In questo articolo finalmente si porta un minimo di chiarezza e realismo su quale sia le situazione negli USA, che i mass media tendono a mistificare o riportare riduttivamente, parzialmente e faziosamente. Alcuni stati, Lousiana e Texas in testa, vorrebbero la secessione dagli USA, l'indebitamento federale è a livelli parossistici ed insostenibili, l'accentramento liberticida federale è ormai intollerabile per chi ama la libertà, la carta costituzionale di fine '700 dei padri fondatori è ormai carta straccia a livello politico, e la fiducia dei mercati internazionali nei confronti del dollaro è ai minimi storici con rischio di implosione ...
Fonte: L'Indipendenza, Quotidiano on line http://www.lindipendenza.com
di LUCA FUSARI
A pochi giorni dalla nottata elettorale presidenziale 2012 che ha visto la rielezione di Barack Obama per altri 4 anni alla Casa Bianca, gli Stati dell’Unione sono in fibrillazione, una fibrillazione spontanea al momento ancora covata sotto le ceneri, che però da almeno 150 anni non si registrava sul suolo americano.
Sabato 10 Novembre 2012, i cittadini di 15 Stati (Louisiana, Texas, Montana, North Dakota, Indiana,Mississippi, Kentucky, North Carolina, Alabama, Florida, Georgia, New Jersey, Colorado, Oregon e New York), hanno depositato le petizioni da consegnare all’amministrazione Obama per chiedere il ritiro pacifico dei loro Stati dall’Unione al fine di darsi un loro indipendente assetto di governo.
Come spiega il sito Examiner, affinché le petizioni siano prese in considerazione dall’amministrazione Obama come richiesta, la legge statunitense prevede che ad un mese dalla data di presentazione della petizione, queste abbiano raccolto 25.000 firme; una petizione non è ricercabile sul sito della Casa Bianca fino a quando non sono state raccolte almeno 150 firme dai promotori.
Domenica 11 Novembre alle ore 12:46, le firme raccolte erano già 7358 in Louisiana, 636 in Florida, 475 Georgia, 834 Alabama, 792 in Carolina del Nord, 467 in Kentucky, 475 in Mississippi, 449 in Indiana, 162 in Nord Dakota, 440 in Montana, 324 in Colorado, 328 in Oregon, 301 in New Jersey e 169 New York; ma già si prevedono nuovi possibili petizioni di analogo tipo da altri Stati.
In meno di 48 ore il Texas da 3771 ha raggiunto le 25mila firme necessarie, ergo Obama dovrà affrontare e dar risposta alla richiesta di secessione ufficialmente sollevata dai promotori. A seguito del clamore sollevato anche sui massmedia americani dall’iniziativa popolare dei primi 15 Stati iniziali, se ne sono aggiunti altri 14 (di cui 10 con almeno 150 firme): Arizona, Arkansas, California, Illinois, Michigan, Missouri, South Carolina, Tennessee, Virginia, Wisconsin.
La geografia dell’area potenzialmente secessionista non si limita alla sola area della storica Confederazione degli Stati Americani di Jefferson Davis e del generale Robert Edward Lee, benché anche la dinamica degli eventi parrebbe rievocare a parti opposte quanto accadde prima dello scoppio della Guerra Civile americana (1861-1865), con tanto di reincarnazione di Lincoln e non solo in celluloide.
In molti potrebbero bollare e ridurre tale iniziativa come la reazione “stravagante e folkloristica” di sparuti gruppi di individui, a torto facilmente accusabili a priori di essere “xenofobi e razzisti”, i quali da bastian contrari di fronte all’esaltazione collettivista massmediatica promossa dalla riconferma del comandante in capo nello Studio Ovale, minacciano addirittura la secessione. In realtà, tali petizioni non sono il parto di un manipolo di razzisti suprematisti bianchi del Ku Klux Klan. Se la data di presentazione post-elettorale delle petizioni appare non casuale (utile forse per attirare umoralmente gli scontenti alla loro firma), è anche vero che i recenti dati delle presidenziali non sono in sé direttamente una prova di un legame automatico tra la volontà secessionista dei firmatari, la loro connotazione politica e quella dell’intero Stato di appartenenza. Obama ha vinto in Colorado ed Oregon, così pure nello Stato di New York, nel New Jersey e in California, che non sono Stati del Sud né certamente tacciabili come pregiudizialmente razzisti per la loro storia passata; le successive richieste di secessione da altri Stati dell’Unione dimostra come il fenomeno non si limiti al Dixieland.
I primi a chiedere lo scioglimento del proprio vincolo con gli Stati Uniti sono stati i cittadini della Louisiana, citando la Dichiarazione d’Indipendenza affermante che è diritto del popolo sciogliere e formare un nuovo governo, quando quello vigente non rispetta il consenso dei governati: «Quando nel corso degli eventi umani, sorge la necessità che un popolo sciolga i legami politici che lo hanno stretto ad un altro ed assumere tra le potenze della terra, il separato ed uguale statuto a cui le Leggi della Natura e di Natura Dio gli danno diritto, è conveniente riguardo alle opinioni dell’umanità richiede che esso renda note le cause che lo costringono a tale secessione».
La petizione dell’Oregon, afferma che lo Stato vuole restare un alleato degli Stati Uniti e possibilmente votare per rientrare nell’Unione solo una volta che «i cittadini dell’Oregon percepiranno il governo federale come non più imponente, ovvero un governo tirannico che non ha interesse per il futuro dei bambini dell’Oregon».
Leggendo la petizione ad esempio del Texas (Stato da sempre propenso a staccarsi dall’Unione, come non nascose in tempi recenti il suo attuale Governatore, il Repubblicano Rick Perry) si dichiara che: «Gli Stati Uniti continuano a soffrire le difficoltà economiche derivanti dalla negligenza del governo federale di riformare la spesa interna ed estera. I cittadini degli Stati Uniti soffrono di abusi evidenti dei loro diritti, come il NDAA, il TSA… Dal momento che lo Stato del Texas mantiene un bilancio in pareggio ed è la 15° più grande economia del mondo, è praticamente possibile per il Texas ritirarsi dall’Unione proteggendo i suoi standard di vita e i suoi cittadini, ri-proteggendo i loro diritti e le loro libertà in conformità con le idee originali e le credenze dei nostri Padri fondatori che non sono più il riferimento del governo federale».
Ma quali sono le idee originali e le credenze dei Padri fondatori a cui si riferisce la petizione? Non certo il ripristino della schiavitù, ma semmai il ripristino delle idee di Thomas Jefferson di decentramento federale dei poteri ai singoli Stati e ai loro cittadini, attraverso referendum locali e un più ravvicinato controllo sull’apparato statale, instaurando un governo minimo costituzionale, rispettoso dei diritti naturali di vita, scelta e proprietà dei suoi abitanti; tutto ciò che oggi è percepito assente a causa del dirigismo economico centralista imposto da Washington D.C sotto varie presidenze sia repubblicane che democratiche.
Obama con i salvataggi bancario-finanziari a Wall Street e all’industria dell’auto, e con il programma di assicurazione sanitaria obbligatoria (Obamacare) ha imposto a dispetto del X° emendamento della Costituzione (affermante che: «i poteri non demandati dalla Costituzione agli Stati Uniti, o da essa non vietati agli Stati, sono riservati ai rispettivi Stati, o al popolo») scelte autocratiche a livello federale ai singoli Stati dell’Unione e ai loro residenti. Scelte che possono definirsi liberticide in nome della sicurezza nazionale, dell’uguaglianza e della lotta al terrorismo sulla scia di George W. Bush come ricordato nella petizione texana.
La sua larga riconferma alle urne non deve ingannare, a differenza di quanto narra la propaganda sinistrata dei massmedia tra le due sponde dell’Atlantico, gli americani che non sono persuasi del suo operato restano la maggioranza della popolazione, al di là della sconfitta subita da Romney (un candidato poco convincente, il quale non ha fatto il pieno di voti neppure nel suo stesso partito tra i Tea Party, i fiscal conservative e i libertari).
Gli Usa dopo le recenti elezioni si confermano un Paese al suo interno profondamente diviso sul piano delle idee e delle proposte da adoperare per uscire dalla crisi: libero mercato e concorrenza tra Stati dell’Unione o pianificazione omologante ad opera del governo federale? Tali divisioni emergono a maggior ragione con la sconfitta dei Repubblicani, i quali hanno perso gran parte della loro capacità di attrazione e dirottamente delle istanze del Profondo Sud e della classe media statunitense all’interno di schemi consolidati di sistema a fronte di un Partito Democratico che è divenuto negli ultimi cent’anni un partito geograficamente nordista dedito a quel “sistema americano” di Big Government e consociativismo con lobbies della finanza e dell’industria, avversato nel XIX secolo proprio dai sudisti Democratici oppositori di Lincoln in quanto corporativista e non sostenibile senza tasse e protezionismo.
Gli elettori stanno capendo prima di altri che l’attuale sistema statunitense è uno status quo privo di prospettive reali di cambiamento in meglio, esso tende semmai solo a peggiorare producendo più tasse, più spesa pubblica clientelare e meno libertà economiche individuali.
Gli Usa hanno una disoccupazione ufficiale a poco meno dell’8% (ma in realtà usando i parametri degli anni ’80 è al 22%), un dollaro svalutatosi del proprio potere d’acquisto del 95% in un secolo e un debito federale di 16 miliardi di dollari insostenibile e a rischio futuro downgrade da parte delle agenzie di rating. Se entro il prossimo 31 Dicembre Repubblicani e Democratici non si metteranno d’accordo sul fiscal cliff, scatteranno tagli automatici alla spesa e aumenti feroci delle tasse, oltre alle nuove tasse preannunciate dal presidente (Carbon Tax), a cui potrebbe far seguito il mancato rinnovo del Tax Relief Act (l’estensione, per due anni, dei tagli fiscali voluti, a suo tempo, dall’amministrazione di George W. Bush) per ripianare i buchi di bilancio. Il Budget Control Act (voluto dai Repubblicani all’indomani della loro vittoria al Congresso, che impone una serie di tagli alla spesa pubblica delle agenzie governative, predisposte per scattare automaticamente nel caso il debito superi un tetto predefinito) potrebbe anch’esso saltare a causa del keynesismo bipartisan post-elettorale rendendo vana la stretta fiscale imposta ai contribuenti, con un calo del PIL dal -1/-2,5% nel 2013 che affosserebbe ulteriormente l’economia a stelle e strisce.
Benché siano assai poche al momento le possibilità che tutte le petizioni abbiano un immediato successo sia in termini di numeri raccolti a norma di legge che quale suo seguito (non solo consensuale), non è detto che in un prossimo futuro non possano acquisire a livello politico (nelle legislature nei singoli Stati) e sui social network, una loro rilevante popolarità ed influenza generando movimenti grassroot mainstream di protesta secessionista ed indipendentista dall’Unione così come venutisi a realizzare negli ultimi anni con i Tea Party ed Occupy Wall Street.
In ogni caso le firme fin qui raccolte vanno lette come un interessante segnale, un termometro sociale già da tempo oggetto di discussione in sede storiografica e in curiose analisi sociologiche, che il governo federale e l’establishment dei due principali partiti farebbe bene a non sottovalutare, la secessione quale opzione di libertà estrema senza compromessi è ancora oggi valida e viva nelle menti, nei cuori e nei portafogli di molti americani.
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