Dalle letture
superficiali inizialmente pubblicate sui media mainstream, sarebbero emerse addrittura la fake news istituzionali che attribuivano al fulmine e al nubifragio la causa primaria della tragedia, una versione talmente puerile e inverosimile che mi ha destato una notevole irritazione, per la vergognosa mancanza di rispetto verso le vittime e l'opinione pubblica, considerata alla pari di un gregge di pecore dementi.
Le uniche eccezioni mediatiche sono state quelle che hanno riportato i primi commenti da parte della magistratura inquirente genovese che sta procedendo molto correttamente acquisendo tutti i dati tecnici disponibili, e si sono già fatti un quadro abbastanza preciso e cronologico delle responsabilità nel corso del tempo.
Parrebbe che il ponte
Morandi fosse stato concepito in un'epoca in cui i materiali non erano adatti e
le tecniche di progettazione e costruzioni per i ponti sospesi, per quanto
innovative potessero sembrare, fossero addirittura controproducenti, cioé si sarebbero rivelate
pericolose col tempo. Infatti il ponte fin dai primi anni successivi all'inaugurazione ha subito richiesto opere di manutenzione straordinaria, frequenti e molto onerose, per cui molto probabilmente, col senno di poi, sarebbe stato meglio sostituirlo negli anni passati, evitando tragedie e costi eccessivi, per poi doverlo rifare comunque.
Il punto debole, e lo si sapeva da sempre, era costituito dai tiranti, cioé dai cavi d'acciaio immersi nel calcestruzzo, che si corrodevano in tempi molto superiori al previsto, che su un lato furono già sostituiti e sull'altro stavano per farlo, con qualche annetto di ritardo (per usare un eufemismo), ma il fato inesorabile è intervenuto prima, e vi è stata l'attuale tragedia, molto probabilmente provocata proprio dal cedimento dei tiranti che non sono stati sostituiti. Quindi le responsabilità civili e penali questa volta ci sono e spero proprio che la magistratura vada fino in fondo e con il massimo della severità, e lo stato si costituisca parte civile per ottenere dalla società di gestione della autostrade il massimo del risarcimento dei danni, perché è ora che si capisca che l'omicidio colposo è pur sempre un omicidio, e se si poteva evitare diventa ancor più imperdonabile, che il profitto non può e non deve essere l'unica motivazione imprenditoriale da conseguirsi a tutti i costi, soprattutto mettendo repentaglio vite umane.
Quindi il ponte si sarebbe dovuto abbattere e sostituire
già negli anni scorsi, ma per farlo ovviamente ci
volevano ingenti risorse che non erano certo disponibili per una società
privata, come quella che gestisce l'autostrada, che non aveva alcun interesse
ad affrontare un simile investimento, per quanto si sarebbe potuto recuperare
dagli eccessivi costi di manutenzione straordinaria e ordinaria che la vetustà
del ponte comunque richiedeva. Quindi il problema alla base diviene di tipo
politico culturale e sociale: le infrastrutture strategiche per il paese devono e possono
essere privatizzate? La mia convinzione è che debbano essere controllate dallo stato.
L'Italia avendo svenduto, e sta continuando a farlo, il suo patrimonio e le sue
infrastrutture, sta andando incontro a problemi di una gravità inaudita e
tragica che col tempo emergeranno sempre più, e dopo aver praticamente regalato
le risorse strategiche che possedeva, poi dovrà spendere per riprendersele in
carico e risanarle, dopo essere state sfruttate. Il massimo dei paradossi
demenziali, sempre a danno dei contribuenti, ovviamente, che in tal caso
rischiano pure di morire e soffrire, oltre a impoverire per l'inevitabile
aumento della pressione fiscale che ne consegue.
Sarebbe ora che la politica italiana cambiasse completamente strategia, se mai ve ne fu una, basta con gli aiuti di stato alle banche e alle grandi aziende, i finanziamenti devono andare prevalentemente alla tutela del territorio e della sicurezza pubblica (in ogni ambito, soprattutto nei trasporti), alla sanità e alla cultura (compresa la promozione del turismo), alle piccole e medie aziende e all'artigianato, ecc., se si vuole guardare al futuro, se si vuole che ci sia un futuro.
Claudio Martinotti Doria
Prima
Fonte: Sputnik Italia
Mentre sale il triste bilancio delle vittime provocate dal
crollo del ponte Morandi sull’A10 a Genova, è aperta la caccia ai colpevoli e
il governo ventila l’ipotesi che la gestione delle autostrade passi allo Stato.
Nel frattempo, sorge una domanda cruciale: perché crollano i ponti?
La tragedia
di Genova che ha causato più di 30 morti, decine di feriti e sfollati ha aperto
il dibattito sulle condizioni dei ponti nel Paese, che hanno raggiunto ormai
un'età considerevole, per cui necessitano di regolari manutenzioni e controlli.
Dopo
Per fare chiarezza sul
crollo del viadotto Morandi e sulle criticità dei ponti, Sputnik Italia si è
avvalso dell'aiuto di tre esperti del settore: Andrea Del Grosso, professore di
tecnica delle costruzioni alla Scuola Politecnica dell'Università di Genova, Pier Giorgio Malerba,
docente di Bridge Theory and design al Politecnico di Milano, vice presidente
di IABMAS (Int.Ass.for Bridge Maintenance, Safety and Management) e Marco Petrangeli,
professore di tecnica delle costruzioni all'Università G. D'Annunzio di
Pescara, presidente della società specializzata in progettazione di
infrastrutture lineari "Integra".
— Professore
Del Grosso, il viadotto Morandi era già in precedenza una struttura
critica?
— Il problema delle infrastrutture invecchiate è un
problema generalizzato in tutta Europa, da decenni si stanno studiando
metodi più o meno sofisticati per tenerle sotto controllo. L'Italia è un
po'indietro su certi metodi scientifici più avanzati, però la percentuale di
ponti in condizioni non buone è alta in tutti i Paesi di antica
urbanizzazione. Anche i Paesi come la Cina e la stessa Russia, che stanno
rinnovando o ampliando le proprie infrastrutture, sono molto preoccupati per i
problemi della durabilità e dei costi conseguenti.
© Sputnik /
Sul caso specifico del
ponte Morandi bisognerà capire col tempo qual è stata la causa. Si trattava di
uno schema strutturale all'epoca molto innovativo, elegante progettato dal
grande ingegnere italiano Riccardo Morandi. Sono schemi critici, perché le
tecnologie di allora e le conoscenze di calcolo disponibili negli anni '60
erano limitate. Non c'erano all'epoca tutti i metodi di calcolo, i calcoli si
facevano a mano. I materiali di allora erano soggetti a degrado per l'azione
atmosferica, i carichi autostradali all'epoca erano più modesti rispetto ad
oggi. Sicuramente c'erano delle criticità su questo ponte, ciò non significa
che necessariamente il ponte dovesse venire giù. C'è stato evidentemente un
fenomeno esterno oppure qualche problema di degrado di materiali interni che
non aveva dato segnali, il ponte era sotto osservazione. Per esempio la
corrosione dei cavi di precompressione non sempre dà dei sintomi.
— I
ponti critici andrebbero ristrutturai o demoliti?
— Va valutato sulla
base delle condizioni di obsolescenza che può essere fisica e se i costi di
manutenzione proiettati negli anni superano il costo di sostituzione,
in questo caso certamente è meglio sostituire. Possono anche esistere
problemi funzionali, quando l'infrastruttura non soddisfa le richieste
dell'utenza. Per il nodo di Genova si combinano tutti e due i problemi, la discussione
della sostituzione dura dagli anni '80 per ragioni funzionali. Aspettando sono
sopraggiunte anche ragioni fisiche. In uno dei progetti di adeguamento del nodo
autostradale di Genova era prevista la demolizione e la sostituzione con un
ponte a tre corsie per senso di marcia invece che due, capace di portare
traffico maggiore. Per ragioni ambientali questo progetto non è stato
approvato.
— Professore
Malerba, quali sono le caratteristiche e le criticità tipiche di un ponte?
Quanto vive di media un ponte?
— Bisogna distinguere fra le epoche dei ponti. Se parliamo
dei ponti moderni nei Paesi industrializzati, in sede teorica, questi
ponti sono pensati per circa 100 anni di vita utile in sicurezza a patto
che si faccia una buona manutenzione. Nella realtà in Europa e negli Stati
Uniti si sta verificando che la vita media è quasi la metà, quindi sui 50 anni.
40-50 anni fa c'era molta confidenza con i materiali utilizzati dopo si è
imparato che il calcestruzzo è un materiale vulnerabile all'attacco degli
agenti atmosferici, è un mezzo poroso, la penetrazione dell'anidride carbonica
ne riduce le capacità di protezione sugli acciai. Cicli di caldo e freddo e
disgelo possono innescare la corrosione anche negli acciai.
— Ci
sono altri ponti in Italia nello stesso stato del ponte Morandi? Esiste un
censimento di queste infrastrutture?
— La situazione
in Italia è un po'complessa, perché ci sono ponti che appartengono alle
ferrovie e hanno certe procedure di controllo molto rigorose. Lo stesso si può
dire dei ponti di tanti tratti autostradali. Ci sono poi però ponti e opere
minori che sono in carico alle amministrazioni delle province o dei
comuni. Questi non hanno fondi, personale e non hanno tempo di occuparsi anche
di questo oltre agli altri problemi da gestire. Ci devono essere fondi adeguati
per poter pianificare e intervenire. Tutti i ponti hanno bisogno di controlli e
di manutenzione programmata. Ogni amministrazione dovrebbe avere un suo
registro di opere, alcune amministrazioni dispongono di liste ben documentate,
altre non saprei. La realtà è frammentata.
— Che
idea si è fatto dell'incidente di Genova?
© AP Photo / Vigili
Del Fuoco
— 50 anni sono mezzo
secolo e quindi è un'unità di misura della storia e non della cronaca
quotidiana. Quando fu concepito rientrava fra i primi grandi ponti strallati
costruiti al mondo. Il primo fu costruito fra il '52 e il '55 in Svezia.
All'epoca fu una novità. Fu uno schema molto apprezzato dal punto di vista
estetico, ma intrinsecamente debole, perché il ricorso a coppie di stralli
mette a rischio la struttura se uno strallo si rompe. Basta che si rompa uno
strallo, cade una parte della struttura con il rischio che si trascini anche il
resto. Un altro problema è la tecnica di precompressione per gli stralli: è
unica, è stata usata solo per questo tipo di ponti con l'intenzione di
proteggere l'acciaio che c'è dentro e di ridurre le sollecitazioni di fatica.
L'esperienza e gli studi successivi hanno dimostrato il contrario, anche questa
è stata una scelta infelice. Costruire ponti collegati da giunti che funzionano
come cerniere provoca il salto che sentiamo attraversando il ponte. Anche
questo rende la struttura meno connessa e quindi si corre il rischio di avere
un effetto domino. Il danno non si mantiene limitato, sono opere con scarsa
robustezza strutturale. Tutto ciò era già stato segnalato, questa è una
partita, l'altra riguarda la manutenzione.
— Professore
Petrangeli, qual è la vulnerabilità sismica dei ponti in Italia?
— La maggior parte dei ponti italiani sono stati costruiti
negli anni '70, '80 e'90. In quegli anni iniziava ad esserci un minimo di
sensibilizzazione al problema sismico. I ponti in generale, soprattutto
quelli realizzati in Italia, non hanno dei grossi problemi con la sismica,
negli ultimi terremoti italiani non si hanno avuti problemi importanti con le
infrastrutture. In Italia si registrano problemi con le case che sono
in muratura, la gente dorme in casa e muore. Con i ponti non c'è mai
stato un morto, si è trattato di casi isolati.
— Dal
punto di vista della sicurezza delle infrastrutture quali sono quindi le
maggiori minacce?
Non
volevamo crederci. Il crollo del Ponte Morandi, che noi genovesi, con
una punta di provincialismo da colonizzati chiamavamo ponte di Brooklyn,
è una tragedia sconvolgente, per il suo carico di vittime, dolore,
distruzione e per le conseguenze terribili che si trascineranno per
anni. Non è il tempo degli sciacalli, ma dei soccorsi, del cordoglio,
dell’aiuto, della collaborazione. Tuttavia, non si può tacere, tenere a
freno la collera per un’altra tragedia sinistramente italiana: un’opera
di quell’importanza non può crollare dopo soli 50 anni. Per chi scrive
c’è un che di personale, quasi di intimo nel dolore di queste ore.
Bambini, partecipammo nel 1967 all’inaugurazione del ponte con tutte le
scolaresche di Genova. Muniti di bandierina tricolore, appostati di
fronte al palco, seguimmo la cerimonia, vedemmo con la meraviglia
dell’età il presidente della repubblica Giuseppe Saragat attorniato da
uomini in alta uniforme e dall’imponente figura del grande cardinale
Siri, storico arcivescovo della città.
Abbiamo
percorso migliaia di volte quel ponte lunghissimo, settanta metri sopra
la vallata del torrente Polcevera piena di case popolari e capannoni
industriali della ex Superba, ogni giorno per decenni lo abbiamo visto e
sfiorato andando al lavoro. Non c’è più ed è colpa di qualcuno. Parlano
di fulmini, di un intenso nubifragio e di cedimento strutturale.
Aspettiamo a tranciare giudizi, ma nel mattino della vigilia di
ferragosto pioveva e basta. Nessuna alluvione, dagli anni 70 ne
ricordiamo almeno sei, devastanti, nella città di Genova. Non sappiamo
quanti fulmini si siano abbattuti in mezzo secolo sul manufatto
dell’ingegner Morandi (pochi sapevano che a lui fosse intitolata
l’opera), né quanta pioggia abbia bagnato da allora le imponenti
strutture. Non accettiamo, non riconosceremo mai come valida la
sbrigativa giustificazione di queste ore. Sarà qualunquismo da Bar
Sport, ma ci risulta che ponti romani siano in piedi da due millenni, e
non crediamo nell’incapacità dei progettisti. Però, negli ultimi decenni
i crolli sono stati tantissimi, come le tragedie dovute all’incuria,
all’insipienza, alla corruzione diffusa.
Il Ponte Morandi, che i genovesi, chiamavamo ponte di Brooklyn, in una cartolina dei primi anni '70.
Il
ponte, con la strada sopraelevata che corre a mare nella zona centrale
della città, è l’ultima grande opera di una ex grande città. Nel 1967,
Genova era un polo industriale con centinaia di fabbriche, importanti
compagnie navali (l’armatore Angelo Costa fu per decenni presidente di
Confindustria) la sede europea di multinazionali come Shell, Mobil,
Esso, i cantieri navali, il gruppo Ansaldo, il porto più importante del
Mediterraneo. Dopo la strada “camionale” del 1935 verso l’appennino, per
realizzare la quale con sbocco sul porto fu spianata la montagna di San
Benigno che divideva Genova dal suo ponente, il ponte rappresentava
l’infrastruttura base per collegare finalmente la Liguria e l’Italia con
la Francia. Mezzo secolo dopo, non abbiamo quasi più industrie, Genova
ha perso un quarto dei suoi abitanti, è unita al Norditalia, pardon
divisa dall’area più produttiva del paese dalla stessa strada degli anni
30, mentre la ferrovia per la Francia ha ancora un lungo tratto a
binario unico. Identica sorte per i collegamenti tra i porti di Savona e
La Spezia e l’entroterra.
Da
oggi, dobbiamo sopportare anche la tragedia del crollo della più
importante infrastruttura in esercizio, piangere decine di morti e
accettare la spiegazione che trattasi di tragica fatalità, pioggia,
fulmini e saette. Non ci crediamo perché abbiamo visto all’opera la
classe dirigente che ha trasformato in una quarantina d’anni una
metropoli in un cimitero. Clientelismo sfacciato, una politica da
curatori fallimentari o da necrofori, la grande bruttezza che ha
sfigurato il mare e la collina, interi quartieri indegni di una nazione
civile, il Diamante, le Lavatrici, il Cep, lo stesso Biscione, parte di
Begato, palazzi costruiti esattamente sull’alveo di torrenti pericolosi,
con le ricorrenti tragedie di cui siamo stati testimoni.
Quale verità? Parlano di fulmini, di un intenso nubifragio e di cedimento strutturale. Non
accettiamo, non riconosceremo mai come valida la sbrigativa
giustificazione di queste ore. Sarà qualunquismo da Bar Sport, ma ci
risulta che ponti romani siano in piedi da due millenni, e non crediamo
nell’incapacità dei progettisti.
I
genovesi, o quel che ne resta, hanno affidato per decenni città,
provincia e regione a una classe politica di livello infimo, che ha
trascinato in basso il ceto economico e finanziario. E’ crollata
l’industria pubblica, la vecchia Cassa di Risparmio, ora Carige, tanto
importante da detenere il 4 per cento di Bankitalia, è nella bufera da
anni per affari vergognosi, deficit mostruosi e dirigenti condannati in
sede penale. La vecchia Italsider, ora Ilva, in gran parte è stata
smantellata e quel che resta è sotto minaccia di chiusura. Al suo posto
abbiamo una strada a scorrimento (relativamente) veloce, un piccolo
sollievo ora che non c’è più il ponte. Il cosiddetto Terzo Valico,
ovvero la linea veloce per Milano, in ritardo di almeno 30 anni, va
avanti piano, tra polemiche e denari che vanno e vengono. La
multinazionale Ericsson ha suonato la ritirata, distruggendo le speranze
di un’ “industria pensante” che a Nizza, 190 chilometri da qui, è
realtà da decenni ( Sophie Antipolis).
Madamina,
il catalogo è questo. Su tutto ciò si abbatte un evento funesto e
terribile come il crollo del nostro ponte di Brooklyn. L’autostrada che
porta alle luci di Sanremo e all’inferno migrante di Ventimiglia era
considerata la più cara d’Italia. Un dubbio privilegio. Ma dov’erano i
politici liguri il cui compito era imporre la manutenzione, sorvegliare
le infrastrutture di una terra che vive essenzialmente di due attività,
il turismo e i trasporti? Abbiamo quattro porti mercantili, raggiungere i
quali sino a oggi era difficile, adesso è un’impresa da premio Nobel;
alcune delle nostre località sono mete turistiche internazionali,
Portofino, le Cinqueterre, Alassio, la Riviera dei Fiori. Ma, dicono le
autorità preposte, è bastato un fulmine durante un temporale estivo ad
abbattere per duecento metri, esattamente al centro, un ponte costruito
decenni dopo il vero ponte di Brooklyn e molti secoli dopo la Lanterna,
che guarda dall’alto, illumina le vergogne e ne ha viste tante.
Una
tragedia italiana, metafora e paradigma di una decadenza iniziata
giusto pochi anni dopo la trionfale inaugurazione del ponte. Una città,
Genova, che ha anticipato storicamente eventi di portata nazionale. I
primi a volere l’unificazione della Patria, i primi nell’industria e nel
commercio, ma poi i pionieri della denatalità, del degrado dei centri
storici (con Genova, Ventimiglia), della deindustrializzazione, i
settentrionali assistiti quasi quanto certe aree del Sud, l’arretratezza
delle infrastrutture, i giovani che scappano. Fummo anche tra i primi
ad affidarci politicamente alla sinistra, quando ancora le cose andavano
bene. Si trattava di una sinistra in gran parte comunista, astiosa,
dogmatica, chiusa, testarda. Nessun paragone con le classi dirigenti
delle tradizionali regioni rosse, più pragmatiche dei plumbei apparatchik liguri.
Hanno
regnato su un giardino e lo hanno trasformato in cimitero. Non diciamo e
non pensiamo che buttino giù i ponti, ma sta di fatto che le pochissime
opere realizzate nell’ultimo mezzo secolo sono le bonifiche delle aree
industriali dismesse, al posto delle quali sono sorti poli commerciali
legati ai soliti noti (Coop e affini) e varie colate di cemento per
erigere imponenti centri direzionali in buona parte deserti, poiché c’è
davvero poco da dirigere, da queste parti. Le opere del passato sono
obsolete, come l’invecchiata camionale e la ferrovia, l’autostrada che
sbocca in porto è un budello pericoloso con code quotidiane di mezzi
pesanti, accedere all’aeroporto è impresa acrobatica, nonostante la
vicinanza alla città e la possibilità di costruire una bretella
ferroviaria di un chilometro o poco più. Della metropolitana genovese il
tacere è bello, poiché non solo è tra le più corte dell’universo, ma le
sue stazioni sono soggette a frequenti allagamenti. Il ponte che univa
le due parti della Liguria da oggi non c’è più.
E',
quella di Genova, una tragedia italiana, metafora e paradigma di una
decadenza iniziata giusto pochi anni dopo la trionfale inaugurazione del
ponte Morandi.
Viene
il magone al pensiero di ciò che era, visto e vissuto con i nostri
occhi, e ciò che è, ma ancor più fa tremare la certezza che da molte
parti d’Italia altri possano descrivere situazioni analoghe o peggiori.
Per questo fa tanto soffrire la tragedia del Ponte Morandi, orgoglioso
simbolo caduto della nostra infanzia. Oltre il lutto di tante famiglie, è
il segnale, un altro, di una nazione che, lei sì, è ormai preda del
cedimento strutturale. Se anche fosse vero che un manufatto di migliaia
di tonnellate è crollato per un fulmine e un po’ d’acqua, disgraziato
davvero il paese dove accadono, giorno dopo giorno, da Nord a Sud,
eventi di questo tipo.
La
tragedia è del 14 agosto. Mezza Italia è chiusa per ferie, l’altra metà
implode, si accartoccia su se stessa: cedimento strutturale. Insieme,
dichiarano fallimento; bancarotta fraudolenta.
Del 15 Agosto 2018
1 commento:
Tutto tragicamente vero. Ancora piú tragica la volontà forsennata di trovare un colpevole a tutti i costi con i cadaveri ancora caldi. Invece il crollo del ponte Morandi è il paradigma della irresponsabilitá di gran parte degli italiani a tutti i livelli, incancrenita in decenni di gestione dissennata del territorio e non solo.
Diciamolo con sinceritá: forse esistono alcuni colpevoli diretti del disastro, ma milioni di italiani sono complici da decenni, per interesse, per disinteresse, per vigliaccheria, per opportunismo, per timore, per incompetenza, per presunzione, per egoismo, per mancanza di senso civico e sociale.
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