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"Ciò che insegui ti sfugge, ciò cui sfuggi ti insegue" (aneddotica orientale, paragonabile alla nostra "chi ha pane non ha denti e chi ha denti non ha pane")

"Quello che mi ha sorpreso di più negli uomini dell'Occidente è che perdono la salute per fare soldi. E poi perdono i soldi per recuperare la salute. Pensano tanto al futuro che dimenticano di vivere il presente in tale maniera che non riescono a vivere nè il presente nè il futuro. Sono come se non dovessero morire mai e muoiono come se non avessero mai vissuto."
(Dalai Lama)

"A l'è mei mangè pan e siuli, putòst che vendsi a quaicadun" (Primo Doria, detto "il Principe")

"Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono. Poi vinci." Mahatma Gandhi

L'Italia non è una nazione ma un continente in miniatura con una straordinaria biodiversità e pluralità antropologica (Claudio Martinotti Doria)

Il proprio punto di vista, spesso è una visuale parziale e sfocata di un pertugio che da su un vicolo dove girano una fiction ... Molti credono sia la realtà ed i più motivati si mettono pure ad insegnare qualche tecnica per meglio osservare dal pertugio (Claudio Martinotti Doria)

Lo scopo primario della vita è semplicemente di sperimentare l'amore in tutte le sue molteplici modalità di manifestazione e di evolverci spiritualmente come individui e collettivamente (È “l'Amor che move il sole e le altre stelle”, scriveva Dante Alighieri, "un'unica Forza unisce infiniti mondi e li rende vivi", scriveva Giordano Bruno. )

La leadership politica occidentale è talmente poco dotata intellettualmente, culturalmente e spiritualmente, priva di qualsiasi perspicacia e lungimiranza, che finirà per portarci alla rovina, ponendo fine alla nostra civiltà. Claudio Martinotti Doria

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Patriă Montisferrati

Patriă Montisferrati
Cliccando sullo stemma del Monferrato potrete seguire su Casale News la rubrica di Storia Locale "Patriă Montisferrati", curata da Claudio Martinotti Doria in collaborazione con Manfredi Lanza, discendente aleramico del marchesi del Vasto - Busca - Lancia, principi di Trabia

Come valorizzare il Monferrato Storico

La Storia, così come il territorio e le sue genti che l’hanno vissuta e ne sono spesso ignoti ed anonimi protagonisti, meritano il massimo rispetto, occorre pertanto accostarsi ad essa con umiltà e desiderio di apprendere e servire. In questo caso si tratta di servire il Monferrato, come priorità rispetto a qualsiasi altra istanza (personale o di campanile), riconoscendo il valore di chi ci ha preceduti e di coloro che hanno contribuito a valorizzarlo, coinvolgendo senza preclusioni tutte le comunità insediate sul territorio del Monferrato Storico, affinché ognuna faccia la sua parte con una visione d’insieme ed un’unica coesa identità storico-culturale condivisa. Se ci si limita a piccole porzioni del Monferrato, per quanto significative, si è perdenti e dispersivi in partenza.

Sarà un percorso lungo e lento ma è l’unico percorribile se si vuole agire veramente per favorire il Monferrato Storico e proporlo con successo come un’unica entità territoriale turistico culturale ed economica …

Il ponte Morandi andava sostituito da tempo, ennesima tragedia italica che si poteva evitare.


Dalle letture superficiali inizialmente pubblicate sui media mainstream, sarebbero emerse addrittura la fake news istituzionali  che attribuivano al fulmine e al nubifragio la causa primaria della tragedia, una versione talmente puerile e inverosimile che mi ha destato una notevole irritazione, per la vergognosa mancanza di rispetto verso le vittime e l'opinione pubblica, considerata alla pari di un gregge di pecore dementi.
Le uniche eccezioni mediatiche sono state quelle che hanno riportato i primi commenti da parte della magistratura inquirente genovese che sta procedendo molto correttamente acquisendo tutti i dati tecnici disponibili, e si sono già fatti un quadro abbastanza preciso e cronologico delle responsabilità nel corso del tempo.
Parrebbe che il ponte Morandi fosse stato concepito in un'epoca in cui i materiali non erano adatti e le tecniche di progettazione e costruzioni per i ponti sospesi, per quanto innovative potessero sembrare, fossero addirittura controproducenti, cioé si sarebbero rivelate pericolose col tempo. Infatti il ponte fin dai primi anni successivi all'inaugurazione ha subito richiesto opere di manutenzione straordinaria, frequenti e molto onerose, per cui molto probabilmente, col senno di poi, sarebbe stato meglio sostituirlo negli anni passati, evitando tragedie e costi eccessivi, per poi doverlo rifare comunque. 
Il punto debole, e lo si sapeva da sempre, era costituito dai tiranti, cioé dai cavi d'acciaio immersi nel calcestruzzo, che si corrodevano in tempi molto superiori al previsto, che su un lato furono già sostituiti e sull'altro stavano per farlo, con qualche annetto di ritardo (per usare un eufemismo), ma il fato inesorabile è intervenuto prima, e vi è stata l'attuale tragedia, molto probabilmente provocata proprio dal cedimento dei tiranti che non sono stati sostituiti. Quindi le responsabilità civili e penali questa volta ci sono e spero proprio che la magistratura vada fino in fondo e con il massimo della severità, e lo stato si costituisca parte civile per ottenere dalla società di gestione della autostrade il massimo del risarcimento dei danni, perché è ora che si capisca che l'omicidio colposo è pur sempre un omicidio, e se si poteva evitare diventa ancor più imperdonabile, che il profitto non può e non deve essere l'unica motivazione imprenditoriale da conseguirsi a tutti i costi, soprattutto mettendo repentaglio vite umane.
Quindi il ponte si sarebbe dovuto abbattere e sostituire già negli anni scorsi, ma per farlo ovviamente ci volevano ingenti risorse che non erano certo disponibili per una società privata, come quella che gestisce l'autostrada, che non aveva alcun interesse ad affrontare un simile investimento, per quanto si sarebbe potuto recuperare dagli eccessivi costi di manutenzione straordinaria e ordinaria che la vetustà del ponte comunque richiedeva. Quindi il problema alla base diviene di tipo politico culturale e sociale: le infrastrutture strategiche per il paese devono e possono essere privatizzate? La mia convinzione è che debbano essere controllate dallo stato. L'Italia avendo svenduto, e sta continuando a farlo, il suo patrimonio e le sue infrastrutture, sta andando incontro a problemi di una gravità inaudita e tragica che col tempo emergeranno sempre più, e dopo aver praticamente regalato le risorse strategiche che possedeva, poi dovrà spendere per riprendersele in carico e risanarle, dopo essere state sfruttate. Il massimo dei paradossi demenziali, sempre a danno dei contribuenti, ovviamente, che in tal caso rischiano pure di morire e soffrire, oltre a impoverire per l'inevitabile aumento della pressione fiscale che ne consegue. 
Sarebbe ora che la politica italiana cambiasse completamente strategia, se mai ve ne fu una, basta con gli aiuti di stato alle banche e alle grandi aziende, i finanziamenti devono andare prevalentemente alla tutela del territorio e della sicurezza pubblica (in ogni ambito, soprattutto nei trasporti), alla sanità e alla cultura (compresa la promozione del turismo), alle piccole e medie aziende e all'artigianato, ecc., se si vuole guardare al futuro, se si vuole che ci sia un futuro.
Claudio Martinotti Doria
Prima

Fonte: Sputnik Italia

Mentre sale il triste bilancio delle vittime provocate dal crollo del ponte Morandi sull’A10 a Genova, è aperta la caccia ai colpevoli e il governo ventila l’ipotesi che la gestione delle autostrade passi allo Stato. Nel frattempo, sorge una domanda cruciale: perché crollano i ponti?
La tragedia di Genova che ha causato più di 30 morti, decine di feriti e sfollati ha aperto il dibattito sulle condizioni dei ponti nel Paese, che hanno raggiunto ormai un'età considerevole, per cui necessitano di regolari manutenzioni e controlli.

Dopo

Per fare chiarezza sul crollo del viadotto Morandi e sulle criticità dei ponti, Sputnik Italia si è avvalso dell'aiuto di tre esperti del settore: Andrea Del Grosso, professore di tecnica delle costruzioni alla Scuola Politecnica dell'Università di Genova, Pier Giorgio Malerba, docente di Bridge Theory and design al Politecnico di Milano, vice presidente di IABMAS (Int.Ass.for Bridge Maintenance, Safety and Management) e Marco Petrangeli, professore di tecnica delle costruzioni all'Università G. D'Annunzio di Pescara, presidente della società specializzata in progettazione di infrastrutture lineari "Integra".

— Professore Del Grosso, il viadotto Morandi era già in precedenza una struttura critica?
— Il problema delle infrastrutture invecchiate è un problema generalizzato in tutta Europa, da decenni si stanno studiando metodi più o meno sofisticati per tenerle sotto controllo. L'Italia è un po'indietro su certi metodi scientifici più avanzati, però la percentuale di ponti in condizioni non buone è alta in tutti i Paesi di antica urbanizzazione. Anche i Paesi come la Cina e la stessa Russia, che stanno rinnovando o ampliando le proprie infrastrutture, sono molto preoccupati per i problemi della durabilità e dei costi conseguenti.

© Sputnik /
 

Sul caso specifico del ponte Morandi bisognerà capire col tempo qual è stata la causa. Si trattava di uno schema strutturale all'epoca molto innovativo, elegante progettato dal grande ingegnere italiano Riccardo Morandi. Sono schemi critici, perché le tecnologie di allora e le conoscenze di calcolo disponibili negli anni '60 erano limitate. Non c'erano all'epoca tutti i metodi di calcolo, i calcoli si facevano a mano. I materiali di allora erano soggetti a degrado per l'azione atmosferica, i carichi autostradali all'epoca erano più modesti rispetto ad oggi. Sicuramente c'erano delle criticità su questo ponte, ciò non significa che necessariamente il ponte dovesse venire giù. C'è stato evidentemente un fenomeno esterno oppure qualche problema di degrado di materiali interni che non aveva dato segnali, il ponte era sotto osservazione. Per esempio la corrosione dei cavi di precompressione non sempre dà dei sintomi.

— I ponti critici andrebbero ristrutturai o demoliti?
— Va valutato sulla base delle condizioni di obsolescenza che può essere fisica e se i costi di manutenzione proiettati negli anni superano il costo di sostituzione, in questo caso certamente è meglio sostituire. Possono anche esistere problemi funzionali, quando l'infrastruttura non soddisfa le richieste dell'utenza. Per il nodo di Genova si combinano tutti e due i problemi, la discussione della sostituzione dura dagli anni '80 per ragioni funzionali. Aspettando sono sopraggiunte anche ragioni fisiche. In uno dei progetti di adeguamento del nodo autostradale di Genova era prevista la demolizione e la sostituzione con un ponte a tre corsie per senso di marcia invece che due, capace di portare traffico maggiore. Per ragioni ambientali questo progetto non è stato approvato.



— Professore Malerba, quali sono le caratteristiche e le criticità tipiche di un ponte? Quanto vive di media un ponte?
— Bisogna distinguere fra le epoche dei ponti. Se parliamo dei ponti moderni nei Paesi industrializzati, in sede teorica, questi ponti sono pensati per circa 100 anni di vita utile in sicurezza a patto che si faccia una buona manutenzione. Nella realtà in Europa e negli Stati Uniti si sta verificando che la vita media è quasi la metà, quindi sui 50 anni. 40-50 anni fa c'era molta confidenza con i materiali utilizzati dopo si è imparato che il calcestruzzo è un materiale vulnerabile all'attacco degli agenti atmosferici, è un mezzo poroso, la penetrazione dell'anidride carbonica ne riduce le capacità di protezione sugli acciai. Cicli di caldo e freddo e disgelo possono innescare la corrosione anche negli acciai.
— Ci sono altri ponti in Italia nello stesso stato del ponte Morandi? Esiste un censimento di queste infrastrutture?
— La situazione in Italia è un po'complessa, perché ci sono ponti che appartengono alle ferrovie e hanno certe procedure di controllo molto rigorose. Lo stesso si può dire dei ponti di tanti tratti autostradali. Ci sono poi però ponti e opere minori che sono in carico alle amministrazioni delle province o dei comuni. Questi non hanno fondi, personale e non hanno tempo di occuparsi anche di questo oltre agli altri problemi da gestire. Ci devono essere fondi adeguati per poter pianificare e intervenire. Tutti i ponti hanno bisogno di controlli e di manutenzione programmata. Ogni amministrazione dovrebbe avere un suo registro di opere, alcune amministrazioni dispongono di liste ben documentate, altre non saprei. La realtà è frammentata.

— Che idea si è fatto dell'incidente di Genova?

© AP Photo / Vigili Del Fuoco

 
— 50 anni sono mezzo secolo e quindi è un'unità di misura della storia e non della cronaca quotidiana. Quando fu concepito rientrava fra i primi grandi ponti strallati costruiti al mondo. Il primo fu costruito fra il '52 e il '55 in Svezia. All'epoca fu una novità. Fu uno schema molto apprezzato dal punto di vista estetico, ma intrinsecamente debole, perché il ricorso a coppie di stralli mette a rischio la struttura se uno strallo si rompe. Basta che si rompa uno strallo, cade una parte della struttura con il rischio che si trascini anche il resto. Un altro problema è la tecnica di precompressione per gli stralli: è unica, è stata usata solo per questo tipo di ponti con l'intenzione di proteggere l'acciaio che c'è dentro e di ridurre le sollecitazioni di fatica. L'esperienza e gli studi successivi hanno dimostrato il contrario, anche questa è stata una scelta infelice. Costruire ponti collegati da giunti che funzionano come cerniere provoca il salto che sentiamo attraversando il ponte. Anche questo rende la struttura meno connessa e quindi si corre il rischio di avere un effetto domino. Il danno non si mantiene limitato, sono opere con scarsa robustezza strutturale. Tutto ciò era già stato segnalato, questa è una partita, l'altra riguarda la manutenzione.



— Professore Petrangeli, qual è la vulnerabilità sismica dei ponti in Italia?
— La maggior parte dei ponti italiani sono stati costruiti negli anni '70, '80 e'90. In quegli anni iniziava ad esserci un minimo di sensibilizzazione al problema sismico. I ponti in generale, soprattutto quelli realizzati in Italia, non hanno dei grossi problemi con la sismica, negli ultimi terremoti italiani non si hanno avuti problemi importanti con le infrastrutture. In Italia si registrano problemi con le case che sono in muratura, la gente dorme in casa e muore. Con i ponti non c'è mai stato un morto, si è trattato di casi isolati.
— Dal punto di vista della sicurezza delle infrastrutture quali sono quindi le maggiori minacce?
— Abbiamo bisogno di intervenire perché molti di questi ponti hanno raggiunto una età per cui iniziano a diventare pericolosi, cioè 50-60 anni. Quando si interviene su questi ponti è molto facile provocare dei danni così com'è successo recentemente in diverse occasioni. I ponti vecchi sono pericolosi, questo è il problema centrale. 



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GENOVA, PONTE MORANDI. UNA TRAGEDIA ITALIANA. Di Roberto Pecchioli

http://www.accademianuovaitalia.it/index.php/storia-e-identita/identita-delle-nazioni-sovrane/6603-una-tragedia-italiana 
 
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Non volevamo crederci. Il crollo del Ponte Morandi, che noi genovesi, con una punta di provincialismo da colonizzati chiamavamo ponte di Brooklyn, è una tragedia sconvolgente, per il suo carico di vittime, dolore, distruzione e per le conseguenze terribili che si trascineranno per anni. Non è il tempo degli sciacalli, ma dei soccorsi, del cordoglio, dell’aiuto, della collaborazione. Tuttavia, non si può tacere, tenere a freno la collera per un’altra tragedia sinistramente italiana: un’opera di quell’importanza non può crollare dopo soli 50 anni. Per chi scrive c’è un che di personale, quasi di intimo nel dolore di queste ore. Bambini, partecipammo nel 1967 all’inaugurazione del ponte con tutte le scolaresche di Genova. Muniti di bandierina tricolore, appostati di fronte al palco, seguimmo la cerimonia, vedemmo con la meraviglia dell’età il presidente della repubblica Giuseppe Saragat attorniato da uomini in alta uniforme e dall’imponente figura del grande cardinale Siri, storico arcivescovo della città.
Abbiamo percorso migliaia di volte quel ponte lunghissimo, settanta metri sopra la vallata del torrente Polcevera piena di case popolari e capannoni industriali della ex Superba, ogni giorno per decenni lo abbiamo visto e sfiorato andando al lavoro. Non c’è più ed è colpa di qualcuno. Parlano di fulmini, di un intenso nubifragio e di cedimento strutturale. Aspettiamo a tranciare giudizi, ma nel mattino della vigilia di ferragosto pioveva e basta. Nessuna alluvione, dagli anni 70 ne ricordiamo almeno sei, devastanti, nella città di Genova. Non sappiamo quanti fulmini si siano abbattuti in mezzo secolo sul manufatto dell’ingegner Morandi (pochi sapevano che a lui fosse intitolata l’opera), né quanta pioggia abbia bagnato da allora le imponenti strutture. Non accettiamo, non riconosceremo mai come valida la sbrigativa giustificazione di queste ore. Sarà qualunquismo da Bar Sport, ma ci risulta che ponti romani siano in piedi da due millenni, e non crediamo nell’incapacità dei progettisti. Però, negli ultimi decenni i crolli sono stati tantissimi, come le tragedie dovute all’incuria, all’insipienza, alla corruzione diffusa.

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Il Ponte Morandi, che i genovesi, chiamavamo ponte di Brooklyn, in una cartolina dei primi anni '70.

Il ponte, con la strada sopraelevata che corre a mare nella zona centrale della città, è l’ultima grande opera di una ex grande città. Nel 1967, Genova era un polo industriale con centinaia di fabbriche, importanti compagnie navali (l’armatore Angelo Costa fu per decenni presidente di Confindustria) la sede europea di multinazionali come Shell, Mobil, Esso, i cantieri navali, il gruppo Ansaldo, il porto più importante del Mediterraneo. Dopo la strada “camionale” del 1935 verso l’appennino, per realizzare la quale con sbocco sul porto fu spianata la montagna di San Benigno che divideva Genova dal suo ponente, il ponte rappresentava l’infrastruttura base per collegare finalmente la Liguria e l’Italia con la Francia. Mezzo secolo dopo, non abbiamo quasi più industrie, Genova ha perso un quarto dei suoi abitanti, è unita al Norditalia, pardon divisa dall’area più produttiva del paese dalla stessa strada degli anni 30, mentre la ferrovia per la Francia ha ancora un lungo tratto a binario unico. Identica sorte per i collegamenti tra i porti di Savona e La Spezia e l’entroterra.
Da oggi, dobbiamo sopportare anche la tragedia del crollo della più importante infrastruttura in esercizio, piangere decine di morti e accettare la spiegazione che trattasi di tragica fatalità, pioggia, fulmini e saette. Non ci crediamo perché abbiamo visto all’opera la classe dirigente che ha trasformato in una quarantina d’anni una metropoli in un cimitero. Clientelismo sfacciato, una politica da curatori fallimentari o da necrofori, la grande bruttezza che ha sfigurato il mare e la collina, interi quartieri indegni di una nazione civile, il Diamante, le Lavatrici, il Cep, lo stesso Biscione, parte di Begato, palazzi costruiti esattamente sull’alveo di torrenti pericolosi, con le ricorrenti tragedie di cui siamo stati testimoni. 

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Quale verità? Parlano di fulmini, di un intenso nubifragio e di cedimento strutturale. Non accettiamo, non riconosceremo mai come valida la sbrigativa giustificazione di queste ore. Sarà qualunquismo da Bar Sport, ma ci risulta che ponti romani siano in piedi da due millenni, e non crediamo nell’incapacità dei progettisti.


I genovesi, o quel che ne resta, hanno affidato per decenni città, provincia e regione a una classe politica di livello infimo, che ha trascinato in basso il ceto economico e finanziario. E’ crollata l’industria pubblica, la vecchia Cassa di Risparmio, ora Carige, tanto importante da detenere il 4 per cento di Bankitalia, è nella bufera da anni per affari vergognosi, deficit mostruosi e dirigenti condannati in sede penale. La vecchia Italsider, ora Ilva, in gran parte è stata smantellata e quel che resta è sotto minaccia di chiusura. Al suo posto abbiamo una strada a scorrimento (relativamente) veloce, un piccolo sollievo ora che non c’è più il ponte. Il cosiddetto Terzo Valico, ovvero la linea veloce per Milano, in ritardo di almeno 30 anni, va avanti piano, tra polemiche e denari che vanno e vengono. La multinazionale Ericsson ha suonato la ritirata, distruggendo le speranze di un’ “industria pensante” che a Nizza, 190 chilometri da qui, è realtà da decenni ( Sophie Antipolis).
Madamina, il catalogo è questo. Su tutto ciò si abbatte un evento funesto e terribile come il crollo del nostro ponte di Brooklyn. L’autostrada che porta alle luci di Sanremo e all’inferno migrante di Ventimiglia era considerata la più cara d’Italia. Un dubbio privilegio. Ma dov’erano i politici liguri il cui compito era imporre la manutenzione, sorvegliare le infrastrutture di una terra che vive essenzialmente di due attività, il turismo e i trasporti? Abbiamo quattro porti mercantili, raggiungere i quali sino a oggi era difficile, adesso è un’impresa da premio Nobel; alcune delle nostre località sono mete turistiche internazionali, Portofino, le Cinqueterre, Alassio, la Riviera dei Fiori. Ma, dicono le autorità preposte, è bastato un fulmine durante un temporale estivo ad abbattere per duecento metri, esattamente al centro, un ponte costruito decenni dopo il vero ponte di Brooklyn e molti secoli dopo la Lanterna, che guarda dall’alto, illumina le vergogne e ne ha viste tante.
Una tragedia italiana, metafora e paradigma di una decadenza iniziata giusto pochi anni dopo la trionfale inaugurazione del ponte. Una città, Genova, che ha anticipato storicamente eventi di portata nazionale. I primi a volere l’unificazione della Patria, i primi nell’industria e nel commercio, ma poi i pionieri della denatalità, del degrado dei centri storici (con Genova, Ventimiglia), della deindustrializzazione, i settentrionali assistiti quasi quanto certe aree del Sud, l’arretratezza delle infrastrutture, i giovani che scappano. Fummo anche tra i primi ad affidarci politicamente alla sinistra, quando ancora le cose andavano bene. Si trattava di una sinistra in gran parte comunista, astiosa, dogmatica, chiusa, testarda. Nessun paragone con le classi dirigenti delle tradizionali regioni rosse, più pragmatiche dei plumbei apparatchik liguri.
Hanno regnato su un giardino e lo hanno trasformato in cimitero. Non diciamo e non pensiamo che buttino giù i ponti, ma sta di fatto che le pochissime opere realizzate nell’ultimo mezzo secolo sono le bonifiche delle aree industriali dismesse, al posto delle quali sono sorti poli commerciali legati ai soliti noti (Coop e affini) e varie colate di cemento per erigere imponenti centri direzionali in buona parte deserti, poiché c’è davvero poco da dirigere, da queste parti.  Le opere del passato sono obsolete, come l’invecchiata camionale e la ferrovia, l’autostrada che sbocca in porto è un budello pericoloso con code quotidiane di mezzi pesanti, accedere all’aeroporto è impresa acrobatica, nonostante la vicinanza alla città e la possibilità di costruire una bretella ferroviaria di un chilometro o poco più. Della metropolitana genovese il tacere è bello, poiché non solo è tra le più corte dell’universo, ma le sue stazioni sono soggette a frequenti allagamenti. Il ponte che univa le due parti della Liguria da oggi non c’è più.

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E', quella di Genova, una tragedia italiana, metafora e paradigma di una decadenza iniziata giusto pochi anni dopo la trionfale inaugurazione del ponte Morandi.

Viene il magone al pensiero di ciò che era, visto e vissuto con i nostri occhi, e ciò che è, ma ancor più fa tremare la certezza che da molte parti d’Italia altri possano descrivere situazioni analoghe o peggiori. Per questo fa tanto soffrire la tragedia del Ponte Morandi, orgoglioso simbolo caduto della nostra infanzia. Oltre il lutto di tante famiglie, è il segnale, un altro, di una nazione che, lei sì, è ormai preda del cedimento strutturale. Se anche fosse vero che un manufatto di migliaia di tonnellate è crollato per un fulmine e un po’ d’acqua, disgraziato davvero il paese dove accadono, giorno dopo giorno, da Nord a Sud, eventi di questo tipo.
La tragedia è del 14 agosto. Mezza Italia è chiusa per ferie, l’altra metà implode, si accartoccia su se stessa: cedimento strutturale. Insieme, dichiarano fallimento; bancarotta fraudolenta.                 

Del 15 Agosto 2018

1 commento:

Forte Mente ha detto...

Tutto tragicamente vero. Ancora piú tragica la volontà forsennata di trovare un colpevole a tutti i costi con i cadaveri ancora caldi. Invece il crollo del ponte Morandi è il paradigma della irresponsabilitá di gran parte degli italiani a tutti i livelli, incancrenita in decenni di gestione dissennata del territorio e non solo.
Diciamolo con sinceritá: forse esistono alcuni colpevoli diretti del disastro, ma milioni di italiani sono complici da decenni, per interesse, per disinteresse, per vigliaccheria, per opportunismo, per timore, per incompetenza, per presunzione, per egoismo, per mancanza di senso civico e sociale.