Americani mettono sempre in tutto
quello che fanno, anche nelle cose più banali, squallide e perfino nefande. Non
abbiamo visto quei sorrisi di compiacimento stampati sulle facce dei
torturatori e delle torturatrici di Abu Grahib, addirittura accanto a mucchi di
cadaveri martoriati e oltraggiati?
Alcune stime indicano in circa 900 le basi americane fuori dai confini USA
Dicevamo che uno dei segreti del successo nel
presentare la pax americana non
come l'imperialismo più totalitario nella storia del mondo (Tacito, per bocca
del capo britanno Calgaco, diceva che i Romani volevano sottomettere e
devastare anche i deserti; oggi si potrebbe dire che il Sistema Solare non
basta alle brame imperialistiche a stelle e strisce) è il suo carattere di
estrema modernità. L'americanismo,
anzi, è la quintessenza della modernità: cioè di quella parabola storica che,
iniziata in Europa con la cosiddetta Riviluzione scientifica del 1600, si è
caratterizzata sempre più come un valore autoreferenziale basato sulla visione
del mondo desacralizzata, riduzionistica, meccanicistica, edonistica,
individualistica, prona adoratrice della velocità, della tecnica e del dio
denaro. L'America, insomma, piace perché è moderna;
il turista europeo preferisce i grattacieli di Manhattan o le spiagge di Malibu
perché sono l'incarnazione di ciò che è moderno; mentre Vienna o Budapest sono
terribilmente démodé;
Bucarest e Belgrado sono Terzo Mondo; Mosca è Asia Delhi e Pechino sono aliene,
lunari, extraterrestri. Nel mito dell'America gli intellettuali europei (anche
quelli più colti e raffinati, come lo erano, per fare solo qualche nome,
Mario Soldati, Giuseppe Prezzolini e Cesare Pavese) hanno voluto vedere solo il
vitalismo di Walt Whitman, l'abolizionismo di Abraham Lincoln, il pragmatismo
di John Dewey, il New Deal di
Franklin Delano Roosevelt, il volto buono e onesto degli eroi di cartapesta del
cinema: Spencer Tracy, Henry Fonda, Humphrey Bogart.
Senonché, l'avvento della modernità
è stato l'inizio dell'agonia della civiltà europea. Il filosofo George Berkeley
lo aveva intuito e sperava di fondare una missione alle Isole Bermude, in pieno
XVIII secolo, per offrire all'Occidente la possibilità dii ripartire daccapo, a
contatto con le forze "fresche" dei popoli amerindi, non ancora
guasti dal materialismo, dal meccanicismo e dal nichilismo. Per l'Europa,
quindi, l'aver reciso i profondi e antichissimi legami con l'Asia e aver
idolatrato il Vitello d'Oro dell'America ha svolto la funzione di alienare
definitivamente gli elementi tradizionali ancor presenti nella propria civiltà
- amore e rispetto del passato, fierezza del presente, fiducia nel futuro - per
arrendersi senza condizioni alle forze demoniache di uno sviluppo senz'anima,
di una tecnologia senza senso etico, di un attivismo senza scopo, di una
mercificazione autodistruttiva e necrofila. Il mondo ha perso il suo alone
sacrale, la sua luce misteriosa si è spenta insieme alla perdita del senso del
limite e del senso del mistero. Why
not?, "perché no?" è diventato la bandiera dell'Occidente
sradicato, ottenebrato, stravolto: se esistono i mezzi per farlo, perché non
farlo? E tutto è divenuto lecito, tutto ha trovato una giustificazione
utilitaristica: buono è ciò che "funziona" (dunque la scienza, in
primo luogo: o meglio questa scienza
riduzionistica e quantitativa affermatasi dopo Galilei, Cartesio e Francesco
Bacone), "cattivo" ciò che non dà risultati immediati, che non
produce utili.
Donald Trump
Viviamo, diceva Guénon, nel triste e
miasmatico regno della quantità,
che celebra nella società di massa, nella scuola di massa, nel
turismo di massa, nella cultura (sic) di massa, i suoi malinconici riti e i suoi
amari trionfi. L'Europa non ha più un'idea:
tutto ha svenduto - lei che è stata la patria di Aristotele e di Virgilio, di
San Francesco e di Dante, di Erasmo da Rottedram e di Leonardo, di Shakespeare
e di Bach - in cambio di un piatto di lenticchie: ha abbandonato il sontuoso
palazzo che abitava, pieno di luce e di bellezza, per ridursi a vivere nel buio
delle fetide cantine. La parabola della civiltà europea è la parabola della
modernità eretta a valore assoluto, dove - come affermava Romano Guardini -
l'individuo si crede sempre più libero, mentre è sempre più schiavo di
meccanismi standardizzati e impersonali, di un sistema capillare di tipo
burocraticoi ed economico che riduce i valori a numeri, dove la funzione
prevale sul significato; dove il singolo,
per dirla con Kierkegard, è sempre più appiattito e annullato da una massiccia
e sistematica omologazione. Il sogno nietzschiano dell'Oltre-uomo si è spento
nell'umiliazione dell'autoimbarbarimento consapevole e compiaciuto; così come
il sogno leopardiano dell'ultra-filosofia (di un sapere, cioè, capace di
riunire ragione e poesia, per ritrovare il legame perduto con la natura)
è tristemente tramontato nel trionfo di uno scientismo becero e triviale, che
tutto appiattisce sul metro di un logos
strumentale e calcolante, che trasforma i valori in interessi e
riduce l'uomo a strumento della sua stessa tecnica.
Ma è tempo di reagire. Non possiamo
semplicemente cavalcare la
tigre (come pensava Julius Evola), perché non possiamo permetterci
di attendere passivamente (e magari di affrettare) l'esito catastrofico di
questa corsa del treno impazzito della modernità, lanciato a tutta velocità su
di un binario morto. No, non c'è più tempo per lasciare che la civiltà europea
tocchi il suo Nadir:
forse non vi sarebbe più un nuovo inizio. L'apprendista stregone si è
spinto troppo oltre, ha evocato forze troppo potenti che non sa più controllare
e che stanno per travolgerlo irreparabilmente. Forse è già accaduto: Platone,
narrando il mito di Atlantide, dice che quella gloriosa civiltà finì per
autodistruggersi in un eccesso di hybris,
quando i suoi sapienti imboccarono la pratica della magia nera e scatenarono le
forze della natura, che sommersero l'intero continente. Noi, però, non dobbiamo
permettere che si arrivi a quel punto, se abbiamo abbastanza coraggio e
lucidità per arrestare la marcia alla catastrofe. Forse il Kali Yuga che è alle porte
vedrà comunque il tramonto definitivo della civiltà europea: europea e non
occidentale, perché con il secondo termine si comprende anche quella
"americana" che però, a ben guardare, è molto più lontana - quanto ai
valori - di quel che non si immagini comunemente (un esempio per tutti: la pena
di morte, che la coscienza europea ha respinto dai tempi di Cesare Beccaria e
che invece piace tanto agli Americani). Tuttavia, noi Europei dobbiamo trovare
in noi stessi la forza di reagire a questo gioco al massacro che consiste in
una accelerazione sempre maggiore lungo le strade della modernità. E per far
questo è necessario riscoprire le nostre radici che, per quanto soffocate dai
rovi e avvelenate dagli scarichi inustriali, sono forse ancora vitali.
Logo della società segreta Skull and Bones (Teschio e ossa)
All'interno di una tale volontà e
di un tale progetto, riscoprire la stretta via degli Urali e abbandonare
l'ampia via dell'Atlantico potrebbe costituire una delle strategie per la
salvezza. Immensi sono i tesori di cultura, di saggezza, di amore per la verità
che le civiltà asiatiche hanno ancora da offrirci, per quanto esse stesse siano
minacciate, in misura maggiore o minore, dalla nostra stessa malattia: una
americanizzazione selvaggia e frenetica, un corsa al produttivismo e
all'efficientismo sul cui altare si sacrificano gli enti e i valori senza
rimorso e senza rimpianto. E non solo le grandi
civiltà, ma anche le piccole
hanno molto da insegnarci. È noto, ad esempio, che lo tsunami dell'Oceano Indiano
in un solo luogo non ha fatto alcuna vittima: nelle "selvagge" isole
Andamane, i cui abitanti - fermi a un livello di civiltà materiale che si
sarebbe indotti a definire primitivo - hanno sentito
l'avvicinarsi dell'onda devastatrice e sono stati in grado di
mettersi in salvo: senza apparecchiature tecnologiche, senza strumentazioni
scientifiche, perfino senza telefono e senza telegrafo.
C'è una profonda lezione in tutto ciò, se la
sappiamo comprendere. Che non è e non può essere quella di rinnegare la facoltà
della ragione, ma di riportare il pensiero scientifico entro una prospettiva
più ampia, ove non siano ignorate o derise le istanze sovra-razionali, ma dove
tutte le facoltà umane trovino la possibilità di esplicarsi, progredire e
abbellire la nostra vita, dandole senso e valore. La via degli Urali, la via
del Caspio e del Volga, non è solo la via di Attila e di Gengis Khan; è anche
la via del ritorno a casa, alla nostra identità,
alle nostre radici.
C'è - in particolare - un delitto di cui
dobbiamo purificarci, dopo aver fatto la debita espiazione: l'assassinio della
civiltà contadina. La sua morte è stata silenziosa, come scrive Ferdinando
Camon, ma tutt'altro che naturale: è stata un autentico delitto, consumato
nella nostra più completa indifferenza. Il disastro del Vajont ne è un simbolo:
l'ebbrezza della tecnica e della sete di guadagno ha letteralmente travolto il
mondo contadino della media valle del Piave, colpevole di essere rimasto
sostanzialmente al di qua della modernità. Nulla potremo costruire, se non
comprenderemo il male che abbiamo fatto a noi stessi sacrificando la nostra
tradizione in nome di un progresso puramente economico. Certo, la civiltà
contadina non potrà ritornare a vivere. Ma, così come nella vita del singolo,
nella vita dei popoli gli errori e le colpe devono essere affrontati,
razionalizzati, gestiti, senza di che non sarà mai possibile ritornare a
un'esistenza normale. Il sangue sparso di Abele non chiede vendetta, ma chiede
espiazione. Solo una società posseduta, alla lettera, dalle forze del male, non
sa riconoscere i propri misfatti e crede di poter giocare con le spoglie delle
sue vittime. I membri della società segreta americana Teschi e ossa, di cui fanno
parte personaggi come Bush padre e figlio e il cui fine è il dominio mondiale
di una élite occulta,
prestano giuramento sul teschio del valoroso capo indiano Geronimo. E gli
elicotteri da combattimento statunitensi che portano distruzione e morte in
Afghanistan e in Iraq si chiamano Apache:
che ne diremmo - osserva Noam Chomsky - se i nazisti avessero scritto
"ebreo" sulla fusoliera dei loro famigerati Stukas? Neppure i nazisti
avevano spinto la loro impudenza fino a un tal punto.
Tornare a casa, dunque. Dopo tanto
distruggerre, ricostruire. Dopo tanto cementificare, piantare alberi. Dopo tanto
correre, fermarsi e riflettere. Dopo tanta violenza stupoida e inutile,
riscoprire il vero valore della pace: non come assenza di guerra, ma come
rimozione delle cause dell'odio, dell'invidia, della vendetta e, soprattutto,
dell'avidità. Come diceva Dante nella profezia del Veltro, è la lupa, cioè la
cupidigia, il nostro peggior nemico: ed è dentro
di noi, non fuori. Non è Bin Laden, non è il terrorismo, non è
neanche il fondamentalismo islamico. Uomini politici come Bush e Blair
vorrebbero farci credere che la priorità, per l'Occidente (loro usano a ragion veduta
questa espressione, poiché vorrebbero arruolarci nella loro folle
crociata) è quella di affrontare una minaccia che incombe dall'esterno e che
esso deve perciò difendersi, stringendo i ranghi e intensificando i legmi fra
Europa e America. Non è vero. Gli interessi dell'Europa non coincidono con quelli
degli Stati Uniti. Per l'Europa, la proprietà è ritrovare sé stessa. E per far
questo non deve costruire muri, ma gettare ponti. La paura è figlia dell'odio e
produce soltanto frutti amari. L'Europa non ha bisogno di odiare nessuno perché
è abbastanza grande da riprendere la sua funzione spirituale, che è stata il
suo vero titolo di gloria nei secoli. Sono i piccoli botoli ringhiosi, come
Bush padre e figlio, che sanno soltanto odiare e seminare incertezza e
spavento. Lasciamoli condurre la loro piccola politica per i loro meschini
interessi; l'Europa ha ben altro di cui occuparsi: deve sapere guardare
lontano, deve saper pensare in grande.
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