L’Europa
ce lo chiede dal 1992, ma noi e la Grecia siamo gli unici paesi
dell’Unione a non darle ascolto. È ora di invertire la rotta
di Francesco Cancellato
Finanza
buona e finanza cattiva. L’economia che entra nella vita delle persone.
L’impotenza della politica, così come la conoscevamo. La necessità di
uscire dagli steccati ideologici e dal senso comune, per provare a
percorrere strade nuove. È a partire da questi presupposti che nasce la
collaborazione de Linkiesta, quotidiano online che fa del focus sulle
policy e sull'economia la sua cifra identitaria, e "I diavoli", spin off
online dell'omonimo romanzo di Guido Maria Brera - fondatore di Kairos,
una delle più importanti società di gestione del risparmio italiane, e
dell'associazione Slow Finance - che concentra la sua attenzione sulla
finanza come arma biopolitica. Cinque grandi temi, dal nuovo welfare
alla casa, dall'istruzione alla salute sino alla difesa, affrontati con
tagli differenti, analisi economiche e video-infografiche, inchieste e
fiction per provare a far più luce possibile su ciò che spesso è tenuto
al buio.
L'Italia ha tanti problemi, ma ce ne sono alcuni più gravi e urgenti di altri. Curiosamente, iniziano tutti con la lettera D:
disoccupazione, disuguaglianza, e una
distribuzione della ricchezza fortemente sbilanciata in favore delle generazioni più anziane. Tradotto in cifre:
la disoccupazione è al 12,7% e quella giovanile
lambisce il 43%.
A causa di ciò - d come disuguaglianza - c'è una fascia di ceto medio
che scivola pericolosamente verso la soglia della povertà, mentre c'è un
pezzo di paese che continua a cavarsela piuttosto bene. Tristemente - d
come distribuzione - ci sono sempre più giovani tra chi si impoverisce e
sempre più anziani tra chi se la cava.
L'arte di arrangiarsi di cui siamo maestri ci ha permesso, nel corso
degli ultimi anni, di affrontare il problema senza che nessuno avesse da
ridire, o quasi. Attraverso la
cassa integrazione -
ordinaria, in deroga, straordinaria - abbiamo blindato i redditi di chi
già lavorava e, causa crisi, rischiava di perdere il posto. Una mossa,
questa, che
ha bruciato circa 60 miliardi di euro in sei anni,
di fatto tutto quel che avevamo a disposizione per attenuare gli
effetti della crisi. Se la situazione non è esplosa è perché il sostegno
a buona parte dei nuovi disoccupati e dei nuovi poveri è arrivato
attraverso quello che molti definiscono
“welfare famigliare”. Tradotto: la prosecuzione
sine die della
paghetta della domenica.
Il finale, sebbene lontano, è noto: io
pago la pensione di mio padre, ma nessuno pagherà la mia. Il patto
generazionale salta, la maionese impazzisce
Intendiamoci: questo sistema più o meno regge, nel breve periodo. Il
problema è che cristallizza la società in un eterno presente in cui i
padri non diventano mai nonni e
i figli non diventano mai padri.
In cui le aspettative sul futuro se non sono paurosamente incerte, sono
figlie della speranza di fare, se si ha questa fortuna, il
rentier dell'appartamento che toccherà in eredità. In cui
una serie di consumi e di investimenti di passaggio
- comprare una casa, una cameretta, un auto più grande, e via dicendo -
sono procrastinati a data da destinarsi. Il finale, sebbene lontano, è
noto: io pago la pensione di mio padre, ma nessuno pagherà la mia. Il
patto generazionale salta, la maionese impazzisce, macelleria messicana e si salvi chi può.
Sebbene la prospettiva sia chiara, nessuno - salvo alcune rare eccezioni,
primo fra tutti il neo presidente dell'Inps Tito Boeri -
sembra intenzionato a prenderla di petto. Un po' perché ci sono
problemi più urgenti a cui pensare, dalla legge elettorale alla
stabilità dei conti pubblici del prossimo anno. Un po' perché non c'è modo di affrontarla se non quello di mettere mano a rendite consolidate.
Facciamo finta che quest'ultimo problema - il coraggio di chi ci governa nel prendere
misure impopolari - non esista. E prendiamo atto che
la recente sentenza della Consulta, che ha rispedito al mittente la norma riforma Fornero
che aveva bloccato ex post l'adeguamento delle pensioni al costo della
vita, castra sul nascere ogni velleità di toccare i cosiddetti diritti
acquisiti, quale ad esempio
l'idea di Tito Boeri di qualche giorno fa di c
alcolare tutte le pensioni, anche quelle antecedenti alla riforma, col
metodo contributivo.
È del 1992 infatti che giace in qualche
cassetto ministeriale la Direttiva 441 dell'allora Comunità Economica
Europea che ci chiede il reddito minimo garantito
Cosa, allora? Una possibile soluzione c'è. E un po'
come la lettera rubata del celebre e omonimo racconto di Edgar Allan Poe, è lì sul tavolo dal 1992. È del 1992 infatti che giace in qualche cassetto ministeriale la
Direttiva 441 dell'allora Comunità Economica Europea che
ci raccomandava di «riconoscere, nell'ambito d'un dispositivo globale e coerente di lotta all'emarginazione sociale,
il diritto fondamentale della persona a risorse e a prestazioni sufficienti per vivere conformemente alla dignità umana
e di adeguare di conseguenza, se e per quanto occorra, i propri sistemi
di protezione sociale ai principi e agli orientamenti esposti in
appresso». In parole molto povere, un ammortizzatore sociale universale
che viene dato a chiunque abbia perso o stia cercando un lavoro. In
parole ancora più povere, il
reddito minimo garantito.
Piccola precisazione: non si tratta né del
reddito di cittadinanza che tanto piace a Beppe Grillo a al Movimento Cinque Stelle
- sostegno del reddito garantito dallo Stato a qualunque cittadino
maggiorenne, indipendentemente dalla sua disponibilità a lavorare. E non
è nemmeno il
salario minimo, che in Italia è già
realtà per alcune categorie di lavoratori. È un punto fondamentale,
questo, che fa preferire il reddito minimo garantito alle sue
alternative. Perché non è un incentivo a non lavorare come il reddito di
cittadinanza, né uno strumento che favorisce soltanto chi lavora, come
il salario minimo. In altre parole,
se legato a politiche attive del lavoro
come si deve - ti do il reddito minimo se ti iscrivi a liste di
collocamento, corsi di formazione e aggiornamento professionale,
eccetera - può costituire al contrario un formidabile incentivo a
cercare lavoro. E, attraverso politiche attive ben costruite, di
chiudere la forbice, ora parecchio aperta,
tra le competenze richieste dal mercato e quelle offerte dai potenziali lavoratori.
Il reddito minimo garantito costa più o
meno quanto gli 80 euro, che però finiscono nelle mani di chi un lavoro
ce l'ha e incidono pochissimo sulla propensione ai consumi delle
famiglie
«Quanto costa?», si chiederanno i più pignoli. Non molto, in realtà. Ipotizzando un reddito minimo garantito costruito
sul modello del Revenu de solidarité active (Rsa) francese,
in cui al crescere del reddito da lavoro, il sussidio diminuisce ma il
reddito disponibile aumenta, il costo netto - tolti, cioè, i soldi che
non spenderemmo più per altri ammortizzatori sociali - sarebbe pari a
una cifra
attorno ai 10 miliardi di euro. Insomma, costa più o meno quanto gli 8
0 euro,
che però finiscono nelle mani di chi un lavoro ce l'ha e, come abbiamo
visto, incidono pochissimo sulla propensione ai consumi delle famiglie.
Poco più di quanto spendiamo, ogni anno, per le
casse integrazione, tipico ammortizzatore "passivo" che cristallizza la forza lavoro di un'impresa in attesa - aspetta e spera - di tempi migliori.
Attingere a queste fonti potrebbe essere doloroso, ma alla resa dei
conti, necessario. Perché prende di petto il problema dell'occupazione e
del
mismatch tra domanda e offerta di lavoro. Perché è una
política redistributiva
che attacca la povertà e riduce le diseguaglianze. Perché sposta le
risorse dagli occupati (vecchi) ai disoccupati (giovani e vecchi che
siano, ma principalmente giovani). Perché
può far crescere i consumi e il potere d'acquisto di chi ha poco o niente, e quindi più necessità di comprare. Infine, perché
è l'unica cosa che l'Europa ci ha chiesto e ci siamo dimenticati di fare. Noi, la Grecia e basta. Non esattamente la migliore delle compagnie possibili.