Merito ed eredità: perché va ripensata la tassa di successione
«Eliminare la tassa di successione sarebbe un terribile errore, equivarrebbe a comporre la compagine statunitense per i Giochi Olimpici del 2020, selezionando i primogeniti di coloro che vinsero la medaglia d’oro nei Giochi Olimpici del 2000. Senza la tassa di successione, si ha di fatto un’aristocrazia di ricchezza, che significa tramandare di generazione in generazione il potere di gestire le risorse di una nazione secondo criteri ereditari, non di merito».
No, non l’ha detto un marxista. Queste sono parole di Warren Buffett, considerato per anni l’uomo più ricco del mondo, che esprimeva così la sua opinione in un’intervista al New York Times contro l’abolizione della tassa di successione, proposta e attuata dal governo Bush durante il suo primo mandato da presidente. L'affermazione di Warren Buffett è acuta, ma non sorprendente.
È piuttosto intuitivo che un mondo dove conta infinitamente di più nascere in una famiglia di un contesto socio-economico agiato piuttosto che sudare quotidianamente un salario non costituisca esattamente il dominio della meritocrazia. Di qui, l’idea che la tassazione dell’eredità sia coerente con un approccio liberale alla distribuzione della ricchezza: tasso ciò che, similmente alla definizione economica di esternalità, costituisce un guadagno senza un prezzo, un privilegio non frutto di merito e fatica.
Un mondo dove conta di più nascere in una famiglia agiata, piuttosto che sudare quotidianamente un salario, non costituisce esattamente il dominio della meritocrazia
Il dibattito intorno alla tassazione dell’eredità è stato recentemente riesumato grazie a Thomas Piketty, che ha dedicato un intero capitolo del suo bestseller Il Capitale nel XXI secolo ad esaminare le dinamiche storiche di accumulazione di patrimoni attraverso le successioni e ad argomentare la sua posizione in favore di una tassazione progressiva dell’eredità. Come Piketty sostiene amaramente nel libro, si ha l’impressione che il mondo di oggi offra incentivi più forti a trovare una moglie ricca piuttosto che a investire sulla propria formazione o in un’impresa, un po’ come avveniva nella Francia aristocratica del XVIII secolo, raccontata da Balzac in La Comédie Humaine.
È drammatico pensare che i livelli attuali di mobilità intergenerazionale possano essere paragonati a quelli della Francia dell’Ancien Régime e che la successione della ricchezza, più che il merito e l’intraprendenza personale, possano determinare una parte sostanziale di disuguaglianze nel 2015.
Tra le proposte fatte da Piketty nel suo voluminoso Capitale, quella di un’imposta sull’eredità è probabilmente una delle meno utopistiche, condivisa nel mondo accademico da anche economisti di scuole diverse. Ma quali sono quindi gli ostacoli politici ed economici all’introduzione di un’imposta progressiva sull’eredità?
Alcuni oppositori la considerano una “tassa sulla morte”, e un’immorale intrusione da parte dello Stato nel rapporto di successione tra padre e figlio, considerato come diritto naturale e non come diritto civile regolabile dallo Stato. Una considerazione più tecnica riguarda gli effetti distorsivi sugli incentivi comportamentali che una tassa di successione potrebbe comportare: non potendo lasciare tutto in eredità ai figli, un individuo sarà portato a spendere, oppure a cercare di eludere la tassazione, attraverso donazioni compiute prima di finire morto e “tassabile”.
Inoltre, una tassa di successione non è semplice da giudicare anche in termini di puro principio di equità. La motivazione principale di una tassazione sull’eredità è, come abbiamo detto, stimolare la mobilità sociale inter-generazionale e garantire una società più eguale e mobile nel divario ricchi-poveri. Questo fine è coerente con il principio di “equità verticale”. In aggiunta, il principio dell’“equità orizzontale” suggerirebbe che persone con lo stesso status non debbano essere sottoposti a trattamenti ingiustificatamente diseguali. Perché allora due cittadini, egualmente ricchi o egualmente poveri, dovrebbero essere tassati diversamente nel caso in cui, ad esempio, uno lasciasse in eredità al figlio i propri averi mentre l’altro decidesse di spenderli o donarli in beneficenza?
Tuttavia, se il nostro punto di vista si sposta sulle nuove generazioni, l’argomento di equità orizzontale è capovolto: l’eredità non tassata costituisce un forte elemento di diseguaglianza tra persone che fino al giorno prima erano economicamente, socialmente e meritocraticamente identiche. Inoltre, non necessariamente una tassa sull’eredità romperebbe quella continuità familiare di valori, morali e monetari, che così a fondo permea la nostra società. Una tassa sull’eredità economica potrebbe addirittura incentivare, come forma di trasferimento esente da tasse del proprio patrimonio ai propri figli, l’investimento nell’educazione, nelle relazioni e nel benessere dei propri figli, contribuendo tra l’altro a “sbloccare” la grande ricchezza privata italiana e a reinserirla nei consumi e nell’economia.
La tassa di successione si potrebbe configurare come un simbolo di una mutata cultura di sinistra
Da un punto di vista politico, infine, la tassa di successione si potrebbe configurare come un simbolo di una mutata cultura di sinistra: dall’uniformante uguaglianza di risultati, a un nuovo focus di uguaglianza di opportunità. Sarebbe un buon segnale di scossa “generazionale”, in un Paese dove spesso un giovane adulto conta troppo, volente o nolente, sulla casa e sui finanziamenti dei genitori o sulla raccomandazione del parente.
Per chi eredita, l’Italia è un paradiso fiscale
L’imposta di successione e donazione in Italia fu abolita dal governo Berlusconi nel 2001, e reintrodotta in misura limitata da Prodi nel 2006, permettendo il taglio del cuneo fiscale. La tabella sotto mostra l’aliquota massima in ciascuno dei 19 Paesi che adottano una tassa di successione. L’Italia è al 4%, mentre Francia, Regno Unito, Stati Uniti, Spagna e Germania risultano molto più in alto in questa classifica. Oltre all’aliquota, è importante prestare attenzione anche alla soglia di esenzione che i paesi applicano alla tassa. Nel caso italiano è garantita l’esenzione completa per patrimoni al di sotto del milione di euro. Per chi eredita siamo, insomma, un paradiso fiscale.
Peccato che per chi lavora e per chi fa impresa l’Italia riservi invece una pressione fiscale ineguagliata nelle grandi economie. Senza contare il debito pubblico che lasciamo “in eredità” alle future generazioni. Questo periodo, in cui si cerca di spostare il dibattito dalle pensioni alla scuola, dalle rendite alle opportunità, potrebbe essere il momento di cominciare seriamente a discutere della reintroduzione di una imposta progressiva di successione.
Anche durante il festival dell’economia di Trento, quest’anno incentrato sul tema della mobilità sociale, interventi come quelli di Piketty e Joseph Stiglitz, ma anche di Tito Boeri o di Carlo Cottarelli hanno ricordato i motivi per cui l’Italia è al terzultimo posto tra le economie sviluppate quanto a mobilità sociale. Il nostro paese tassa il lavoro come o più della rendita (sia essa da capitale o da eredità), ha un sistema produttivo ingessato ed un sistema educativo poco efficace nell’offrire eguali opportunità a tutti. Cominciamo con il ripensare il nostro sistema educativo (soprattutto universitario), liberare il lavoro e tassare le successioni. Potremmo accorgerci di aver intrapreso la giusta via per costruire un paese più dinamico ed equo.
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