Hollande,
senti qua: «Più welfare, meno bombe. Così si sconfigge l’Isis»
Benedetta
Berti, lecturer all'Università di Tel Aviv: «Studio gruppi come l’Isis da dieci
anni: bombardare serve a poco o niente. Bisogna riempire i gap di
infrastrutture dove proliferano»
di
Silvia Favasuli
Cosa
fanno i gruppi come l’Isis quando non combattono? È questa la domanda da cui
partire per capire come intervenire oggi in Siria e Iraq. Così la pensa
Benedetta Berti, Lecturer dell'Università di Tel Aviv con alle spalle una
attività incessante da ricercatrice tra Americhe e Medio Oriente. Berti ha
passato gli ultimi dieci anni a studiare i “non-state groups”, organizzazioni
violente e non statali come Hezbollah, Hamas e Isis. E li osservati da dietro
le quinte, quando non sparano o attaccano. Ha analizzato i servizi di sicurezza
offerti alla popolazione, la raccolta dei rifiuti per le strade, la costruzione
di scuole, di ospedali. Ha studiato le loro attività economiche e la
comunicazione strategica per reclutare nuovi miliziani. E lo ha fatto vivendo
con loro, quando possibile, o captando le direttive inviate nel dark web dai
militanti di Isis alle varie province del cosiddetto Califfato tra Siria ed
Iraq.
Dietro la punta visibile a noi occidentali
– fatta di video-decapitazioni, rappresaglie, attacchi terroristici - c'è un
gigante iceberg che merita molta più attenzione
È
sulla base di queste ricerche che oggi afferma con convinzione questo: i
bombardamenti occidentali contro i gruppi islamisti sono piuttosto inutili. Ne
indeboliscono l'apparato militare, sì. Ma non il potere di controllo sul
territorio. Soprattutto, non riempiono, ma anzi estendono, quei gap dentro cui
i gruppi armati nascono e proliferano: il vuoto di servizi offerti ai cittadini
da parte di stati locali deboli. Uno stato di emergenza perenne dentro cui è
più facile reclutare nuovi jihadisti.
La guerra oggi non è più tra stati, ma tra
stati e non-stati
Dietro
la punta visibile a noi occidentali – fatta di video-decapitazioni,
rappresaglie, attacchi terroristici - c'è un iceberg che merita molta più
attenzione, ci dice oggi Berti. È un punto di vista che ci sembra fondamentale
acquisire oggi, al tempo in cui la guerra – dice sempre Berti – non è più tra
stati, ma tra stati e gruppi non statali.
Ci
chiarisce innanzitutto cosa intende per «non-state groups», i gruppi non
statali di cui si occupa nelle sue ricerche?
I
«non-state groups» sono tutti quegli attori che, dato uno stato, operano al di
fuori delle sue istituzioni, e che impiegano la forza per raggiungere i loro
obiettivi. Sono milizie o organizzazioni terroristiche che nascono al temine di
un conflitto. Oppure attività di guerriglia e criminalità organizzata nelle
grandi megalopoli. Insomma, tutto ciò che mette in discussione il potere dello
Stato. Mi sono occupata di casi diversi, ognuno con le sue specificità, ma
tutti uniti da questi due elementi: estraneità alle istituzioni statali, uso
della violenza e apparati militari a disposizione. Studio come operano, ma
anche le politiche da usare per disarmarli e aprire un dialogo.
«Isis ha un'organizzazione complessa che va
oltre il semplice apparato militare»
Considera
Isis uno di questi «non-state groups»?
Sì,
certo. E come molti altri (Hezbollah in Libano e Hamas nella Striscia di Gaza,
ad esempio) Isis ha un'organizzazione complessa che va oltre il semplice
apparato militare, l'unico che l'Occidente sembra vedere. Isis è nato dalle
radici di Al Qaeda in Iraq sulla base di un nuovo progetto di controllo del
territorio e della popolazione. Un obiettivo, quest'ultimo, che intende
raggiungere sì con l'uso della violenza, ma anche con la creazione di un vero e
proprio welfare statale. Quando conquista una nuova porzione di territorio, la
prima cosa che lo Stato Islamico fa è di assumere il controllo delle
infrastrutture: scuole, centrali elettriche, polizia.
«Puoi indebolire militarmente Isis, ma il
gruppo potrebbe semplicemente spostarsi geograficamente, ad esempio. Oppure
potrebbe sciogliersi e dare vita a splinter ancora più radicali».
Sulla
base di tutto questo, crede che l'inasprimento delle operazioni militari di
nazioni occidentali come la Francia contro le postazioni Isis possa essere
efficace?
I
bombardamenti possono senz'altro indebolire l'apparato militare del gruppo. Ma
possono anche peggiorare la situazione nel lungo termine. Il problema in questo
caso è strutturale. Isis è riuscito ad emergere grazie a due crisi molto
profonde. La prima, quella dell'Iraq post 2003, uno stato rimasto senza un
progetto di ricostruzione solido, affidato a un governo centrale debole e
corrotto, e che ha escluso una parte consistente della popolazione. La seconda,
quella della guerra civile siriana: un altro vuoto di potere. Questo significa
che senza una stabilizzazione della situazione, Isis o altri gruppi ancora più
radicali continueranno a rifiorire. Puoi indebolire militarmente Isis, ma il
gruppo potrebbe semplicemente spostarsi geograficamente, ad esempio. Oppure
potrebbe sciogliersi e dare vita a splinter ancora più radicali. Non bisogna
dimenticare che Isis è diventato anche un'idea cui altre milizie in altre parti
del mondo aderiscono. È un progetto complesso e di lungo termine.
In
che senso un'operazione militare potrebbe peggiorare la situazione?
Si
aggraverebbe l'emergenza umanitaria già profonda, creando le condizioni
migliori per reclutare nuovi jihadisti.
Va sostenuta la società civile, i progetti
di sviluppo civile locali, per riuscire a colmare quella mancanza di servizi
primari da parte governativa che spiana le porte a Isis e al controllo
territoriale.
Quali
sono allora le strategie migliori per affrontare la minaccia dell'Isis?
Nel
breve periodo bisogna sicuramente migliorare le capacità di intelligence e di
scambio di informazioni tra nazioni in Europa per prevenire nuovi attacchi. Poi
bisogna cercare di arrivare a una soluzione politica in Siria, lavorando con
l'opposizione siriana e con le forze curde. Il tutto sempre in un 'ottica di
messa in sicurezza del territorio. E di riduzione del vuoto di potere. Occorre
poi pensare al day after. Non c'è solo un'emergenza sicurezza. C'è soprattutto
un'emergenza umanitaria che è ulteriore fonte di instabilità. Bisogna sostenere
economicamente le organizzazioni impegnate nella gestione dei profughi, e
nazioni come Giordania e Libano ormai vicine all'implosione. Va sostenuta la
società civile, i progetti di sviluppo civile locali, per riuscire a colmare
quella mancanza di servizi primari da parte governativa che spiana le porte a
Isis e al controllo territoriale.
Immagina
anche un maggiore intervento delle nazioni occidentali nell'offerta di servizi
alla popolazione?
Lungi
da me l'idea di aumentare ulteriormente la presenza occidentale dentro le
società arabe. Credo sia più opportuno invece sostenere economicamente progetti
locali già esistenti, aiutare la società civile a colmare da sé vuoti di
servizi.
«Nell'estate appena trascorsa un gruppo di
tribù sunnite nei territori del “Califfato” si è ribellato. La conseguenza è
stato un massacro di massa»
Sappiamo
che a Baghdad, in Iraq, ogni venerdì ci sono proteste contro il governo e la
corruzione dei suoi membri. Si può sperare in una rivolta dall'interno anche
della popolazione sottomessa dall’Isis?
Le
poche testimonianze che ci arrivano ci fanno capire che siriani ed iracheni
accettano contro voglia le brutalità di Isis. Se facessimo dei sondaggi, per
dire, è chiaro che la maggior parte delle persone si direbbe contraria. Ma
sappiamo anche che questa popolazione vive in una condizione di dipendenza dai
miliziani. Economica, prima di tutto: gli islamisti sono gli unici capaci in
questo momento di fornire servizi base. Ma c'è anche una repressione totale che
rende impossibile ogni rivolta da dentro. Nell'estate appena trascorsa un
gruppo di tribù sunnite nei territori del “Califfato” si è ribellato. La
conseguenza è stato un massacro di massa, fatto anche per inviare un messaggio
forte al resto della popolazione.
Quali
fonti usi per le tue ricerche?
In
passato ho sempre preso contatti diretti con i gruppi che studiavo. Con Isis è
diverso. L'accesso diretto alle aree da loro controllate è impossibile. Lavoro
studiando le comunicazioni che i miliziani passano sui loro canali nel dark
web, come le direttive per le diverse province del “Califfato”. E ho fonti
locali che mi sono costruita in dieci anni di lavoro. Mi è utile anche la mia
attività di consulente umanitaria per i rifugiati siriani: li intervisto e mi faccio
raccontare quello che hanno vissuto nel caso in cui provengano dai territori
controllati da Isis.
Considerando
che l'attacco di Parigi è stato organizzato grazie alla disponibilità di
jihadisti francesi, credi che la tua teoria possa applicarsi anche a capitali
europee come Parigi? Quella cioè di riempire gap lasciati dai governi locali
nell'offerta di infrastrutture, scuole, ospedali, opportunità di sviluppo e
coinvolgimento nella società, evitando che «non-state groups» prendano il
sopravvento...
Il
mio lavoro si concentra soprattuto su stati deboli e situazioni di conflitto o
post-conflitto. Per questo esito a dire che il mio approccio sia valido anche
per Parigi, perché non ho studiato il caso. Detto questo, è piuttosto chiaro
che la mancanza di opportunità economiche, infrastrutture, accesso e esperienze
di difficoltà di integrazione nelle periferie di metropoli europee
contribuiscono tutte a creare insicurezza.
Nessun commento:
Posta un commento