Certe soluzioni possono sembrare addirittura semplicistiche per poter avere successo e solo l'esperienza empirica può convincerci del loro funzionamento, come quella che stanno testando in diverse aziende e paesi del mondo, di lavorare solo 4 giorni alla settimana a parità di remunerazione. Sorprendentemente si rileva che aumenta la produttività, perché i lavoratori lavorano meglio, più sereni e motivati, avendo più tempo disponibile da dedicare a se stessi e alla propria famiglia. In questo modo si fa gli interessi di tutti gli attori coinvolti, puntando sulla qualità condivisa e non sull'imposizione e sulla quantità di lavoro. Da noi in Italia sarà difficile applicare questi criteri essendo il mercato del lavoro alterato da decenni di precarietà, individualismo, rigidità e ottusità sindacale, interferenze politiche squilibrate e contingenti, fiscalità assurda e sperequativa, ecc.. Sappiamo benissimo che dove interviene la politica riesce solo ad arrecare danni, per cui possiamo sperare solo nella lungimiranza e innovazione culturale degli imprenditori e nella capacità dei lavoratori di accogliere queste istanze con senso di responsabilità, cooperazione e solidarietà, che sono gli elementi fondanti di qualsiasi aggregazione sociale e professionale. Claudio
Lavorare meno, lavorare tutti. Dopo lo tsunami
causato dalla crisi finanziaria del 2008, questo slogan è entrato
prepotentemente nel dibattito pubblico e, di recente, anche nelle
istituzioni italiane. Il nuovo presidente dell’INPS, Pasquale Tridico,
sostiene da tempo che una riduzione dell’orario di lavoro, a parità di
stipendio, sia una leva per far aumentare l’occupazione e per ridistribuire la ricchezza.
Secondo il custode delle pensioni italiane, gli incrementi di
produttività andrebbero compensati con un aumento della retribuzione o
con maggiore tempo libero.
Le aziende ricorrono sempre più spesso all’utilizzo
del termine flessibilità per calibrare l’orario di lavoro dei
dipendenti. Peccato che il concetto di lavoro flessibile finisca spesso
con l’essere utilizzato a svantaggio dei lavoratori. Il laptop e il
cellulare aziendale ti permettono di lavorare agevolmente da remoto ma
ti costringono anche a leggere le email di lavoro a orari improbabili.
Il lavoro part time in Italia rappresenta sempre più spesso l’unica possibilità per evitare di rimanere senza un’occupazione,
e il lavoro flessibile assume sempre più spesso la connotazione di
lavoro precario, con meno tutele e meno stabilità di chi ha un impiego
fisso. Il bilanciamento tra attività lavorativa e vita privata viene
messo in secondo piano, sacrificato sull’altare delle esigenze
aziendali.
Quando le società decidono di porre attenzione sulle
esigenze dei propri dipendenti, tuttavia, i risultati possono essere
sorprendenti. In Giappone, Microsoft Japan ha sperimentato la settimana lavorativa di quattro giorni
senza nessuna riduzione della retribuzione. Secondo i dati forniti
dall’azienda nipponica, la produttività è aumentata del 40% durante il
periodo di prova. La durata delle riunioni interne si è dimezzata e si
sono registrati risparmi in termini di elettricità e di carta
utilizzata, con un effetto positivo anche sull’ambiente. La
sperimentazione è stata accolta con entusiasmo dai dipendenti e dai
giapponesi che hanno da molti anni un serio problema di superlavoro con
ritmi insostenibili che hanno portato anche a morti per lavoro eccessivo davvero inaccettabili.
Restando in Giappone, anche la catena di abbigliamento Uniqlo,
nel 2015, ha offerto ai propri dipendenti la possibilità di lavorare
soltanto quattro giorni a settimana. In questo caso, però, le ore di
lavoro giornaliere venivano aumentate fino a dieci. Nonostante i ritmi
particolarmente intensi, però, l’esperimento è riuscito a coniugare
l’approvazione dei dipendenti con un aumento della produttività. La
settimana corta è stata implementata anche dalla Perpetual Guardian,
una società neozelandese che dopo gli incrementi di produttività
registrati durante il pilot ha deciso di rendere la policy permanente.
Il fondatore della società, Andrew Barnes, ritiene infatti che la
settimana lavorativa di quattro giorni non implichi soltanto un giorno
in più di riposo ma sia in grado di spronare i dipendenti nel mantenere
uno standard elevato volto a soddisfare le esigenze dei clienti. Se un
lavoratore viene messo nella condizione di poter bilanciare vita privata
e professionale a quanto pare è più felice e questo lo fa lavorare
meglio. Questa non sembra una relazione tanto sorprendente eppure ancora
in pochi al mondo sembrano comprenderla.
Alcune analisi economiche hanno stabilito come all’aumentare dell’orario di lavoro la produttività del singolo dipendente diminuisca. Ad esempio, una conference call fatta dopo una giornata particolarmente stressante
rischia di durare molto più del dovuto. La fatica gioca un ruolo
importante nell’organizzazione del lavoro. È arrivato il momento per le
aziende di prendere in seria considerazione questo aspetto. La gig economy
è stata uno strumento utilizzato in larga parte dalle imprese per
diversificare la propria offerta di prodotti e servizi. La forza lavoro
non ha tratto particolari benefici dalla rivoluzione tecnologica che, al
contrario, ha spesso incentivato la creazione di nuovi lavori con
pochissime tutele, come nel caso dei riders.
C’è da dire che le imprese che forniscono servizi –
ancora troppo poche in Italia – hanno una struttura più agile in grado
di rispondere velocemente alle riforme legislative. La natura industriale italiana
al momento sarebbe difficilmente compatibile con una modifica per legge
della settimana lavorativa. Le realtà produttive sono ancora legate a
un sistema di relazioni industriali tradizionale, dove il sindacato e la
contrattazione collettiva hanno un ruolo centrale. Molte
aziende, dunque a oggi non sarebbero in grado di garantire un giorno in
meno di lavoro a parità di salario, e un intervento legislativo in
questo senso rischierebbe di produrre risultati indesiderati, come il
calo dell’occupazione e tensioni sociali nelle realtà produttive meno
avanzate. È fondamentale quindi procedere con ordine, incentivando le
aziende più innovative a svolgere il ruolo di apripista, ridistribuendo i
loro incrementi di produttività verso il benessere dei lavoratori. Il
sindacato dovrebbe ricoprire un ruolo chiave anche in questo senso.
Procedere per decreto potrebbe essere controproducente. Una diversa
regolamentazione dell’orario di lavoro da inserire nei singoli contratti
collettivi sarebbe invece molto utile. Per le aziende più innovative è
ormai imprescindibile uscire dalla vecchia logica che guarda all’orario
come mero e primario strumento di controllo per entrare in una nuova era
in cui le ore lavorative vengono commisurate alla produttività e al
benessere dei dipendenti.
Per quanto riguarda il ruolo del sindacato nel settore industriale, un esempio virtuoso viene dalla Germania, dove il sindacato Ig Metall ha sottoscritto un accordo con le associazioni industriali
grazie al quale i dipendenti potranno scegliere di ridurre il proprio
orario di lavoro a 28 ore settimanali, dedicando il tempo libero ai
figli piccoli o ai parenti malati. Questa possibilità è stata estesa
anche ai lavoratori che svolgono attività particolarmente usuranti.
L’accordo dimostra come i lavoratori abbiano ancora bisogno di
rappresentanti in grado di tutelare i loro diritti e migliorare la loro
qualità della vita. Il contratto collettivo è stato sottoscritto nella
regione che ospita gli stabilimenti della Porsche e della Daimler e
riguarda oltre novecentomila lavoratori. L’obiettivo è estendere la
riduzione di orario ai quasi quattro milioni di lavoratori del settore
metalmeccanico.
Come ogni transizione, sono molte le insidie che
potrebbero frapporsi tra la diminuzione dell’orario di occupazione e un
effettivo aumento del benessere dei dipendenti. I datori di lavoro
potrebbero mantenere un doppio regime secondo il quale alcuni dipendenti
sarebbero obbligati a prestare attività lavorativa per quattro giorni a
settimana mentre la restante parte della forza lavoro continuerebbe a
lavorare per cinque giorni settimanali. In questo scenario sarebbe molto
facile andare incontro a diverse discriminazioni: un bonus
legato alle presenze di importo inferiore, meno giorni di ferie, il
rischio di essere emarginati dai colleghi che lavorano di più. È molto
importante accompagnare la transizione rafforzando le tutele contro le
discriminazioni sul luogo di lavoro. L’Italia, con i rapporti di lavoro part time, sta già vivendo una sorta di segregazione nel mercato del lavoro. Evitare di costruirne di nuove potrebbe essere una buona idea.
Il declino del sindacato, soprattutto se osservato
dalle giovani generazioni, è un elemento di criticità che non aiuta
certo a conquistare diritti. Circa la metà degli iscritti alle organizzazioni sindacali
sono ormai pensionati. L’individualismo a cui siamo arrivati non ci
consente di arrivare efficacemente alla conquista dei diritti
collettivi. Spesso ci si limita ad auspicare un intervento delle aziende
virtuose che dovrebbe produrre un effetto volano su tutti i lavoratori,
sfruttando la reputazione delle società leader e la loro
posizione sul mercato. Ma le leggi esistenti sull’orario di lavoro, lo
Statuto dei lavoratori, le norme che regolano i licenziamenti collettivi
sono arrivate grazie alla pressione esercitata dai rappresentanti.
L’unione fa la forza è sicuramente un principio che nel lavoro vale più
che in altri contesti.
Per lavorare meglio, ormai sembra chiaro che bisogna
lavorare meno. Raggiungere l’obiettivo richiede però uno sforzo
collettivo che un tempo si sarebbe raggiunto solo attraverso le
organizzazioni sindacali tradizionali. Oggi le forme di aggregazione
sociale sono molto diverse e sono soprattutto molto frammentarie. Per
conquistare diritti però bisogna restare uniti. I giovani, non molti,
che hanno la fortuna di avere un’occupazione stabile in Italia hanno la
possibilità di unirsi per chiedere condizioni di lavoro migliori per
loro e per chi ancora deve trovare un lavoro. Con la rivoluzione
tecnologica ci è stato promesso un formidabile miglioramento delle
nostre condizioni di vita. È arrivato il momento di prenderci quello che
è nostro, convincendo le imprese che il loro successo passa anche
attraverso il nostro benessere.
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