Intervista a Carlo Lottieri
... la nascita di varie istituzioni indipendenti rafforzerebbe la società civile a scapito del ceto politico, poiché accrescerebbe la concorrenza istituzionale, diminuirebbe il parassitismo (più difficile nelle piccole realtà), cancellerebbe la redistribuzione territoriale, avvicinerebbe i governanti ai governati, e via dicendo.
Carlo Lottieri è uno dei maggiori esponenti del pensiero liberale e libertario italiano. Nel 2003 è stato tra i fondatori dell’Istituto Bruno Leoni, del quale dirige il dipartimento di Teoria Politica. E’ professore di Dottrina dello Stato all’Università di Siena e collabora con “Il Giornale”. In questa intervista, realizzata da Luca Bertoletti per The Fielder, abbiamo affrontato insieme al Professore – che ringraziamo per la disponibilità – alcune tematiche dell’attualità politica italiana ed europea.
- Professor Lottieri, da qualche tempo Lei sta sostenendo le ragioni – insieme ad alcuni esponenti della società civile riuniti nell’associazione Diritto di Voto – di quanti chiedono un referendum sull’indipendenza veneta. Può spiegare i punti salienti di questa iniziativa?
L’Europa sta cambiando e a grande velocità. Lo Stato nazionale, all’origine di terribili tragedie e troppe inutili stragi (oltre che il fondamento di regimi illiberali e, oggi, di una redistribuzione welfarista che sta affossando l’economia), sta entrando in una crisi che è accelerata dalle crescenti difficoltà sociali. Quello che auspico è che a ogni diversa realtà d’Europa (a ogni regione e a ogni città) sia riconosciuta la facoltà di mantenere il legame attuale con lo Stato di cui fa parte, se lo vuole, oppure di andarsene, se lo preferisce. Se il Montenegro ha potuto separarsi dalla Serbia, grazie a un referendum, e se la Scozia nel 2014 voterà sulla propria indipendenza, per quale ragione tale facoltà di decidere sul proprio futuro dovrebbe essere negata ai veneti o ai catalani? Senza dimenticare che la nascita di varie istituzioni indipendenti rafforzerebbe la società civile a scapito del ceto politico, poiché accrescerebbe la concorrenza istituzionale, diminuirebbe il parassitismo (più difficile nelle piccole realtà), cancellerebbe la redistribuzione territoriale, avvicinerebbe i governanti ai governati, e via dicendo. A mio parere, comunque, in Veneto quel referendum si farà, dato che le ragioni del diritto internazionale e il massiccio consenso della popolazione sono assai più forti dell’articolo 5 della Costituzione. Senza dimenticare che nessuna popolazione è disposta ad accettare il declino e vedere negate le proprie libertà solo in ragione di qualche parola, figlia di una cultura illiberale, scritta su un pezzo di carta più di mezzo secolo fa.
- Nelle “Lezioni di Politica”, Miglio sostiene che “la miseria e la grandezza dello Stato moderno si gioca, in larga parte, nella perenne contesa fra lo Stato che cerca di spremere i cittadini per avere le risorse di cui ha bisogno, e questi che gli resistono, o che almeno cercano di difendersi”. Qual è il suo pensiero sull’attuale rapporto, in Italia, fra lo Stato, i cittadini e le risorse?
Il realismo politico di Miglio è esemplare. Lo Stato moderno è in larga misura la prosecuzione e la riformulazione, entro un quadro istituzionale e ideologico assai raffinato, del dominio che la tribù vincente esercita su quella sconfitta all’indomani di una vittoria militare. Il ceto politico-burocratico è la classe dominante (o una parte rilevante di essa) e usa questa condizione per ottenere prestigio e risorse. Ma ormai si ha la sensazione di essere su una barca governata da un ammiraglio ubriaco. In particolare, la quota di ricchezza che i settori più parassitari stanno estraendo dal resto della società è talmente elevata che l’intero organismo rischia di morire. Ogni bimbo che oggi viene al mondo deve fare i conti, fin dal primo giorno di vita, con un debito pubblico pro-capite di circa 100 mila euro: tra debito statale, debito degli enti locali e debito previdenziale. In questa situazione è normale che i giovani, i capitali e le imprese se ne vadano. L’unica alternativa a questa secessione silenziosa è la nascita di nuove entità indipendenti, in modo che ognuno sia tenuto a tenere in ordine quanto più sia possibile il proprio cortile.
- Come giudica l’operato del governo Monti?
Questo esecutivo si è trovato a operare in un quadro disastroso, perché il governo Berlusconi-Tremonti è stato un fallimento senza pari. Ma invece che puntare – specie nei primi cento giorni – su un’azione volta ad aggredire la spesa pubblica e più in generale a ridimensionare l’enorme arcipelago dei dipendenti statali, Monti ha preferito aumentare a dismisura il prelievo fiscale e questo per ragioni di calcolo politico. Il suo obiettivo era ed è quello di arrivare in piedi, per così dire, alle prossime elezioni: e quindi ha fatto calcoli ragionieristici di breve termine. Com’è caratteristico di ogni politico di lungo corso.
- Qual è la sua opinione sull’ennesima discesa in campo di Silvio Berlusconi? Secondo lei, quali sono le prospettive a breve e lungo termine per il centrodestra italiano?
Silvio Berlusconi è un equivoco da cui bisogna uscire al più presto. Non penso che l’Italia sia riformabile, ma rispetto quanti coltivano questa speranza. Il problema è che nel centro-destra italiano degli ultimi vent’anni e nel ridicolo tentativo attuale di mantenerlo in vita non c’è neppure questo sogno irrealistico. C’è solo il persistere di simboli laceri, di retoriche nazionali senza credibilità, di una propaganda talora vagamente liberale ma puntualmente smentita da pratiche stataliste (a Berlusconi va imputata la responsabilità di avere consegnato a Giulio Tremonti la gestione dell’economia). Il centro-destra è soprattutto un vuoto di idee, ideali ed esperienze positive. Non credo abbia prospettive.
- La sconfitta di Matteo Renzi alle primarie del centrosinistra ha dimostrato ancora una volta quanto sia difficile scardinare la nomenklatura dei partiti, e ha confermato la storica diffidenza dell’elettorato verso idee – anche vagamente – liberali. Come spiega questa avversione?
La sinistra italiana chiamata a scegliere tra Bersani e Renzi è, in primo luogo, l’erede del vecchio partito comunista: non è quindi sorprendente che non sia attraversata da idealità libertarie. Il vero padre storico della nostra sinistra si chiama Palmiro Togliatti, che era alla testa del Comintern staliniano all’epoca della guerra di Spagna. Alla luce di tutto ciò, il risultato finale delle primarie non è quindi del tutto negativo. Ma il guaio sta nel fatto che il meglio che oggi l’Italia sa tirare fuori dal cilindro è un giovane-vecchio democristiano che ha fatto tutta una gavetta da politico di professione, presiedendo la provincia di Firenze prima di diventare sindaco della città. In realtà, considerata questa forte avversione per le logiche liberali che caratterizza il Paese, è il caso di prendere atto che gli italiani possono essere portati a capire i benefici di questo solo da una trasformazione radicale, che lasci alle spalle lo Stato nazionale unitario.
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