Svezia, una società fallimentare, antitetica all'arte
maieutica ed alla socializzazione. Se leggendo questo esauriente articolo sulle
condizioni in cui versa la società svedese, provate a pensare all’arte
maieutica di socratica memoria, all’arte dialettica avviata dai filosofi greci
ed alla conseguentemente indotta capacità di socializzare e quindi di “far
politica” nel senso nobile del termine, vi renderete conto di come la Svezia,
nonostante la sua apparente elevata civilizzazione e cura ossessiva dei diritti
individuali, sia in realtà antitetica ai valori propugnati dall’arte maieutica,
cioè promuovere e valorizzare le potenzialità possedute da ogni individuo nell’unico
modo possibile, interagendo, socializzando, dialogando, ecc., in modo che col
tempo le potenzialità di ognuno vadano a beneficio dell’intera collettività,
divenendo patrimonio comune.
Quanto descritto in questo articolo, la sofferenza in cui
versa la popolazione svedese, che pure dispone di un sistema assistenziale,
sanitario, sociale, ecc., di prim’ordine e credo unico al mondo (basti pensare
che dispongono anche di cure odontoiatriche-dentistiche gratuite), è il frutto
dell’individualismo portato alle estreme conseguenze, per cui ci si isola e si
accettano nella propria sfera privata, per tempi limitati, esclusivamente
individui simili a noi e soprattutto passivi, che non interferiscano col
proprio precario equilibrio esistenziale. Un approccio penoso e patetico, ma
soprattutto fallimentare. Claudio
Svezia. Un confortevole inferno
di Rodolfo Casadei - 20/09/2016
Fonte: Tempi
Di
un film particolarmente riuscito si suole dire che dovrebbe essere
fatto vedere nelle scuole, ma prima che fra i banchi l’ultima produzione
di Erik Gandini meriterebbe di essere proiettata a Camere riunite, come
monito a deputati e senatori in procinto di approvare le proposte di
legge che vogliono trasformare l’Italia in un paradiso dei diritti
individuali sul modello dei paesi scandinavi. E benché si tratti di
pellicola laica laicissima, potrebbe benissimo per una volta sostituire
la catechesi di parrocchie e movimenti ecclesiali: chiarirebbe loro le
idee intorno alla condizione umana odierna, mostrerebbe loro dove è
diretta quella modernità con cui vogliono dialogare. Infine, per
assottigliare i flussi di migranti e richiedenti asilo che stanno
mettendo in crisi mezza Europa, andrebbe mostrato a chi sta per
imbarcarsi sui gommoni a rischio della vita: vedrebbero che l’agognato
paradiso del benessere e della sicurezza consiste nella realtà in un
confortevole inferno antropologico.
La teoria svedese dell’amore,
che debutta nelle sale italiane il 22 settembre, ha un messaggio molto
chiaro da comunicare: una società di individui perfettamente liberi
perché perfettamente indipendenti è una società di esseri umani
infelici, solitari e annoiati. E siccome ogni critica vale per le
soluzioni che offre al problema che evidenzia, Gandini non si tira
indietro e con l’ausilio del papa laico della sociologia, il 90enne
Zygmunt Bauman, propone l’alternativa: scambiare l’indipendenza e la
sicurezza materiale con quella speciale versione della dipendenza che è
l’interdipendenza, e con un mondo di rischi sia materiali che
psicologici.
Che
cos’è allora la teoria svedese dell’amore? È l’idea, contenuta nel
programma del partito socialdemocratico svedese al tempo del primo
governo di Olof Palme (1969-1976), di trasformare la società svedese in
una società di individui indipendenti. Rendere i figli indipendenti dai
genitori, le donne dagli uomini, gli anziani dai figli. Abolire la
dipendenza materiale e psicologica degli uni dagli altri, perché solo in
una società di persone tutte ugualmente indipendenti i rapporti fra di
esse sarebbero diventati rapporti veramente liberi e autentici, e non
condizionati dal bisogno.
Per
quarant’anni di seguito i governi, non solo socialdemocratici, si sono
applicati a tradurre in realtà tale programma, e il risultato è stato
molto lontano da quello atteso: la Svezia non è diventata il paese dei
rapporti autentici fra le persone, ma della assenza di rapporti umani.
Oggi quasi la metà degli svedesi vivono da soli, uno su quattro muore da
solo, e persino i rapporti sessuali, stando ad alcune inchieste, sono
diminuiti del 25 per cento nell’arco dell’ultimo ventennio.
Niente
meglio di un documentario di Gandini ci rende partecipi di queste
realtà. Il suo tocco magico è indubitabile. Il suo stile asciutto
solleva onde emotive nello spettatore. Si vede la giovane Maria Elena,
madre di due figli concepiti con la fecondazione assistita da donatore
anonimo, mentre fa jogging solitario. «Volevo un figlio, non volevo una
relazione. Mi piace la compagnia, ma solo temporanea. Sì, a volte mi
manca la presenza di qualcuno che mi porti la colazione la mattina,
qualcuno con cui discutere le notizie del telegiornale».
Quindi
brevi interviste ad alcuni donatori della banca del seme alla quale la
donna ha fatto ricorso: un centro danese dove sono contenuti 170 litri
di sperma umano, probabilmente il più grande del mondo. I ragazzi
mettono a disposizione video e file sonori in cui si presentano. Tutti
affermano convintamente di fare quello che fanno per altruismo: «Voglio
aiutare gli altri. È incredibile come facendo così poco fai così tanto
per gli altri». Non sanno nulla della donna che riceverà il loro seme,
nulla mai sapranno dei figli che verranno al mondo e che sono
biologicamente loro, ma si sentono buoni perché si masturbano a
vantaggio di altri. Metà dei clienti è costituito da donne single,
moltissime svedesi. Il kit per l’inseminazione può essere richiesto a
domicilio. Arriva col corriere, come i libri di Amazon. Si deve scaldare
la busta fra le mani, caricare la siringa, sdraiarsi sul letto a gambe
insù, immettere il liquido nella vagina, restare in posizione mezz’ora. E
il risultato è garantito.
Compila il modulo, ci pensa lo Stato
Che
uno svedese su quattro muore da solo significa anche che il decesso di
molti viene scoperto solo parecchio tempo dopo che è avvenuto. La Svezia
ha dovuto creare un’apposita agenzia che si occupa di questi casi. I
suoi impiegati sono impegnati a cercare parenti introvabili per regolare
questioni di successione, e accedono agli appartamenti dei defunti in
cerca di indizi. Risalta lo squallore di pareti vuote. Un suicida ha
lasciato una busta piena di denaro. È destinato a saldare i suoi debiti
con l’Agenzia delle entrate. Altri messaggi non ne ha lasciati.
«L’ambizione per l’indipendenza ci ha accecati», commenta tristemente
l’impiegata che ne ha già viste troppe.
Sia
come sia, la Svezia (insieme alla Germania) è la mèta agognata di
centinaia di migliaia di richiedenti asilo. Non appena arrivano, però,
vengono messi in guardia. Neeba, profuga siriana e mediatrice culturale,
cerca di spiegare ai nuovi arrivati che gli svedesi sono bravi ma poco
socievoli: «Non amano le conversazioni, alle domande rispondete “sì” o
“no”. A loro piacciono le risposte brevi». Un suo assistito le dice:
«Perché dovrei imparare a parlare la lingua? Svedesi non ne incontro
mai». Neeba riflette: «Gli svedesi non sono razzisti, si battono per i
diritti umani di tutti. Ma desiderano mantenere le distanze. Vivono da
soli, il centro di tutto è l’individuo. Se hai bisogno di qualcosa,
compili un modulo. E lo Stato ti fornirà ciò di cui hai bisogno».
Il viaggio della speranza. In Africa
Fuori
dal sistema sorgono piccoli santuari di calore e comunità. Giovani si
incontrano nei boschi alla ricerca di rapporti umani più profondi. I
loro sguardi sono mesti: «La nostra società ha per obiettivo la
sicurezza, ma la sicurezza non ti rende felice: al contrario, è causa di
infelicità. Viviamo soli, siamo gestiti dalla società, e dimentichiamo
di prenderci cura l’uno dell’altro personalmente».
Quindi
la telecamera fa un volo di parecchie migliaia di chilometri e inquadra
la selva subtropicale del Wollega, in Etiopia. Il paese che nel grafico
dei valori (sopravvivenza contro autorealizzazione, tradizionalismo
contro razionalità) si trova all’estremo opposto rispetto alla Svezia.
Lì si è trasferito il dottor Eriksen, per 30 anni chirurgo a Stoccolma.
In un modestissimo ospedale totalmente privo di mezzi economici si
arrangia per trasformare le cose più strane in presidi sanitari: viti
comuni, raggi di ruota di bicicletta, fascette da idraulico, lenze da
pesca, fermagli per capelli diventano fissatori, vasocostrittori, viti
chirurgiche, eccetera. «Vivere in Etiopia mi ha dato tanto, in Svezia
vivevo una vita noiosa», dice. «Qui si vive nella povertà materiale, ma
la povertà spirituale della Svezia è di gran lunga superiore. Penso che
qualcosa è andato storto nel sistema di ingegneria sociale svedese. La
gente si sente troppo sola. Qui la gente non è mai sola: se ti ammali ti
vengono a visitare, quando muori piangono la tua morte».
All’ospedale
un giorno è arrivata una bambina con un enorme tumore alla lingua. Per
salvarla Eriksen ha dovuto asportare l’organo e rimuovere pure la
mascella. La ragazzina guarita visita l’ospedale e l’incontro col medico
è commovente. C’è più comunicazione fra lei muta e il chirurgo svedese,
che fra il medico e i suoi connazionali dotati di parola quando lui
torna in Svezia: «Non c’è niente di cui parlare con la gente, sono tutti
occupati con le loro cose, sono tutti focalizzati su se stessi».
Tutti connessi ma scollegati
E
si arriva così al contributo di Zygmunt Bauman. «Felicità», dice, «non
significa una vita priva di problemi. Una vita felice si ottiene
superando le difficoltà, fronteggiando i problemi, risolvendoli. La via
dell’indipendenza non porta alla felicità, ma a una vita vuota,
all’insignificanza della vita e a una noia assoluta e inimmaginabile». I
problemi affrontando e risolvendo i quali si fa esperienza di felicità
sono sia quelli materiali sia quelli relazionali. E qui Bauman dice
alcune cose geniali sulla tribolata questione del dialogo. Rifiutato a
priori da alcuni, praticato solo a parole o selettivamente da chi ne fa
una bandiera, il dialogo è la prima vittima della società centrata
sull’indipendenza degli individui. «Le persone che sono state educate
all’indipendenza, stanno perdendo la capacità di negoziare la convivenza
con gli altri, perché sono private della capacità di socializzare.
Socializzare è faticoso, richiede tanti sforzi, richiede un processo di
negoziazione e ri-negoziazione, occorre mettersi in discussione, mediare
e ricreare. L’indipendenza ti priva della capacità di fare questo».
Bauman
vede la morte del dialogo proprio negli strumenti tecnologici che
dovrebbero renderlo più ampiamente praticabile: le tecnologie
elettroniche e audiovisive. «La nostra vita è divisa fra due mondi
diversi: online e offline, connessi e disconnessi. La vita connessa è in
gran parte priva dei normali rischi della vita. Se non ti piace
l’attitudine di altri, smetti di comunicare con loro, li disconnetti.
Quando sei offline, e incontri per forza le persone reali, devi
affrontare il fatto che la gente è diversa, che ci sono molti modi di
essere umani. Devi affrontare la necessità del dialogo, devi impegnarti
in una conversazione con loro. L’indipendenza ti priva delle abilità
necessarie a fare questo. Più sei indipendente, e più sei incapace di
fermare questa indipendenza e rimpiazzarla con una piacevole
interdipendenza».
Chi
propugna il dialogo, ma non accetta di fare l’esperienza della
dipendenza dagli altri con cui instaura la conversazione, di fare
l’esperienza della dipendenza reciproca, produce inevitabilmente una
società malata. O la società in cui tutti si ritirano nel proprio guscio
per mantenere intatte le proprie personali convinzioni, o una società
alienata dove il gruppo dirigente impone la sua linea al popolo
sottomesso. Il dialogo implica la mediazione, il negoziato, cioè la
disponibilità a rinunciare alle proprie ragioni e inclinazioni per fare
spazio alle ragioni e inclinazioni degli altri. Non ci aiutano i social
media, i file audio, i collegamenti video, perché troppo cedevoli alla
tentazione di escludere l’interlocutore scomodo, di selezionare solo
interlocutori di comodo, coi quali non si vuole veramente dialogare,
cioè negoziare, ma solo fare bella figura in pubblico, dando
un’impressione di “apertura” al diverso da sé.
Per uscirne, bisogna riscoprire e fare esperienza della dipendenza. Reciproca. Nessuno escluso.
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