Perché non c’è nulla di etico nella vita di
un vegano
DI Matteo Lenardon 18 Settembre 2017
Siamo quasi nel 2020. Secondo tutti i film
prodotti quando l’umanità pensava di poter curare gli omosessuali con gli
schiaffi viviamo in un futuro da fantascienza. Certo, non abbiamo macchine
volanti, non viviamo in un’era post-razziale o nelle colonie su Marte, però
abbiamo l’etica. E una bussola morale formata dalle gif di Beyoncé che ci
spiegano come navigarla. Etica, infatti, è la parola del futuro. E quindi del
nostro presente. Il lavoro è etico. La musica è etica. Lo sono le tasse. Anche
le banche, ormai, sono etiche. “Etica” è diventata la parola con cui definire
noi stessi e chi ci circonda. Dividiamo le persone in buone o cattive a seconda
di quanto rispecchiano la nostra idea di “etica”. Ma cosa si intende
esattamente con “etica”? Tutti i più grandi pensatori della storia hanno
scritto e dibattuto sul suo significato. Da Aristotele a Socrate, fino a
Confucio. Da Tommaso D’Aquino a Kant, fino a Giulia Innocenzi. Nessuno, prima
di lei, aveva però mai trovato una definizione precisa e sintetica di “etica”.
Etica, sostiene la collaboratrice di
Santoro nel suo libro “Tritacarne”, significa non uccidere gli animali. Sarebbe
intellettualmente disonesto, però, attribuire quest’idea esclusivamente alla
giornalista de Il Fatto Quotidiano; una riflessione così complessa richiede
un’estensione computazionale non ascrivibile singolarmente a Giulia Innocenzi.
Per arrivare a questa epifania intellettuale sono stati necessari milioni di
vegani nel mondo. I vegani sono infatti ossessionati dalla parola “etica”. È quella
a cui ricorrono quando viene chiesto loro che cosa li abbia spinti a cambiare
dieta. È come definiscono loro stessi. Persone con etica. Hanno pure creato il
“Parma Etica Festival”, una rassegna in cui si celebrano culture, tradizioni e
usanze alimentari allogene con il nobile scopo d’aiutare le persone a
dimenticare di vivere a Parma. Tre giorni di talk, workshop e seminari
sull’etica vegan e vegetariana. E sulla “psicogenealogia transgenerazionale”,
una branca della psicologia che unisce le esperienze traumatiche dei tuoi avi
del Rinascimento con le difficoltà di ricezione di Lifegate. Ospite speciale
del festival? Giulia Innocenzi. Altro esempio di questa ossessione si può
trovare nel ricettario-bibbia della comunità vegana italiana dal titolo “La cucina
etica”. Scopo dei suoi tre autori è quello di proporre ricette “etiche,
salutiste, ecologiche, spirituali, legate allo sviluppo sostenibile”. Uno dei
primi capitoli è dedicato alla quinoa. La quinoa è considerata uno degli
alimenti più nutrienti in natura ed è utilizzata di frequente nelle diete
vegane per l’alta concentrazione di proteine che contiene; viene coltivata nei
due Paesi più poveri del Sud America – Perù e Bolivia – e da quando è stata
scoperta nelle “diete etiche” ha completamente stravolto l’esistenza degli
abitanti di entrambi i Paesi. Dal 2006 al 2011 il prezzo della quinoa è
triplicato, fino a raggiungere i 3mila euro la tonnellata, ma alcune varietà
più pregiate – rossa real e nera – possono superare i 4mila e gli 8mila euro.
Cibo vegano etico the vision Per questo
motivo in Bolivia, un Paese in cui il 45% della popolazione vive con meno di 2
dollari al giorno, gli agricoltori hanno cambiato la loro dieta, immutata per
oltre 5mila anni. La quinoa, ormai troppo preziosa per essere consumata
localmente, viene quasi interamente venduta o scambiata per Coca-Cola, dolciumi
industriali e altri prodotti della dieta occidentale. La situazione è così
grave da aver creato un inedito banditismo locale, che lotta a colpi di
rapimenti e di candelotti di dinamite per la conquista di terreni coltivabili a
quinoa. La diversità biologica delle coltivazioni è stata inoltre quasi
completamente distrutta per essere convertita in una monocoltura di questa
pianta. Per gli agricoltori non avrebbe senso fare diversamente. In Perù, dove
il 22% della popolazione vive in povertà, la situazione non è migliore. Un
chilo di quinoa costa dieci soles, circa 2,70 euro: più del pollo e quattro
volte il riso. Secondo le statistiche governative il consumo è crollato a livello
nazionale per questo motivo. Una notizia preoccupante, visto che proprio per le
eccezionali proprietà nutritive la quinoa risultava fondamentale per sostenere
la popolazione nelle zone più povere del Paese, colpite da un livello di
malnutrizione infantile fra i più alti in Sud America. Secondo l’UNICEF il
19.5% dei bambini peruviani soffre oggi di malnutrizione cronica. Il paradosso
è evidente: mentre nei Paesi d’origine è diventato più conveniente mangiare
l’hamburger di una multinazionale, i ricchi europei e americani possono
consumare l’etico, salutista e sostenibile burger vegano di quinoa.
Magari con una maionese di anacardi, altro
alimento necessario per mantenersi etici e che nei piatti vegani risulta
fondamentale per simulare ricette realizzabili tradizionalmente solo attraverso
il latte animale, come la besciamella, i “formaggi” da spalmare, il ripieno
della cheesecake, i gelati e le mousse. Ma da dove arrivano gli anacardi che
finiscono nei dolci cruelty free? Per il 40% dal Vietnam, Paese che ha deciso
di adottare per la loro raccolta una filiera produttiva che ricorda le
dittature più tiranniche della storia, tipo la Corea del Nord di Kim Jong Un,
la Romania di Ceaușescu o la Apple di Steve Jobs. Secondo un dettagliato
reportage di Human Rights Watch, gli anacardi vietnamiti provengono infatti
quasi totalmente dal lavoro forzato nei centri di recupero per
tossicodipendenti condannati. Moltissimi detenuti arrivano in questi centri
senza essere stati difesi da un avvocato e senza un regolare processo e sono
costretti a lavorare otto ore al giorno, sei giorni alla settimana, a un ritmo
di estrazione di un anacardo ogni sei secondi. Chi non rispetta questi standard
subisce svariate punizioni corporali: viene picchiato con bastoni chiodati,
rinchiuso in celle d’isolamento, costretto al digiuno e privato dell’acqua. In
molti casi torturato con l’elettroshock. Per questo motivo Human Rights Watch
li ha definiti “anacardi insanguinati”, come i diamanti africani.
La filiera però non termina in Vietnam: il
60% degli anacardi viene processato nel Sud dell’India, nelle zone più povere
del Paese. Il guscio, spesso e resistente, viene spaccato a mano da donne che
lavorano sedute nella stessa posizione per dieci ore al giorno. Ma non è la
fatica il vero problema. Gli anacardi sono protetti da due gusci interni che
rilasciano un olio caustico formato da acidi anacardici, cardolo e
metilcardolo: queste sostanze bruciano in modo profondo e permanente la pelle
delle lavoratrici che non possono permettersi dei guanti di protezione. Per la
loro mansione vengono infatti pagate appena 2,20 euro al giorno. In India gli
anacardi sono considerati un lusso da consumare solo durante le feste più
importanti. Così, alla fine dei turni, le operaie vengono anche perquisite,
come le donne in reggiseno e slip che tagliavano la cocaina per Pablo Escobar.
Ma è facile dimenticare tutto questo quando ogni nervo nella tua lingua vibra
dopo aver assaporato questa cheesecake vegana crudista con fragole, mandorle e
anacardi. Riesce a farti pensare nello stesso momento “non riesco a credere che
la dolce cremosità non sia data da Philadelphia” e “fanculo le donne nel terzo
mondo”. È utile parlare anche della base di questo dolce, capace di innalzare
lo spirito di chiunque da “crudo” a “etico”: è fatta di mandorle, l’ennesimo
alimento esploso in popolarità – con un prezzo triplicato in 5 anni –, grazie
al suo apporto naturale di calcio, essenziale nella dieta vegana. Da questi
frutti si ricava un latte utilizzato per realizzare mozzarella, ricotta e molti
altri tipi di formaggi e creme. La richiesta è aumentata a tal punto da
costringerci a importarle quasi totalmente dall’estero, nonostante le nostre millenarie
tradizioni legate al loro consumo. Principalmente dalla California,
responsabile dell’82% della produzione mondiale. Un quasi-monopolio in crescita
costante, che ha messo lo stato americano in ginocchio per il prosciugamento
delle riserve idriche. Per produrre una singola mandorla sono necessari infatti
oltre 4 litri d’acqua – e la California ne produce ogni anno più di 950mila
tonnellate. Le ripercussioni della siccità sulla fauna sono devastanti: sono
morti oltre 4mila cervi in un anno; alci, linci, volpi, coyote e orsi sono
talmente assetati da spingersi con sempre maggiore frequenza nelle zone abitate
dall’uomo. Diverse tribù di Nativi Americani stanno cercando di salvare il
salmone Chinook, un pesce fondamentale per la loro storia e cultura: peccato
che l’acqua che potrebbe evitarne l’estinzione venga deviata per centinaia di
km per essere usata nei frutteti di mandorle.
Ma a contribuire all’aridità dei terreni
non sono solo le mandorle. L’altro grande responsabile è forse l’alimento più
rappresentativo della moderna narrativa del cibo, passato da nutrimento a
status symbol politico per food stylist: l’avocado. Per produrre mezzo kg di
avocado vengono mediamente impiegati 270 litri d’acqua. Il risultato sono i
quattro anni consecutivi in cui la California registra la peggior siccità della
storia. Brindiamo con questo avocado alle mandorle offerto da “La cucina
etica”!
Certo, c’è chi se la passa peggio. Il
vicino Messico in meno di 10 anni ha decuplicato gli export di avocado –
conosciuto ormai da quelle parti come “oro verde”– diventandone il primo
produttore al mondo. L’offerta, però, non riesce a soddisfare la domanda. I
prezzi in continua salita stanno portando a una deforestazione che tocca i 700
ettari all’anno; in dieci anni, per lasciare spazio ai frutteti di avocado, è
svanita un’area di foresta grande quattro volte la Lombardia. Come per la
California, questa perdita sta trasformando radicalmente la vita di flora e
fauna. Milioni di farfalle monarca scelgono per la riproduzione e lo svernamento
proprio le aree in deforestazione del Michoacan, la capitale mondiale
dell’avocado: senza vegetazione il loro destino è l’estinzione. L’enorme
quantità di pesticidi e fertilizzanti necessari per la coltivazione degli
avocado stanno inoltre avvelenando le riserve acquifere da cui si abbeverano
animali e popolazione locale. Il controllo di questo enorme business è in mano
al cartello dei “Cavalieri Templari”, l’organizzazione criminale responsabile
della distribuzione di crystal meth negli Stati Uniti, che ha scoperto un
inedito pollice verde da quando i ricavi della vendita di avocado sono passati
dai 90milioni di dollari del 2000 agli 1.3 miliardi del 2012.
Le tattiche sono le stesse usate da tutti i
mafiosi del mondo. Chi non paga il pizzo si trova i frutteti bruciati. Chi
prosegue nel non assecondare i taglieggiatori va incontro alla morte o a quella
dei propri cari. Molteplici i casi di stupro. Un giornalista di Vocativ
racconta la storia del rapimento di due figli di un agricoltore. Per il riscatto
da 1.5 milioni di dollari ha venduto tutto ciò che possedeva. I figli non li ha
mai più rivisti.
Per questo motivo si parla di “avocado
insanguinati”. Come i diamanti. Come gli anacardi. Ma persino gli avocado non
sono nulla in confronto al più grande distruttore di foreste del mondo: la
soia. Per questo legume ogni anno viene raso al suolo il 3% della foresta
pluviale Argentina, situata nella provincia di Cordoba. Otto milioni di ettari
– un’area grande quanto il Portogallo. In Brasile, dal 1978 a oggi, sono
sparite invece Italia e Germania.
foresta3
Ma a chi importa, no? Del resto la foresta
pluviale serve solo a produrre il 28% dell’ossigeno che respiriamo e a
stabilizzare il surriscaldamento globale attraverso l’assorbimento di anidride
carbonica. Certo, uccidere miliardi di persone facendo innalzare il livello
degli oceani a causa dello scioglimento dei ghiacciai è un equo sacrificio
rispetto alla vita di una quaglia del Molise, peccato che la foresta contenga
anche il 40% delle specie animali viventi.
Questo però non intacca lo status della
soia come alimento principe della dieta vegana – il sito de “La cucina etica”
contiene 952 ricette basate su questo ingrediente. Secondo una ricerca
dell’università di Oxford, il 73% dei vegani consumerebbe ogni giorno almeno 11
grammi di proteine provenienti dalla soia, ricca inoltre di fibre e minerali
che altrimenti verrebbero a mancare nell’organismo di una persona che non
mangia carne. Ora so cosa staranno pensando i vegani. “La maggior parte della
soia viene coltivata come mangime animale, non per l’uomo!”. È vero, il 70%
della produzione mondiale di questo legume è destinata agli allevamenti di
bestiame, ma la nota lobby dell’industria della carne, conosciuta anche come
WWF, ha commissionato nel 2009 una ricerca alla Cranfield University che
riflette proprio su questo dettaglio. Lo scopo dello studio è immaginare
scenari che potrebbero ridurre del 70% l’emissione di gas serra. I ricercatori
giungono a questa conclusione: “sostituire latte e carne con analoghi alimenti
raffinati come il tofu potrebbe aumentare la quantità di terreno arato
necessario per soddisfare il fabbisogno alimentare”.
Infine, se la propaganda “etica”
funzionasse veramente e smettessimo tutti di consumare prodotti animali, la
deforestazione e il surriscaldamento terreste aumenterebbero. Questo perché una
vasta quantità di alimenti consumati dai vegani richiede una lunga filiera di
lavorazione, dalla coltivazione a migliaia di km ai numerosi processi necessari
per trasformare la soia nell’unico alimento più insapore del pollo: il tofu.
Provate a cercare un ristorante vegano interamente a km.0 nella vostra città.
Non esiste. Il massimo che potete trovare è un ristorante possibilmente a km.0.
La verità, come ipotizza la ricerca del WWF, è che una cucina vegana
equilibrata non è sostenibile per l’ambiente. Certo, esiste chi si ciba solo di
frutti autoctoni, ma i rischi cui si va incontro sono una carenza di calcio,
una pericolosa mancanza di acidi grassi essenziali e una predisposizione ad
ascoltare Enya. Perché, quindi, la giunta Appendino, dopo essersi insediata, ha
parlato di “promozione della dieta vegana sul territorio comunale come atto
fondamentale per salvaguardare l’ambiente, la salute e gli animali”? Perché
l’unica critica rivolta ai vegani è quella di essere vegani. Basti pensare che
negli ultimi anni hanno avuto come principale antagonista intellettuale
Giuseppe Cruciani, il conduttore di uno Zoo di 105 per uomini che scrivono
“Liceo Classico” nella bio di Tinder. Ma non c’è nulla di sbagliato nell’essere
vegani, è una scelta personale, come tante altre. Il problema nasce quando si
passa da una scelta di vita a una presunta scelta etica, motivata dal voler
salvare l’ambiente o gli animali. Questo significa mettersi in una posizione di
superiorità morale che semplicemente non trova corrispondenza nei fatti. È solo
un voler apparire ecologisti. Il movimento vegano usa la parola “specista” per
apostrofare chi secondo gli adepti non mette vita animale e umana sul medesimo
piano di importanza. Quale parola dovremmo usare per identificare chi sceglie
di dare priorità alla propria coscienza piuttosto che alla vita, alla salute e
alla serenità di altri esseri umani? Soprattutto quando parliamo di persone che
vivono nei Paesi in via di sviluppo, mentre la coscienza risiede in un corpo
con un taglio asimmetrico che vive tra Berlino, Milano o Londra. Nessuno lo può
sapere. L’unica cosa che possiamo fare, la prossima volta che ci troveremo a
mangiare in una hamburgheria artigianale con un amico vegano, è aiutare chi ci
sta di fronte a scegliere. Fra il burger di quinoa con guacamole e mayo di
mandorle e l’unica scelta etica possibile: il digiuno.