Algeria:
l’iceberg che potrebbe affondare Emmanuel Macron
L'Algeria è un paese africano troppo spesso inopportunamente
trascurato a livello mediatico, del quale per conseguenza l'opinione
pubblica italiana è ben poco informata. Grande otto volte l'Italia come
estensione territoriale, possiede le Forze Armate più potenti di tutto il
continente africano, quasi il 5% della popolazione è in servizio permanente
effettivo, cioé circa 2 milioni di militari ben armati distribuiti nelle
tre Armi convenzionali, in particolare l'Esercito. E' per questo che fin
dai tempi dell'indipendenza dalla Francia nel 1962 per volontà dell'allora
presidente De Gaulle, al governo del paese nordafricano ci sono sempre stati militari o
filomilitari, che determinano la politica nazionale. Se il paese dovesse
divenire instabile, a causa della prevalenza dei gruppi islamici più reazionari,
le conseguenze per la Francia sarebbero gravissime, come ben spiegato nel
sottostante articolo. Quando, seppur raramente, i media riportano di
rivolte nei quartieri periferici francesi contro le istituzioni, vere e
proprie guerriglie civili con tanto di distruzione di mezzi e
infrastrutture civili e ostilità violenta verso le forze dell'ordine, si
accenna agli immigrati che popolano tali quartieri, andrebbe tradotto
prevalentemente per algerini, in quanto sono la metà degli immigrati e
mussulmani francesi presenti sul territorio nazionale. Una forza pericolosa
e ingestibile, se dovesse aumentare con nuove ondate immigratorie, per la
Francia di Macron, già duramente provata dalla rivolta del Gilet Gialli
diverrebbe la fine. Motivo per cui il piccolo megalomane clonato dai poteri
finanziari internazionali (leggasi in primis Jacques Attali, l'amico di
Soros, che ha creato in "laboratorio" il giovane Macron con
l'aiuto della moglie-madre col doppio dei suoi anni, e lo ha portato alla
presidenza in pochi mesi), le sta provando tutte per recuperare credibilità
internazionale proponendo qualsiasi progetto che possa riportare la Francia
in posizioni di potere e influenza almeno a livello europeo e africano,
senza riuscirci. Come se la perseveranza fosse una virtù, indpendentemente
dalla qualità delle azioni sulle quali si insiste con pervicacia. Claudio
Algeria: l’iceberg che potrebbe affondare Emmanuel
Macron
di SCOTT MCCONNELL
Dopo essere sopravvissuto a diversi tentativi di assassinio da parte dei partigiani
francesi di Algérie Française, Charles de Gaulle, nel marzo 1962, aveva
firmato un accordo di pace che metteva fine alla sovranità francese
sull’Algeria. La guerra per l’indipendenza algerina era stata lunga e
cruenta, segnata dal terrorismo e dalla tortura. Tutti i personaggi di
spicco della politica francese credevano, nel 1954, che l’Algeria fosse una
parte integrante della Francia, da difendere a tutti i costi. Ma, nel 1962,
la loro opinione era cambiata. Con freddo realismo, de Gaulle parlando del
conflitto, giunto al suo settimo anno, aveva detto: “Per quanto riguarda la
Francia, sarà necessario che ora si interessi a qualcos’altro.”
Per la Francia,
dopo la concessione dell’indipendenza all’Algeria, le cose erano andate
bene. Molto meno all’Algeria. Gli Algerini che avevano preso le parti della
Francia, che avevano combattuto nel suo esercito, o servito da
amministratori del governo algerino, avevano fatto una brutta fine; molti
erano stati uccisi in modo efferato dai vincitori assetati di vendetta.
Secondo Savage War
of Peace di Alistair Horne, 15.000 persone erano state uccise
l’estate successiva all’armistizio di marzo.
Uno dei motivi
principali per cui de Gaulle era entrato in disaccordo con i suoi
sostenitori conservatori dell’esercito e si era deciso a negoziare
l’indipendenza dell’Algeria era la sua convinzione che i Francesi e gli
Algerini fossero popoli fondamentalmente diversi. Per lui, l’Algérie
Française, la “Francia
dei cento milioni,” integrata dalla popolazione dell’Algeria e
da vaste riserve di petrolio e di gas, era una completa fantasia. Il suo
collega Alain Peyrefitte ricordava come, nel 1959, [de Gaulle] avesse detto
in privato che si potevano mettere insieme Arabi e Francesi, ma che erano
come l’olio e l’aceto nella stessa bottiglia, dopo un po’ si sarebbero
inevitabilmente separati. Temeva che un’Algérie Française avrebbe
inevitabilmente portato alla trasformazione del suo villaggio natale di
Colombey-les-Deux-Églises in Colombey-Les-Deux-Mosquées.
In ogni caso,
l’Algeria dopo l’indipendenza era rimasta strettamente ed economicamente
connessa alla Francia, sopratutto come principale fonte di lavoratori “temporanei”, una
migrazione che era iniziata durante la stessa guerra algerina. Anche se la
necessità di manodopera operaia era diminuita, la Francia aveva approvato
normative per il ricongiungimento familiare, per consentire ai lavoratori
di sposarsi e portare le loro mogli in Francia, una disposizione che nessun
altro presidente è stato poi in grado di annullare. Ora, in Francia vivono
circa tre milioni di Algerini francesi o con doppia cittadinanza. Il
rapporto della Francia con il governo algerino è di tipo privilegiato: ogni
presidente francese si reca in visita di stato in Algeria nel suo primo
anno di mandato. Il commercio è reciprocamente importante e l’Algeria
svolge un ruolo di primo piano nella politica africana francese, dal
momento che confina con Mali, Niger e Libia. Praticamente, in Francia tutti
coloro che sono attenti agli sviluppi della politica, tranne forse i militanti
islamici, temono molto la prospettiva di una destabilizzazione o di
disordini in Algeria.
Ma ci si
potrebbe comunque arrivare. Abdelaziz Bouteflika, il presidente
dell’Algeria, ha subito un grave ictus sei anni fa ed ora appare raramente
in pubblico. Tuttavia, a 82 anni, lui (o quelli che parlano per lui)
insistono nel dire che sarà in corsa per un quinto mandato presidenziale.
Dal momento che le elezioni in Algeria sono tutto meno che libere, con il
partito al governo che ha il pieno controllo dell’accesso alle cabine
elettorali e del conteggio dei voti, questo significa che la sua vittoria è
prestabilita. Dopo l’annuncio di Bouteflika, centinaia di migliaia di
Algerini sono scesi in piazza in proteste animate ma pacifiche nelle città
di tutto il paese. Ad essi si sono uniti i loro confratelli delle città
francesi.
Pochi sembrano
rendersi conto del vero equilibrio di forze nella politica algerina: esiste
un potente apparato statale legato all’esercito, ma nessun partito politico
forte. Gli Islamisti avevano vinto il primo turno nelle elezioni
legislative del 1991, e la cosa aveva indotto l’esercito ad organizzare un
colpo di stato, che aveva dato inizio ad una brutale guerra civile. Sei
anni dopo, un partito legato all’esercito aveva vinto le elezioni
legislative e, nel 1999, Bouteflika era stato eletto alla presidenza e
aveva avviato una sorta di riunificazione nazionale attraverso un’amnistia.
Ed è sempre questo Bouteflika, una giovane avanguardia del movimento di
liberazione algerino negli anni ’60, una figura conciliante dopo la guerra
civile degli anni ’90, ed ora ottuagenario prestanome di un regime da tutti
considerato corrotto, che siede in cima alla struttura di potere
dell’Algeria, come un tappo su un bottiglia. E nessuno sa cosa succederà quando
il tappo verrà tolto.
In Francia, il
governo del presidente Emmanuel Macron ha richiamato la scorsa settimana il
suo ambasciatore per consultazioni, e gli specialisti regionali stanno
dicendo, forse sperandolo, che gli Islamisti non sono poi così popolari
come lo erano negli anni ’90. Nessuno sa esattamente quali siano le
analogie rilevanti. La Primavera Araba, che aveva in seguito portato alla
dittatura militare in Egitto e ad una selvaggia guerra civile in Siria, non
sembra una prospettiva promettente. Come non lo era stata la rivolta in
Libia contro Moammar Gheddafi, che aveva causato, dopo che la Francia aveva
dato il proprio sostegno ai ribelli, la sua morte e la distruzione della
Libia come stato funzionante. Il fatto triste è che esistono pochi esempi
fattibili per un cambio di governo nel mondo arabo (si potrebbe sperare
nell’esempio nella Tunisia, anche se è un paese minuscolo rispetto
all’Algeria).
Il romanziere
franco-algerino Boualem Sansal ha colto bene l’incertezza che molti
provano. In una recente intervista
a Le Figaro, ha accolto le massicce dimostrazioni pacifiche come l’uscita
dal letargo da un popolo che merita un governo migliore di quello attuale.
Ha ribadito che l’Algeria è un paese ricco, con un gran numero di persone
istruite e di talento. Ma poi si è chiesto, “come si può passare alla fase successiva,
organizzare elezioni libere, riparare il danno fatto da 57 anni di
dittatura e corruzione, far ripartire il paese sulla base di un progetto
sociale? Chi lo dirigerà? Un altro Bouteflika prodotto in un laboratorio
dei servizi di sicurezza? Un comitato di sicurezza pubblica? Un volenteroso
profeta?”
Sansal ha
aggiunto che gli Islamisti sono sempre in attesa dietro le quinte,
numerosi, organizzati e determinati. L’Algeria, ha continuato, è un paese
mussulmano conservatore. Qui il salafismo è una forza potente, una forza che
il governo ha cercato di contrastare spendendo miliardi per lo sviluppo di
un Islam “vero,”
costruendo numerosissime moschee dotate di aria condizionata per competere
con gli estremisti. Il risultato è che enormi fasce di popolazione si
dedicano quotidianamente a varie forme di esorcismo ed hanno uno scarso
collegamento con la modernità.
Sansal (e molti
altri commentatori) insistono sul fatto che il potere dell’esercito non
verrà meno, esso controlla completamente il paese ed è determinato a
resistere a qualsiasi sfida islamista. Ma riconosce anche che non ha mai
veramente vinto la guerra civile degli anni ’90 e che gli Islamisti non
sono mai stati sconfitti politicamente.
Se l’Algeria
dovesse precipitare nel caos, anche la Francia verrebbe destabilizzata. La
guerra civile aveva provocato un’enorme ondata migratoria; questa volta
sarebbe ancora peggio. Tra i migranti ci sarebbe un gran numero di
Islamisti e con l’immigrazione clandestina i Francesi non potrebbero
controllare tutti quelli in arrivo. E la Francia, almeno in alcuni
quartieri, è già un embrione di repubblica islamica.
Macron riconosce
che l’Algeria potrebbe diventare un iceberg che affonderebbe la sua
presidenza, superando con facilità lo scandalo riguardante la sua guardia
del corpo (l’affare Benalla) e il Gilets Jaunes. La sua amministrazione
sembra divisa fra manifestazioni pubbliche di correttezza politica e
preoccupazioni per l’islamizzazione. Durante la sua campagna elettorale,
aveva fatto il grande gesto di accusare la Francia di “crimini contro l’umanità”
durante il periodo coloniale, poi si era rimangiato la dichiarazione. Uno
dei suoi principali alleati di governo ha detto di recente che non vi è
alcuna reale differenza tra il velo mussulmano e la fascia che portano le
studentesse cattoliche, solo per essere rimproverato subito dopo da un
importante membro di governo di sesso femminile, che aveva osservato che “nessuna donna al mondo è mai
stata lapidata per non aver indossato un fascia per capelli.”
La Francia
ufficiale continua a ribadire il suo sostegno all’autodeterminazione
algerina, mentre teme che gli Algerini possano fare una scelta terribile,
una scelta che priverà la Francia di un valido partner strategico e che
scatenerà una ingestibile ondata migratoria. I giornali conservatori sono
pieni di ammonimenti sulla necessità di un realismo severo, dando
suggerimenti su ciò che una cosa del genere potrebbe comportare. Nel 1830,
l’anno della conquista coloniale, la popolazione della Francia era 17 volte
quella dell’Algeria. Ora è meno del doppio. De Gaulle aveva ragione nel
dire che, liberando l’Algeria, la Francia avrebbe dovuto trovare
qualcos’altro di cui preoccuparsi. Ma, 57 anni dopo, non è così facile.
Scott McConnell
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