Italia incanaglita, di fronte alla Germania. (di Maurizio Blondet) [Articolo Fondamentale]
Signor Direttore,
noto che accusa spesso i Tedeschi d’essere tra i principali, o forse i soli, responsabili della grave situazione economica in cui versa l’Italia e, devo dire, considero le Sue argomentazioni inattaccabili. Ma quando torno in Italia e, mentre sorvolo il suo territorio, non riesco a distinguere un centro urbano definito, come invece accade quasi ovunque volando nei cieli di Germania, ma solo un groviglio cementizio e d’asfalto inestricabile; quando scendo a terra e percorro strade la cui superficie butterata sembra più da Albania che da Paese sviluppato, lungo i cigli delle quali sono permanenti lerciume e rifiuti d’ogni genere; quando, cercando ancora di scorgere i paesaggi che ammaliarono Goethe, li vedo oltraggiati da un’edilizia cafona, orrenda, da geometri (la patria di Brunelleschi, Leon Battista Alberti, di Palladio!!) senza la più elementare pianificazione urbanistica; quando vedo i corsi d’acqua e i litorali che sono di fatto fogne maleodoranti che tracimano d’immondizia, la logica mi porta a concludere che un popolo, il quale ha ridotto così il suolo che abita, che ha infierito senza pietà sul suo invidiabile patrimonio storico, artistico e naturalistico, che ha espresso una classe politico-burocratica la cui azione ha creato una voragine di oltre 2000 miliardi di euro di debiti, quasi tutti dissipati non solo in interessi che hanno incamerato fondi e banche straniere ma in sprechi infami e clientelismi mafiosi, per cui le infrastrutture e i servizi resi sono da Africa, debba almeno condividere, assieme all’ottusità germanica, la responsabilità per il dramma che sta attraversando e da cui, temo, difficilmente uscirà: questo perché ho la sensazione che, nel profondo delle coscienze, all’idea di Italia non ci abbia mai creduto veramente quasi nessun Italiano e il cedimento all’interesse spicciolo, narcisistico, particolare, che si manifesta in ogni frangente, passato e presente, mi pare confermi la mia percezione.
Con stima
Manfred Riemann
Maurizio Blondet
Caro Riemann, non vorrei nemmeno per un attimo che pensasse che qui si accusa la Germania per assolvere noi italiani. Lei non ha, naturalmente, l’obbligo di leggermi con assiduità; ma le assicuro che in questo sito e nei miei saggi è ricorrente, e dolorosamente aspro, il tema della cialtroneria italiana. Del sedimento di inciviltà così caratteristicamente italico, quello che deturpa i palazzi con graffiti, riempie di spazzatura le antiche strade, fa delle fogne dei fiumi, e peggio, rigurgita come prodotto una classe politica come quella che lei giustamente descrive. Più volte qui abbiamo disperato di un pullulare di furbi individuali, che formano poi lo Stupido Collettivo; e ci siamo chiesti come convincere un popolo intero che è poco intelligente, e deve tesoreggiare i pochi migliori che genera, invece di emarginarli ed espellerli.
Abbiamo parlato del «cafone» in senso proprio – lo zappatore a giornata, equivalente italico del fellah egizio, del mugik russo – che è diventato classe media, ma restando cafone, ossia con un repertorio limitatissimo di idee e sapere, nessuna reale curiosità del mondo, mente agra ed angusta, sospettosa e rozza; una cortezza di vedute da antico affamato che non prevede al di là della prossima scorpacciata di bucatini (e si estasia: «Come si mangia bene in Italia!»); uno che non ha curiosità oltre al ventre, e che si veste delle apparenze più ridicole della «ricchezza» e della «modernità» di cui non capisce nulla. Abbiamo satireggiato i «selvaggi col telefonino», che esibiscono il cellulare come il bantù delle vignette africane esibiva la sveglia al collo. Le ho dato ragione in anticipo sull’architettura da geometri nella patria di Brunelleschi, sui servizi pubblici da quarto mondo, sui clientelismi mafiosi, sulla corrività e tolleranza per ciò che altrove – in paesi più civili – scandalizza e fa rivoltare, e qui suscita sorrisi e simpatia, dal Bunga-Bunga alle carcerazioni preventive per far confessare.
Il noto linguista Tullio De Mauro fu tra i primi a studiare e rivelare la grave ignoranza degli italiani ed il loro analfabetismo di ritorno
Le dirò di più. Dico una cosa che non ho mai detto: che nei 60 anni della mia vita cosciente, ho visto l’Italia – il mio Paese – peggiorare. L’ho visto arretrare nelle scienze, nella cultura, nel livello di onestà e di onorabilità, nella semplice buona educazione; abbandonare collettivamente lo sforzo di tenersi con dignità sulla scena della storia, cedere voluttuosamente al suo fondo plebeo e fescennino che gli è proprio. Ho visto questo popolo perdere il senso della vergogna; l’ho visto perdere i treni della civiltà industriale che aveva pur costruito con grande sforzo durante il fascismo, dalla Chimica per esempio (avemmo persino un Nobel, Giulio Natta, anche se oggi sembra impossibile), abbandonare l’elettronica ed altri settori di punta, diventare incapace di filosofia (dopo Croce e Gentile), deturpare col facilismo demagogico una scuola superiore di élite (il liceo classico di Gentile) capace di formare una classe colta; consegnare l’università ai baroni e ai marpioni dei 18 politico. Ho visto la mi Italia perdere il senso del bello in arte, in musica, in – e per dirlo in una tipica parola italiota, «svaccare».
Se mi chiede il motivo di questo degradare, svilirsi e svaccarsi, anche questo l’ho sviscerato: assenza da secoli di vere classi dirigenti, che vuol dire esemplari (che danno il buon esempio); un sistema istituzionale detto «democrazia» che è estraneo alla nostra antropologia, che è nato nel mondo anglosassone e ci è stato imposto dai vincitori, e che noi ci siamo tanto ingegnati ad aggirarlo e falsarlo, da averlo trasformato in questo mostro ridicolo al di là di ogni descrizione. Vorrei accompagnarla ad una qualunque assemblea di condominio: constaterebbe così che tutti i difetti, le furbizie, le schifezze che noi italiani addebitiamo alla «politica», noi le applichiamo ad ogni momento in cui siamo chiamati ad una qualunque decisione da prendere collettivamente e di comune accordo.
Accordo fra noi? Questa è un’esperienza che quasi mai abbiamo conosciuto. L’Italia è una insubordinazione permanente, una guerra civile corpuscolare che non si coagula mai in coerente opposizione politica, per impossibilità a formare un largo e costante consenso su nulla. Dovrei dire dei particolarismi pullulanti, egoismi stupidi e – come lei giustamente dice – un’unificazione dell’Italia che è posticcia, una finzione retorica ormai insopportabile; e resa più insopportabile dalla retorica sulla «Costituzione più bella del mondo», mentre è una costituzione nata da una delle nostre guerre civili e pensata per colpire i perdenti… C’è poi la pura e semplice viltà – altra faccia della furbizia – alla Schettino, che provoca l’eterno Otto Settembre, la ricorrente Caporetto con cui noi risolviamo ogni crisi storica. La novità però, è che Schettino è stato applaudito nel suo rione napoletano; come uno che fa simpatia, che «ci rappresenta».
So che l’analisi dovrebbe spingersi più a fondo, ma non me lo chieda: «Tu vuoi che rinnovelli/ disperato dolor che il cor mi tiene/ già pur pensando, pria ch’io ne favelli» , le risponderei come il conte Ugolino, rodendo (purtroppo solo con il desiderio) il cranio dei traditori che hanno tradito questo Paese, ed anche me, i suoi onesti, i suoi artisti, il suo passato grande.
Mi limito ad indicarle un motivo ulteriore, perché è in tema. A noi ha fatto particolarmente male l’adesione all’Unione Europea, nel senso che ne abbiamo approfittato per aggravare i nostri difetti. Siamo sempre stati il popolo più entusiasticamente «europeista», e sa perché? Perché credevamo che l’Europa ci avrebbe liberato da noi stessi – dalla sovranità che abbiamo vissuto con disagio, noi da secoli occupati da stranieri; liberato dal patriottismo; liberato dalla «responsabilità» in generale.
Abbiamo vissuto la democrazia come un «finalmente facciamo quel che vogliamo e nessuno ci darà più ordini»; parimenti, abbiamo vissuto l’entrata in Europa come una «vacanza» dal peso dell’impegno collettivo di esistere come nazione, con dignità e con sforzo morale, intellettuale, civico e scientifico. I nostri politici sono stati i primi ad approfittare della «vacanza»: hanno ingigantito il debito pubblico, accontentando le clientele, approfittando che si potevano indebitare a tassi bassi, «tedeschi». Hanno smesso di dover preoccuparsi di alcunché: «Ci pensa l’Europa», e l’80% dell’attività legislativa del nostro pagatissimo parlamento consiste semplicemente nella ratifica di normative europee. Abbiamo smesso di selezionare quel poco di élites. Abbiamo cessato persino di pensare, perché «tanto ci pensa Bruxelles».
Ed eccoci all’oggi, come lei ci vede e ci descrive , caro Riemann. Un Paese fallito, che ha perso gli ultimi trent’anni a fare «vacanza» e svaccarsi. Il guaio è che sono trent’anni cruciali nel mondo: anni della globalizzazione (in cui siamo entrati da beoti, senza capirne nulla), anni di avanzamenti tecnologici e politici che hanno cambiato il mondo in modo fondamentale.
E in questo mondo – è il mio dolore più profondo, ora che sono vicino al tempo in cui lo lascerò – l’italiano non ha più un posto. Da una parte, perché tutto quel che l’italiano ha saputo fare per secoli, a questo mondo globalizzato è estraneo. Noi, i migliori di noi, abbiamo operato nella corporeità: abbiamo cesellato oreficerie, lavorato cuoio e bronzo, scolpito marmo, elevato chiese e palazzi di travertino e pietra serena e in mattoni rosa; il nostro rapporto è con la realtà vicina, e con la materia dataci dal Creatore, che noi per secoli abbiamo formato e soppesato con le mani. E in questo mondo domina il «virtuale», la telecomunicazione planetaria, siamo dei principianti arretrati, che balbettano, e continuano a sentire il virtuale come «irreale». Lei ha presente l’architettura italiana, Bernini, Leon Battista Alberti ed anche gli architetti dell’EUR: la metta a confronto con i grattacieli di specchi di Shanghai e Dubai, spettri immateriali che parlano una lingua a noi sconosciuta – e mi dica che cosa c’entriamo, ormai, con loro. L’economia da noi funzionò sul fabbricare, avevamo l’IRI, fabbricavamo splendidi motori, carrozzerie ineguagliate, vendevamo cose; nell’economia de-materializzata di oggi, siamo a disagio. Dei blips che trasferiscono trilioni da Wall Street a Tokio, del casinò finanziario globale aperto 24 ore su 24 non siamo attori primari, e nemmeno secondari. Siamo spariti.
E il peggio, il peggio del peggio, è che se anche un giorno il mondo tornerà a volere le nostre arti, a desiderare le cose italiane, noi non le sappiamo più fare. Abbiamo gettato via tutto, convinti da cafoni che quelli erano vecchiumi e la «modernità» lo richiedesse; abbiamo persino architetti che scimmiottano le archistar (le cui anti-architetture dovremmo sentire come un insulto ai nostri Bernini e Palladio), e spregiano il travertino, gli archi e le colonne. Le mani che avevano la sapienza delle cose corporee italiane – appartenenti qualche volta ad artigiani analfabeti, ma innamorati dell’opera, ed iniziati all’opera fin da bambini nelle botteghe (quando non ci si scandalizzava del «lavoro minorile») – stanno estinguendosi. Scomparse quelle, la nostra gioventù non ha più il fare. Non l’ha imparato. Non si è intrisa del gusto, del senso per gli archi, le belle sete, della pietra serena, dei lavori torniti. Si infagotta in dozzinali fondi di magazzino all’americana, secondo una moda stracciona da ceto marginale, indossa scarpacce di gomma oltraggiose ancorché costose, e fatte altrove in serie, ignorando di copiare la tenuta degli spacciatori di crak delle inner cities; si crede alla moda, si crede internazionale; è avida di smartphone e tablets, che nessuno qui sa produrre (mentre lo sanno i coreani, che 50 anni fa erano un popolo arretrato): esattamente come i pellerossa che non sapevano fabbricarsi armi da fuoco, e ora sono nelle riserve, scomparsi dalla storia.
La sola salvezza possibile, per noi, sarebbe appunto di ripudiare il nostro immane debito pubblico, e simultaneamente tornare alla nostra lira e svalutarla. La prima misura, il default, sarebbe un altro dei nostri ricorrenti Otto Settembre, me ne rendo conto. È quello che voi tedeschi, che ci conoscete bene, ci avete sempre rimproverato; ma continuate a commettere lo stesso vecchio errore, pretendendo di tenerci legati ai nostri impegni: «Pagate il debito! Onorate l’alleanza!». Inutile, dovreste ormai saperlo. Invece non imparate mai, ed è questo il vostro difetto: che ci volete far essere tedeschi.
Non lo siamo, non lo saremo mai. E come sempre, voi non siete capaci di capire in tempo quando il tempo della coerenza e dell’onore, dei debiti pagati con fedeltà, dell’alleanza infrangibile, è ormai passato, ed è diventato il tempo del «si salvi chi può». Sottovalutate sempre il fatto che l’Italia rimane sempre il «laboratorio politico» in Europa; vi pare impossibile che questi vili, straccioni e ignoranti siano un «laboratorio». Siamo il segnale premonitore che i tempi sono cambiati, siamo quelli che per primi rompono il fronte, che disertano. Quando Beppe Grillo ha vinto il 25% dei voti, non è stata una vittoria; in queste pagine l’ho descritta come «abbiamo rifatto Caporetto». Ma adesso anche in Germania nasce un partito anti-europeo, e la rabbia contro «gli impegni» monta dalla Spagna al Regno Unito (Farage avrà anche lui il 20-25% dei voti).
Insomma, ancora una volta cari tedeschi, siete i soli ad essere dalla parte della ragione, – una ragione ormai insostenibile – e così, ancora siete soli, accerchiati e dovrete alla fine ripudiare il vostro onore e dignità (come noi, ma dopo) facendo della sconfitta la disfatta. Con un senso di colpa mai affrontato, e dunque mai cancellato.
Lasciateci andare, alleati; lasciateci alla nostra lira, la moneta di stracci che è il nostro autoritratto di straccioni, di mai del tutto europei, di semi-selvaggi di massa con, fra questa massa innominabile, alcuni eroi ed artisti che hanno dato il «tono» al mondo per secoli (ma mai al proprio paese).
Probabilmente lei penserà che io, Blondet, con questa perorazione a favore della vergogna e della diserzione, il modo di pensare di quei «cafoni», di quei badogliani e infami incivili cialtroni che ho sempre denunciato. Invece sto solo riportando il pensiero di un altissimo tedesco, di cui i nemici stessi rispettano la memoria. Un genio del coraggio e della strategia: il maresciallo Rommel. A suo figlio Manfred, che (giustamente) se la prendeva con la viltà militare degli italiani, il maresciallo Rommel rispose: «Certamente non sono fatti per la guerra, ma non bisogna giudicare gli uomini solo dal punto di vista delle qualità militari: altrimenti la civiltà non esisterebbe».
Detto dal più grande uomo di guerra dell’epoca sua, uno nato per il comando, un militare fino al midollo, è un generoso giudizio, ed una grande intuizione: la civiltà non è la guerra, ed ha i suoi diritti. Ci conosceva bene, Rommel. Così bene che fu il solo ad ottenere da italiani sotto il suo comando, un eroismo fino all’estrema conseguenza, ad El Alamein. Se la Germania, poco prima della sconfitta, fosse riuscita a darsi Rommel come comandante invece di quel Führer il cui tempo era passato, oggi non dovreste vergognarvi (o far finta, con falsa coscienza) del vostro passato di fronte a vincitori che sono stati peggiori di voi nelle loro guerre.
Come saprà, ci fu questo tentativo; non riuscì, e alla fine Rommel dovette prendere il veleno, anziché il governo del suo Paese in fiamme, per guidarlo con mano sicura nella ritirata strategica finale. E non poteva che essere così, nel profondo della vostra storia. Il perché l’ha ben capito Thomas Mann nella Montagna Incantata: Germania ed Italia si sono unificati molto tardi come nazioni, più tardi di tutti gli altri europei. Ma per di più, l’hanno fatto con metodi opposti e inconciliabili: voi nell’obbedienza e nell’ordine al Kaiser prussiano, noi nella sovversione mazziniana, garibaldina. Voi, quando pensate «patriottismo», evocate «ordine» e «conservazione»; per noi, quando diciamo «patriottismo», ci vengono i mente i Carbonari che facevano attentati, Garibaldi guerrigliero. Insomma la nazione è per noi «rivolta», insubordinazione, rovesciamento giacobino e banditesco di tuttora amati granduchi, re di Borbone, e Papi. La nazione italiana nasce dasovversivi, e (anche) questo ci ha segnato per sempre, ci ha resi storpi.
Un esempio vogliamo darlo approfittando di una recente mail che ci è stata inviata:
Jack Belden sullo sbarco Alleato in Sicilia «Strane cose sono accadute qui. Una colonna americana di camion cingolati, cannoni d’assalto, carri Sherman e camionette si era fermata in colonna nel mezzo del paese. Attorno a questa, dai balconi con balaustre di ferro, ragazzi e vecchi gridavano e gesticolavano, sventolando drappi bianchi e fazzoletti, come fossero bandiere di gioia. Tra le grida spesso si udivano le parole: “bravo americano”. (..) Attraverso la folla che ci dava il benvenuto, una colonna di soldati italiani marciava su un lato della strada con le braccia alzate sulla testa… Un altro soldato camminava con le lacrime che gli scorrevano lungo la faccia. Quei prigionieri guardavano con aria stupefatta il popolo che acclamava gli invasori ed i conquistatori che fino a pochi minuti prima essi avevano tentato di tenere fuori dal paese. Mai avevo visto uno spettacolo più pietoso».
Il Corrispondente di guerra americano, Jack Belden sullo sbarco Alleato in Sicilia
Non tener conto di queste decisive differenze culturali è il delitto degli eurocrati, e dei governanti tedeschi egemoni in Europa. L’Europa ci ha fatto male in modo fatale e decisivo, caro Riemann. Ed ho l’impressione che qualcosa del genere sia avvenuto agli altri popoli; non per niente, l’eurocrazia come i politici d’oggi mancano di competenza storica, pensano che le differenze culturali – antropologiche – che ci hanno formato e diviso per secoli, siano particolarità senza importanza, che si devono cancellare, e che sia facile cancellare. Sotto la cura omogeneizzante europea, abbiamo aggravato i nostri vizi e difetti, abbiamo ceduto la nostra responsabilità, ed ora siamo ancor meno capaci di prima di esercitarla.
Dovremmo essere governati da tedeschi (Beppe Grillo, sapendosi incapace di governare, l’ha persino auspicato); non come ci governate adesso, per interposta BCE, «tecnici» italioti e Commissione, senza prendervene la responsabilità, bensì apertamente, direttamente dandoci norme, leggi, comandi… Ma anche questo, in fondo, l’abbiamo già provato – e non è piaciuto né a noi né a voi.
Le diversità contano, carissimo. La Merkel vuole far di noi dei tedeschi, con le solide prudenze, la capacità di previsione, la unità e concordia germanica. Piacerebbe anche a me, ma non è possibile. Riusciamo solo a perdere la nostra identità, la nostra ragion d’essere, i nostri orientamenti fondamentali, senza guadagnarne altri.
La storia non è acqua, come credono in troppi.
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