Siamo certi che nel 1918 abbiano vinto i migliori? Il ruolo decisivo,
negli esiti dell’usura mondiale: la colpa di Germania e Austria fu
quella di aver voluto impedire il prevalere delle banche e dell’usura su
economia e lavoro di Francesco Lamendola
Siamo certi che nel 1918 abbiano vinto i migliori?
di
Francesco Lamendola
Una delle certezze della cultura politically correct,
pur se non viene esplicitata, ma anzi viene schermata dietro la debita
cortina di lacrime per il “suicidio” dell’Europa del 1914, è che la Prima guerra mondiale si
sia conclusa con la vittoria della parte “giusta”, cioè quella
dell’Intesa, supportata dagli Stati Uniti e dopo che la Russia zarista,
brutta e cattiva perché reazionaria, era uscita di scena con la pace separata di Brest-Litowsk.
Di solito non viene detto, cioè i libri di testo scolastici ce lo
risparmiano, e anche i professori si astengono dal dirlo a chiare note,
tuttavia c’è un sottinteso: che la eventuale vittoria degli Imperi
Centrali sarebbe stata una disgrazia senza pari, capace di risospingere
indietro l’orologio della storia per chissà quanti anni. Gli Imperi
Centrali, infatti- così ci viene detto - rappresentavano il principio
monarchico, anzi il principio imperiale, autoritario e militarista; e
poco importa se sia la Germania, sia l’Austria-Ungheria erano delle
monarchie costituzionali con dei Parlamenti liberamente eletti e che in
esse, e specialmente nella prima, vi fosse la più ampia tutela dei
diritti civili, nonché una legislazione sociale fra le più avanzate al
mondo. Gli operai tedeschi, e in qualche misura anche quelli austriaci,
godevano di una protezione giuridica, di una condizione economica e di
una tutela sindacale per niente inferiore a quelle esistenti nelle
democrazie occidentali e negli Stati Uniti d’America, semmai maggiori.
Negli Stati Uniti, ancora nel 1914 i proprietari delle miniere del
Colorado assoldavamo delle bande di assassini per terrorizzare e
uccidere i lavoratori in sciopero e loro famiglie, come testimoniato da
un giornalista di razza quale John Reed. Fatti simili sarebbero stati
inconcepibili nella Germania guglielmina e perfino nella vecchia Austria
di Francesco Giuseppe, pur squassata dalle lotte fra le diverse
nazionalità.
Francesco Giuseppe d'Asburgo: gli
operai tedeschi, e in qualche misura anche quelli austriaci, godevano
di una protezione giuridica, di una condizione economica e di una tutela
sindacale per niente inferiore a quelle esistenti nelle democrazie
occidentali e negli Stati Uniti d’America, semmai maggiori!
In Italia le
tensioni sociali erano talmente forti che davano luogo a veri e propri
fermenti rivoluzionari, come si vide nella settimana rossa del 7-14
giugno 1914. Certo, negli Imperi Centrali vigeva il culto dell’autorità,
proprio perché i loro popoli erano stati appena sfiorati dalle
ideologie liberali trionfanti nell’Europa occidentale dopo la
Rivoluzione francese. Le monarchie austriaca e prussiana avevano tenuto
alto il principio della conservazione mentre in Europa occidentale
faceva proseliti quello della rivoluzione: questa era la vera, grande differenza.
E la si respirava “a pelle”, nonostante che la Rivoluzione industriale,
nel corso dell’Ottocento, fosse giunta anche nella Mitteleuropa e la
Germania di fine secolo, anzi, fosse divenuta la prima potenza
industriale d’’Europa. A Berlino, a Vienna, a Francoforte, a Colonia, ma
soprattutto a Dresda, a Breslavia, a Königsberg, a Lemberg, a
Czernowitz – tanto più quanto ci si spostava da Ovest verso Est – la
vita sociale aveva ancora un sapore patriarcale, premoderno, e le
vecchie classi dirigenti: nobili, proprietari terrieri, militari, erano
ancora in cima alla piramide. Gli operai stavano relativamente bene, ma
non esercitavano una pressione politica decisiva; per quanto numerosi e
bene organizzati, costituivano un po’ come un mondo a parte. Il più forte partito marxista
d’Europa era il Partito socialdemocratico tedesco, eppure esso non era
in grado di far sentire il suo peso, attraverso il Parlamento, sul
governo; e il kaiser poteva permettersi di governare senza bisogno dei
loro voti e chiamarli “individui senza patria”. In fondo, nemmeno loro
volevano la distruzione dell’ordine esistente: erano dei riformisti, più
simili ai laburisti inglesi che ai socialisti francesi, italiani, belgi
o spagnoli. E l’esercito, soprattutto, godeva di un immenso prestigio:
quando le truppe sfilavano per le strade di un paese, nel corso delle
esercitazioni, c’era sempre una folla che li applaudiva, mentre si
spandevano le note della banda reggimentale; e quando Sua Maestà
l’imperatore passava in rassegna i reparti, a cavallo, con l’elmo
piumato in testa, circondato dai suo ufficiali e aiutanti di campo, le
sciabole scintillanti al sole, la scena ricordava quella di una corte
medievale più che l’Europa moderna delle fabbriche e dei partiti di
massa. Eppure la Germania era un Paese avanzato, in
tutti i sensi, con un ottimo sistema ferroviario, una classe
imprenditoriale senza uguali, un fortissimo dinamismo sociale, un
sistema scolastico e universitario e un livello culturale che erano
forse i migliori esistenti al mondo: il tutto, però, nel quadro dei
valori tradizionali, l’ordine, la famiglia, la religione e la devozione
al sovrano. Il principio di autorità non era
contestato, anche se, in Austria specialmente, dove muoveva i primi
passi la psicanalisi freudiana, cominciava a mostrare le prime crepe.
Ma ciò era niente in confronto al radicale mutamento dei costumi
avvenuto nell’Europa occidentale. A Londra, A Parigi, a Liverpool, a
Bruxelles, ad Amsterdam, a Lione, si respirava un’aria diversa da quella
delle città tedesche: più agitata, più nervosa, più “liberale”: i
giornali erano più aggressivi, i sindacalisti più intransigenti, gli
operai più frustrati e scontenti, gli scioperi più violenti, i piccoli borghesi più critici verso la tradizione,
la gioventù più irrequieta, e perfino il clero cattolico appariva più
bramoso di novità (e infatti si stava diffondendo il modernismo).
Quante
cose crediamo di sapere, e crediamo d’aver capito, e invece non
sappiamo un bel nulla, né abbiamo capito nulla. Questo è tipico della
mezza cultura che caratterizza le società democratiche dei nostri
giorni, dominate – e indottrinate - dal grande capitale finanziario!
Dunque,
confrontando le società degli Imperi Centrali con quelle dei Paesi
dell’Europa occidentale, si ha l’impressione che fossero diverse in
alcuni aspetti essenziali, ma niente affatto inferiori: nessuno poteva
onestamente accusare quei governi di disprezzare i propri sudditi o di
mostrarsi insensibili alle questioni relative alla classe lavoratrice. La vera differenza era piuttosto di tipo culturale e spirituale.
Il capofamiglia di Amburgo era ancora un’autorità rispettata da figli,
nuore e nipoti, e il parroco di un paesino dell’Alta Austria era ancora
un’autorità fra i suoi fedeli, così come i voleri di un proprietario
terriero ungherese erano legge per i suoi contadini, pur senza arrivare
alle forme di servitù della gleba che, di fatto, esistevano ancora in
ampie regioni della Russia. Di che cosa si potevano accusare gli Imperi
Centrali, allora, indicandoli come sistemi sociali meritevoli di
scomparire, come fece la propaganda dell’Intesa fra il 1914 e il 1918, e come poi fu attuato alla conferenza di Versailles del 1919? La
vera “colpa” della Germania e dell’Austria era quella di avere dei
governi che cercavano, nei limiti del possibile, d’impedire il prevalere
della finanza sull’economia, dell’usura sul lavoro, delle banche sulle
attività produttive. In altre parole, quei governi davano
fastidio alle mire dei Rotschild e degli altri grandi banchieri della
finanza internazionale, che già avevano steso i loro tentacoli su gran
parte del mondo occidentale. A Londra, a Parigi e a New York, dietro la
facciata della democrazia, cominciavano già a comandare i magnati della
grande finanza; a Berlino, a Vienna e a Budapest il lavoro, il risparmio
e le pensioni erano ancora in gran parte sotto il controllo dello
Stato, che ne difendeva gli interessi. Tuttavia, bisognava confezionare
un pretesto plausibile per rendere ”antipatici” gli Imperi Centrali agli
occhi dell’opinione pubblica mondiale: ed esso venne facilmente trovato
e sbandierato nel militarismo. Tedeschi e austriaci
sono militaristi, si disse; hanno nel sangue il culto della forza; se
vincessero loro, l’Europa sarebbe sottomessa ad un giogo di ferro. La stupidità di Guglielmo II,
che godeva a far tintinnare la sciabola ad ogni crisi diplomatica, i
suoi discorsi avventati, le sue pose da gradasso diedero un notevole
contributo a questa propaganda: gli alleati non avrebbero potuto
inventare una caricatura più riuscita di quel militarismo ottuso e
minaccioso che essi volevano rappresentare come una perpetua minaccia
alla pace e alla libertà del mondo intero. L’invasione del Belgio
nell’agosto 1914, e, più tardi, la guerra sottomarina indiscriminata,
fecero il resto: e bisogna riconoscere che nessun politico tedesco o
austriaco seppe mostrare un minimo di abilità nel presentare al mondo la
causa dei propri Paesi, anzi, che molti di essi collezionarono gaffes clamorose, o peggio: come si vide, ad esempio, in occasione dell’affaire
del telegramma Zimmermann del gennaio 1917, quando i tedeschi
goffamente sobillarono il Messico ad attaccare gli Stati Uniti per
distoglierli da un intervento in Europa.
Siamo certi che nel 1918 abbiano vinto i migliori?
E il mito del militarismo austro-tedesco era così forte da fare presa perfino su non pochi anarchici, come Kropotkin,
i quali, di fronte a un simile spauracchio, non esitarono a schierarsi a
favore della Francia, culla della democrazia, e a mettere in soffitta
tutte le loro idee sull’equivalenza dei vari capitalismi. Si videro
allora dei vecchi anarchici, come Amilcare Cipriani, che aveva sempre predicato la lotta contro ogni
governo borghese, invitare i giovani a combattere a fianco della
“nazione sorella” e repubblicana minacciata dai soldati con l’elmo a
chiodo. Se la propaganda alleata ebbe un tale successo perfino negli
ambienti dell’estrema sinistra, è facile immaginare quanto ne ebbe fra i
liberali. Eppure, anche sul piano militare, lo studio spassionato degli
eserciti tedesco e austriaco, specie durante la Prima guerra mondiale
(e quale momento più favorevole per studiare la vera essenza di un
esercito, che la guerra?) mostra che il militarismo di quei sistemi
sociali era tutt’altro che becero e ottuso. I soldati godevano di un
trattamento più umano e più intelligente di quello che veniva riservato
loro negli eserciti delle democrazie liberali, ed erano perfino
“risparmiati” nelle carneficine della guerra di posizione, più di quanto
non accadesse dall’altra parte delle trincee. Quando Cadorna, Nivelle o
Haig decidevano di lanciare un’offensiva, non si preoccupavano di
quante decine di migliaia di fanti sarebbero morti nel giro di poche
ore, per avanzare al massimo di un paio di chilometri; facevano un conto
puramente numerico, sulla partita doppia delle entrate e delle uscite:
calcolavano quanti soldati avevano ancora a disposizione, da gettare
nella fornace, e d’altro non si preoccupavano. Se poi qualche reparto
esitava o si rifiutava di attaccare, davano la parola ai tribunali
militari, i quali ricorrevano alla decimazione. Questa è la vera ragione
per cui i generali dell’Intesa si mostrarono complessivamente così
mediocri, nella guerra del 1914-18, e perché i loro avversari, al
confronto, appaiono nettamente superiori. I generali alleati usavano le
truppe come carne da cannone; i generali tedeschi e austriaci cercavano,
invece, di risparmiarle (certo, anche perché ne avevano di meno: con
una popolazione che era meno della metà di quella dei loro avversari,
258 milioni contro 118), escogitando una nuova maniera di affrontare il
problema dello stallo causato dal binomio mitragliatrice-filo spinato. Ed ecco perché Gorlice, ecco perché Gallipoli, ecco perché Caporetto:
i generali austro-tedeschi si sforzavano di far morire meno uomini
possibile per avvicinarsi al traguardo della vittoria. In altre parole,
la vita dei cittadini – in uniforme, in questo caso – aveva un maggior
valore, in Germania e in Austria, di quanto ne avesse in Inghilterra, in
Francia e in Italia: e questo la dice lunga su quale fosse la vera
natura del rapporto fra governanti e governati, e spiega perché gli
eserciti degli Imperi Centrali non conobbero mai, neanche nei momenti
più duri, le crisi morali e gli ammutinamenti che, nel 1917, portarono
l’Intesa ad un passo dalla disfatta.
Una trincea del prima conflitto mondiale
Ci sembrano acute e meritevoli di approfondimento le riflessioni che ha svolto su questo argomento il bravo Franco Bandini,
una delle penne più libere e indipendenti della nostra recente
saggistica storica, nella sintetica ma densa e brillante monografia Il Piave mormorava (Milano, Longanesi & C., 1965, pp. 74-76; 78):
Il
1917, l’anno terribile dell’Intesa, l’anno in cui la Russia conobbe la
rivoluzione e l’America entrò in guerra, segnò l’avvento di una crisi
morale gravissima presso tutti gli eserciti, esclusi quello tedesco e
quello austriaco. Dopo la sanguinosa moria di Verdun, le truppe francesi
traversavamo le città e i paesi, dirette al fronte, belando come
immense torme di pecore condotte al macello; nell’estate, ma lo si seppe
poi, “una sola” Divisione rimase fedele al Governo, tra il fronte e
Parigi: tutte le altre fecero sapere che si sarebbero limitate a
difendere le loro posizioni, ma che non avrebbero più attaccato. Gli
inglesi non si trovarono meglio: al momento dovuto alzarono i tacchi con
una velocità che neppure la loro tradizionale prudenza riusciva a
spiegare.
Da
noi vi fu un’analoga crisi morale, e per lungo tempo è stato sostenuto
che essa sia nata per un insieme di fatti che andavano dal famoso grido
del socialista Claudio Treves in Parlamento, il 12 luglio 1917: “il
prossimo inverno non più in trincea”, all’invocazione posteriore del
Pontefice per la cessazione “dell’inutile strage”. Dal disgusto che i
soldati provavano, durante le licenze, nell’imbattersi nei fenomeni di
sfacciato “pescecanismo” del Paese, sino alla sottile propaganda dei più
vari circoli, socialisti, ma anche cattolici, direttamente al fronte.
Ma nessuna di queste spiegazioni, che pure influirono e magari molto, è
sostanzialmente la vera: la causa profonda che agì su tutti gli Eserciti
quasi contemporaneamente fu che nessuno di essi aveva generali capaci
di dare alle proprie truppe la vittoria. Non quella finale, ma almeno la
sensazione del proprio ascendete sul nemico: e l’abitudine a vincere,
che è la grande medicina di ogni truppa. I generali inglesi,
francesi ed italiani, senza distinzione di nazionalità, furono
straordinariamente accomunati da un’identica incapacità a risolvere il
loro problema se non con una cocciuta applicazione della forza bruta.
Sfuggì loro costantemente che la guerra, pur tra i suoi grandi errori, è
fenomeno intellettuale di prima grandezza: e che il suo obiettivo non è
l’applicazione della forza o del materiale, ma il raggiungimento del
massimo risultato col minimo sforzo. Cosa che è possibile soltanto
quando si parte dal concetto che vittoria e sconfitta dipendono
unicamente da fattori psicologici: quando, per esempio, si attacca nel
punto DEBOLE del nemico, sostituendo la parola MANOVRA alla parola ATTRITO.
Alla fine, quando si considerano i propri soldati non come “carne da
cannone” ma come cittadini che adempiono al proprio dovere, ma col
diritto a un rispetto sostanziale della propria vita e dei propri
interessi.
Badoglio e Cadorna
L’esame
spassionato di quelle vicende dimostra che i tedeschi furono immuni da
qualsiasi crisi proprio perché sentirono, anche quando cadevano a
migliaia, di essere bene “spesi”. La vittoria finale mancò, ma non mancò mai la fiducia di conseguirla:
fiducia che non per un atto di fede, ma la naturale conseguenza delle
grandi vittorie che si erano sempre ottenute su tutti gli avversari.
All’opposto, l’Intesa, dopo le facili speranze dell’inizio, non poté
affidare ai propri soldati altro che il compito di resistere: e quello,
ben più ingrato, di attaccare, ma con la matematica sicurezza di
nient’atro che nuove ecatombi. Nessun esercito, di nessun Paese, avrebbe
resistito a condizioni psicologiche così negative, nelle quali il
sangue era chiamato a pagare non tanto grandi errori, quanto incapacità a
far giusto, a capire, a vincere. La crisi doveva venire e venne.
Del
resto, e questo è un punto che per solito viene trascurato nelle
analisi successive alle guerre mondiali, prima e seconda sta di fatto
che il gruppo tedesco, in esse, perde assai meno uomini, tra morti e
feriti, di quanto non accada agli altri, cosa che ha evidentemente un
diretto rapporto col morale delle truppe. Alla fine della prima guerra
mondiale, Italia, Francia, Inghilterra, Russia, Belgio, Romania, Serbia,
Montenegro, Grecia, Portogallo, Stati Uniti e Giappone allinearono
5.369.660 perdite. Germania, Austria, Bulgaria e Turchia non superarono i
3.371.000, poco più della metà. (…)
A
primavera del 1917, le energie dell’Intesa vengono galvanizzate dal
prossimo e sicuro intervento degli Stati Uniti in guerra. Lo “Zio Sam”,
si dice, potrà sbarcare con legioni di combattenti, cataste di armi,
rifornimenti tali da “oscurare il sole”. E quasi bastasse la sola
speranza per afferrare gli sfuggenti capelli della vittoria, tutti gli
Stati Maggiori si danno a progettare ambiziose offensive, imbastite
quasi al solo scopo di precedere l’arrivo delle Stelle e delle Strisce
sul continente europeo. Nessuno pare si renda conto che [se] le 523
divisioni delle quali dispone in quel momento l’Intesa, non riescono a
battere le 372 austro-tedesche (con annessi bulgari e turchi), una
ragione ci debba pur essere. Ignorandola nel modo più assoluto, il
generale Nivelle attacca il 16 aprile sull’Aisne e nella Champagne : gli
bastano pochi giorni per perdervi 120.000 uomini, ogni speranza di
“buttar fuori” i ‘boches’, e il suo altissimo incarico. Sostituito dal
più riflessivo Pétain, si adotterà una strategia assai più prudente:
carezzandosi i baffi, il futuro maresciallo della Repubblica di Vichy,
dirà monotonamente: “Io aspetto gli americani…”.
Ormai siamo abituati a mandar giù i cliché
della propaganda ideologica dei vincitori, da essere ormai del tutto
incapaci di obiettività ed equanimità verso i vinti: che si tratti dei
pellerossa del Nord America, distrutti dall’avanzata della “civiltà”, o
degli Imperi conservatori della Mitteleuropa!
Quante cose crediamo di sapere, e crediamo d’aver capito, e invece non sappiamo un bel nulla, né abbiamo capito nulla. Questo
è tipico della mezza cultura che caratterizza le società democratiche
dei nostri giorni, dominate – e indottrinate - dal grande capitale
finanziario. La democrazia deve continuamente incensare se
stessa, per far credere di essere il promontorio avanzato della civiltà
mondiale: per questo deve denigrare i sistemi politici del passato, in
questo caso le monarchie conservatrici dell’Europa del 1914. Nel 1919
tali monarchie vennero spazzate via: quattro imperi scomparvero dalla
carta geografica – tedesco, austriaco, russo e ottomano - e al loro
posto sorsero, o si ampliarono, dei piccoli Stati litigiosi e tenuti
artificialmente in vita dalle democrazie occidentali e soprattutto dal
loro capitale finanziario (o sarebbe più giusto dire metodicamente sfruttate da esso?). E siamo così abituati a mandar giù i cliché
della propaganda ideologica dei vincitori, da essere ormai del tutto
incapaci di obiettività ed equanimità verso i vinti: che si tratti dei
pellerossa del Nord America, distrutti dall’avanzata della “civiltà”, o
degli Imperi conservatori della Mitteleuropa, distrutti dall’avanzata
della democrazia: ma in entrambi i casi, a ben guardare il regista della
sporca operazione fu sempre lo stesso, il sistema dell’usura mondiale
organizzato nelle banche di Londra, Parigi e New York. E quello stesso
sistema, di cui siamo parte e che ci sta sfruttando e spremendo senza
pietà, ci sta manipolando, ci sta avviando all’estinzione, non ha ancora
finito di provocare guerre: Iran, Cina e Russia sono sulla sua prossima
agenda e per la stessa ragione per cui lo furono i Pellerossa nel 1870 e
gli Imperi Centrali nel 1914: perché sono incompatibili col sistema
dell’usura.
Del 19 Settembre 2019
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