L'ultimo film di Guerre Stellari è il riflesso della condizione americana, in inesorabile declino perché il possesso del potere materiale (leggasi finanziario e militare) non è sufficiente per imporre i propri modesti canoni culturali ed ancor più spirituali a tutta l'umanità, che gradualmente si rende sempre più consapevole dell'inganno e della sottomissione cui è stata lungamente sottoposta
di Francesco Mazzuoli - 10/01/2016
Fonte:
Conflitti e strategie , divulgato da Arianna Editrice
Il
cinema hollywoodiano è – per chi non lo sapesse, cioè tutti – un
cinema di Stato e di propaganda, anzi, oserei dire l’arma meglio
padroneggiata dall’impero americano. L’intera produzione filmica è
stata da sempre scrupolosamente supervisionata e presenta una
straordinaria omogeneità: grandi autori e miti come John Wayne o John
Ford hanno lavorato per tutta la vita in modo zelante per confezionare
prodotti di intrattenimento che veicolassero i valori e l’immagine
dell’America programmati dagli esperti di comunicazione ingaggiati
dalla Cia e dal Dipartimento di Stato. Oggi, però, anche la macchina
hollywodiana della propaganda mostra la corda e – per chi è in grado di
leggere i segnali “deboli” – questo è un altro sicuro indizio del
declino della prima potenza planetaria.
Il “nuovo”, deludentissimo episodio di Star Wars è la prova lampante di questo declino. Guerre stellari
è un mito americano per eccellenza ed esso è irrimediabilmente
invecchiato, non è più capace nè di affascinare nè di fare alcun tipo di
presa.
Quando il primo Guerre Stellari uscì,
nell’ormai lontano 1977, il film colpì per la freschezza e la carica
di innovazione che conteneva; non parliamo poi degli effetti speciali
che allora costituirono quasi una rivoluzione. Il successo travolgente –
e inaspettato dai produttori – dette il via alla serie che, episodio
dopo episodio, è giunta fino a noi. Dal punto di vista dell’intreccio,
non c’erano grosse novità, ma i personaggi si stagliavano a tutto tondo
in modo nitido e quasi prototipico, come eroi di narrazioni mitiche, e
la storia era scandita da passaggi che poi diventeranno canonici nello
sviluppo dei plot americani.
Ciò era il frutto degli insegnamenti dello studioso di mitologia
Joseph Cambell – all’università era stato insegnante del regista George
Lucas – le cui teorie cominciavano allora a penetrare tra gli
sceneggiatori di Hollywood, sempre pronti – come qualunque americano
degno di questo nome – ad appropriarsi della cultura elaborata da altri
per trasformarla in una formuletta per far soldi.
Questo
ennesimo episodio, invece, che inaugura un’altra – e stavolta,
speriamo ultima – trilogia della saga multimiliardaria, è stanco,
esanime, nato morto. Non ha più alcuna forza ammaliante e propulsiva.
Durante la visione, la mancanza totale di idee suscita quasi un
sentimento di pena, pena per un estenuato tentativo di tenere in vita
un cadavere e si ha la netta impressione che questo cadavere sia lo
stesso sogno americano. L’intreccio non è che il rifacimento del primo e
del secondo episodio, mescolati insieme in un cocktail dal sapore
dozzinale e risaputo come il Kentucky fried chicken.
Non c’è nemmeno un passaggio della storia che non sia già previsto
dallo spettatore dei primi episodi, che a tratti è colto da una noia
straziante. Per non dire del cosiddetto “visual” del film: qui si è
inteso riprendere l’atmosfera dei primi episodi con il risultato di
creare un senso di straniamento nello spettatore, il quale, partito per
vedere una storia temporalmente successiva agli episodi precedenti, ha,
invece, la sensazione di assistere a qualcosa di più vecchio.
Tuttavia,
l’icona del film è senz’altro Harrison Ford: un vecchio di
settant’anni che veste da ragazzino e nel frattempo non ha ancora
imparato a recitare. Ecco, qui c’è tutta la sintesi del declino
americano: un paese che è sempre rimasto adolescente e che
improvvisamente si ritrova invecchiato e ripropone nello spettacolo e
nella propaganda, così come nella geopolitica e nelle sceneggiature del
finto terrore propalato al mondo, sempre la stessa storia, la stessa
formula, gli stessi gesti, senza più la capacità di innovare, di
rinnovarsi e di leggere la realtà.
E
infatti la propaganda è quanto di più trito non si potrebbe: i cattivi
assomigliano ancora di più ai nazisti, nell’abbigliamento e nelle
adunate pubbliche che sembrano ricalcate sui cinegiornali degli anni
trenta. Il mondo è manicheo: i buoni sono assolutamente buoni e i
cattivi assolutamente cattivi. I conquistatori e gli imperialisti sono
gli altri: i buoni sono per la repubblica, la democrazia e garantiscono i
diritti di tutti. La famiglia e i legami di sangue sono
imprescindibili. É la stessa America degli anni ’50, con in più una
donna come protagonista e un personaggio di colore tra i buoni (e come
poteva mancare ora che, nella vita reale, praticamente tutti i giorni i
poliziotti bianchi gli sparano addosso?).
Eh sì, mentre, immerso nei videogiochi – e Star Wars
ormai non è altro che questo – l’americano ha continuato indefesso a
sparare, nel contempo il mondo è divenuto un posto troppo complesso per
un popolo di adolescenti, colpiti precocemente dall’aterosclerosi,
senza essere riusciti ancora a togliersi il giubbotto e i blue jeans
per mettersi la vestaglia.
Non è un paese per vecchi, recitava il titolo di un altro film americano. Già, ma nemmeno più un mondo per adolescenti invecchiati.
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