di Claudio Martinotti Doria
La diga secondaria, o del bric Zerbino.
Da noi in provincia di Alessandria non ci facciamo mai
mancare nulla. Si è vero non abbiamo il mare, ma a volte si rimedia con qualche
onda anomala prodotta artificialmente, solo che a differenza della Liguria dove
al massimo devasta qualche spiaggia, quando si è verificata in passato ha
causato tragedie. In questo caso non mi riferisco alle alluvioni, ben impresse
nella mente di tutti essendo avvenimenti traumatici recenti (1994 e 2000), ma
ad un tragico episodio verificatosi 80 anni fa, una sorta di Vajont in scala
ridotta (ma non per le vittime) e sicuramente molto meno conosciuto: il
crollo della diga della sella Zerbino nel lago di Ortiglieto del 13 agosto
1935, che riversò 30 milioni di mc di acqua e fango sul territorio
sottostante colpendo in particolare Ovada, causando 111 morti e distruggendo
centinaia di edifici ed alcuni ponti, infrastrutture pubbliche ed aziende
agricole.
Ovada, resti del quartiere Borgo e del ponte di piazza Castello dopo la catastrofe.
Nulla avrebbe potuto salvarsi di fronte ad una massa di
acqua e fango e detriti alta 20 mt e larga due km che scese ad alta velocità e
con un frastuono da far accapponare la pelle.
All’epoca, come avvenne successivamente in
circostanze analoghe, si attribuì l’evento ad una tragica fatalità: eccessive
precipitazioni piovose, oltre 40 cm in poche ore, per cui non si punirono i
colpevoli, che erano molti e avrebbero rivelato la corruzione e collusione in
seno al partito fascista (il cui ventennio alcuni sprovveduti insistono a
considerare politicamente poco disonesto). Del resto è imperdonabile non aver
considerato il rischio di precipitazioni elevate, in quanto a differenza di
quanto tuttora si ritiene, non sono affatto un evento raro, ma ciclico, e nella
progettazione di una diga si dovrebbero assolutamente prevedere. Così come è
imperdonabile non aver ascoltato (come sempre accade in simili circostanze) i
numerosi allarmi che furono manifestati da geologi, ingegneri ed abitanti sui
rischi connessi all’invaso (qualità costruttive) ed alla sua gestione
(sottovalutazione dei rischi ed assenza di contromisure).
La sella Zerbino dopo il crollo dello sbarramento.
L’unica nota positiva
attribuibile all’epoca e non ripetuta successivamente (ed è triste doverlo
dire), è la rapidità con cui il regime provvide alla ricostruzione ed il
risarcimento di 30mila lire alle famiglie delle vittime (una cifra
significativa per l’epoca). I media all’epoca ovviamente si attenevano alle
disposizioni del regime fascista per cui tennero un basso profilo per far
passare la tragedia nel dimenticatoio, ma oggi non mi pare si possa affermare
che i media siano più autonomi, liberi ed incisivi, abituati come sono a
riportare lanci di agenzie di stampa e veline di fonti unilaterali e faziose,
con l’unico valore aggiunto (per usare un eufemismo) di qualche innocuo
superficiale commento personale perlopiù con errori di battitura ed
ortografici.
Ovada / Molare
Ore 13.15:
ottant'anni fa l'apocalisse
Un'ondata immane generata dal crollo della diga secondaria
di Molare provocò la morte di 111 persone, danni enormi alla comunità
OVADA / MOLARE - “Ciò che ferisce è
la consapevolezza che non si è trattato di fatalità, come da qualche parte si è
tentato di affermare, ma di ingordigia di denaro, di grettezza d’animo unite a
profonda insensibilità da parte di personaggi di spicco e influenti rimasti
perciò impuniti, consapevoli del pericolo che non hanno esitato a calpestare
con il disprezzo e la sete di guadagno i diritti di una popolazione operosa e
inconsapevole…”. Alessandra
Arzone perse, con il crollo della diga secondaria di Molare, i
genitori. Lei stessa, che quel tragico 13 agosto di ottanta anni fa aveva 9
anni, fu strappata alle acque da Marco Barisione dei Natalini. Allevata dai
nonni, e diventata adulta, si laureò prima in Chimica Industriale, poi in
Farmacia per diventare studiosa e docente universitaria di Entomologia e
Zoologia.
La tragedia senza colpevoli prese forme dalle luci dell’alba di un giovedì, in
un anno fino a quel momento considerato siccitoso. A Ortiglieto iniziò a
piovere alle 6.00. A Molare e Ovada il nubifragio arrivò alle 7.30. “I dati
pluviometrici registrati in tutte le stazioni del circondario furono a dir poco
sconcertanti ma in linea, per fare un esempio, con quanto accaduto l’ottobre
scorso – ricorda il
geologo Vittorio Bonaria che all’evento ha dedicato il volume “Storia della
diga di Molare – Il Vajont dimenticato” - L'evento portò
nell'arco di meno di 8 ore una precipitazione pari a quasi il 30 % di quelle
medie annue per quelle zone.
Alle 12.30 circa le acque del torrente incominciarono a tracimare sopra i due
sbarramenti. Un’ora dopo la Diga Secondaria e tutta la Sella
Zerbino collassarono sotto la spinta di una massa d'acqua e fango stimata
intorno tra i 20 e 25 milioni di metri cubi d’acqua”.
I primi a farne le spese furono due viandanti di
Cassinelle, alloggiati in un ostello nei pressi. Nell’ora successiva l’immane
ondata seminò morte e distruzione, a partire dal crollo del ponte di Molare,
poi alla Rebba, in Regione Carlovini fino a spazzare via il Borgo di Ovada. Dall’impianto,
incredibilmente sprovvisto di collegamento telefonico, non partì alcun allarme.
Le cause. “E’ errato pensare che solo l’abbondanza delle
piogge sia alla base di quel che accadde – prosegue Bonaria – Il progetto
iniziale fu più volte rivisto con due scopi: aumentare la portata dell’acqua e
contenere i costi. Tra il 1924 ed il 1925 iniziarono le operazioni di invaso,
molte delle quali abusive. I sopralluoghi evidenziarono ripetutamente cospicue
perdite d’acqua. Si provò a porre rimedio con innesti cementizi sulla
roccia di scarsa qualità. Il collaudo del 1927 non fu eseguito alla
quota di massimo invaso”. Tutto per permettere alla Officine Elettriche
Genovesi, costola della potentissima Edison del tempo, di ottenere il suo
scopo. La quota di massimo invaso fu stabilita 322 metri sul livello del mare.
Il guardiano Abele Deguz e gli ingegneri del Genio Civile preposti al controllo
periodico provarono a segnalare i problemi, senz’essere presi in
considerazione. “In anni precedenti – raccontano dall’Accademia Urbense – le
piogge furono anche più abbondanti, ad esempio nel 1915.
Le case aperte come libri.
L’acqua dilagò nelle zone basse di Ovada, in regione Carlovini, località
Monteggio (sotto Cremolino). E poi il Borgo. “Per tutta la vita, davanti ai
nostri occhi di bambini spaventat – ricorda Walter Secondino, autore de
“Il Borgo prima del crollo della diga di Molare -, resterà la visione
di quell’onda maledetta che stritolò le cose, elevando al cielo, in una nube di
polvere, l’ultimo segno di vita di chi non ebbe scampo”. Del totale di 111
vittime accertate, 60 trovarono la morte nella porzione di città oltre il
ponte. Resistettero il ponte della Veneta e il solidissimo muro dello
Sferisterio che deviò l’acqua. Il bilancio complessivo: 35 case crollate alla
località Borgo di Ovada, 20 alla Ghiaia di Molare, 15 alla Rebba.
Crollati i ponti di Molare e di Belforte Monferrato. Distrutti
boschi, campi; divelti pali delle linee telefoniche ed elettriche, danneggiata
la ferrovia per Alessandria e le strade. Un mare di melma ribollente a
nascondere le macerie.
Un processo con tante ombre. Il 28 Maggio 1938 presso la Regia
Corte d’Appello di Torino promulgò la sentenza di assoluzione nel processo
penale riguardante “il crollo della Diga Sella Zerbino” per tutti gli imputati
per non aver commesso i fatti a loro attribuiti. La difesa potè contare su un
team di avvocati di altissimo profilo, tra i quali spiccava il gerarca fascista
Roberto Farinacci, un’altrettanto agguerrita truppa di cosulenti e periti che
riuscirono ad addossare sulle cause naturale tutte le responsabilità. Il giorno
dopo la tragedia si trasmise un secondo allarme sul crollo della diga
principale: gran parte della popolazione si raccolse, per ore di ansia
e paura, nella parte più alta verso Tagliolo. Fu il parroco, don Beccaro, a
intimare alle persone di tornare a casa. L’Edison, forse per ripulirsi in
minima parte la coscienza, ospitò i bambini rimasti orfani nella sua colonia di
Suna di Pallanza dove studiarono e impararono una professione. “Decine di
migliaia di perdone -ricorda ancora Secondino nel suo libro - parteciparono ai
funerali delle prime 70 vittime del disastro. Le bare, vigilate amorosamente
dalle suore Madri Pie di Ovada, furono allineate nella grande Casa del Fascio
(ora Teatro comunale). Presso di loro furono deposte decine di corone
di fiori, tra cui quella del Capo del Governo, del Segretario del
Partito Fascista, del Prefetto della Provincia, delle Federazioni dei Fasci di
tutta la Provincia”. Piangere era l’unica cosa si potesse fare.
13/08/2015
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