Benvenuti nel Blog di Claudio Martinotti Doria, blogger dal 1996


"Non nobis Domine, non nobis, sed nomini Tuo da gloriam", motto dell'Ordine dei Cavalieri Templari, Pauperes commilitones Christi templique Salomonis

"Ciò che insegui ti sfugge, ciò cui sfuggi ti insegue" (aneddotica orientale, paragonabile alla nostra "chi ha pane non ha denti e chi ha denti non ha pane")

"Quello che mi ha sorpreso di più negli uomini dell'Occidente è che perdono la salute per fare soldi. E poi perdono i soldi per recuperare la salute. Pensano tanto al futuro che dimenticano di vivere il presente in tale maniera che non riescono a vivere nè il presente nè il futuro. Sono come se non dovessero morire mai e muoiono come se non avessero mai vissuto."
(Dalai Lama)

"A l'è mei mangè pan e siuli, putòst che vendsi a quaicadun" (Primo Doria, detto "il Principe")

"Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono. Poi vinci." Mahatma Gandhi

L'Italia non è una nazione ma un continente in miniatura con una straordinaria biodiversità e pluralità antropologica (Claudio Martinotti Doria)

Il proprio punto di vista, spesso è una visuale parziale e sfocata di un pertugio che da su un vicolo dove girano una fiction ... Molti credono sia la realtà ed i più motivati si mettono pure ad insegnare qualche tecnica per meglio osservare dal pertugio (Claudio Martinotti Doria)

Lo scopo primario della vita è semplicemente di sperimentare l'amore in tutte le sue molteplici modalità di manifestazione e di evolverci spiritualmente come individui e collettivamente (È “l'Amor che move il sole e le altre stelle”, scriveva Dante Alighieri, "un'unica Forza unisce infiniti mondi e li rende vivi", scriveva Giordano Bruno. )

La leadership politica occidentale è talmente poco dotata intellettualmente, culturalmente e spiritualmente, priva di qualsiasi perspicacia e lungimiranza, che finirà per portarci alla rovina, ponendo fine alla nostra civiltà. Claudio Martinotti Doria

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Patriă Montisferrati

Patriă Montisferrati
Cliccando sullo stemma del Monferrato potrete seguire su Casale News la rubrica di Storia Locale "Patriă Montisferrati", curata da Claudio Martinotti Doria in collaborazione con Manfredi Lanza, discendente aleramico del marchesi del Vasto - Busca - Lancia, principi di Trabia

Come valorizzare il Monferrato Storico

La Storia, così come il territorio e le sue genti che l’hanno vissuta e ne sono spesso ignoti ed anonimi protagonisti, meritano il massimo rispetto, occorre pertanto accostarsi ad essa con umiltà e desiderio di apprendere e servire. In questo caso si tratta di servire il Monferrato, come priorità rispetto a qualsiasi altra istanza (personale o di campanile), riconoscendo il valore di chi ci ha preceduti e di coloro che hanno contribuito a valorizzarlo, coinvolgendo senza preclusioni tutte le comunità insediate sul territorio del Monferrato Storico, affinché ognuna faccia la sua parte con una visione d’insieme ed un’unica coesa identità storico-culturale condivisa. Se ci si limita a piccole porzioni del Monferrato, per quanto significative, si è perdenti e dispersivi in partenza.

Sarà un percorso lungo e lento ma è l’unico percorribile se si vuole agire veramente per favorire il Monferrato Storico e proporlo con successo come un’unica entità territoriale turistico culturale ed economica …

Al governo USA, sia quello ufficiale che quello occulto o profondo, non piace il megaprogetto cinese della Via della Seta ....

Al governo USA, sia quello ufficiale che quello occulto o profondo, non piace il megaprogetto cinese della Via della Seta, perché promuove il commercio e la pace e riduce implicitamente l'egemonia industriale militare e soprattutto monetaria americana, ne accelera il declino di superpotenza, spostando in Asia la supremazia, soprattutto in termini progettuali, finanziari, di investimenti e di intraprendenza politica e imprenditoriale. Temo che possano reagire in maniera funesta per l'umanità a loro non asservita.
Claudio Martinotti Doria

Fonte: Desh Gold


Il commercio è un gioco win-win, [in cui tutti vincono] eppure più volte nella storia umana si è preferito optare per una svolta protezionista, mettendolo da parte.
La One Belt One Road Initiative è un progetto che vuole contrastare le tendenze protezioniste e deflazionarie dell’attuale ambiente economico, ma, in particolare per chi è digiuno di informazioni a riguardo, è difficile coglierne il carattere rivoluzionario.
In questo articolo, cercheremo di approfondire i fini di un ambizioso progetto con radici in millenarie.
La più grande scoperta dell’umanità, a livello economico, è di certo il commercio.
Lo scambio di merci di diversa natura, è difatti l’unico elemento contemplato dalla teoria economica incapace di deludere le attese.
Esso, infatti, permette, attraverso lo scambio di beni, la soddisfazione di bisogni specifici che altrimenti, a causa della loro carenza, rimarrebbero insoddisfatti.
Questo, in breve, permette non solo il miglioramento delle condizioni di vita dei soggetti coinvolti ma dà origine a nuovi bisogni, nuovi stimoli e perciò all’evoluzione della società.
Con l’elezione di Trump, alla già pressante deflazione che minaccia le strettamente interconnesse economie di mezzo mondo, si è affacciata una nuova minaccia per il commercio internazionale: il protezionismo.
Storicamente, scelte protezioniste non hanno mai portato a nulla di buono in quanto comportano il prediligere la solitudine e l’egocentrismo alla cooperazione.
In termini economici, significa preferire l’industria nazionale agli accordi commerciali ed ai trattati internazionali.
Per invertire la rotta e riavvicinarsi ad un mondo aperto al commercio ed in grado di guadagnare investendo sul proprio futuro anziché sulla sua distruzione, la Cina, nel lontano 2013, ha proposto l’attuazione del progetto One Belt One Road: un mastodontico piano economico equiparabile per dimensioni a ben 12 volte il famoso Piano Marshall attuato nel dopoguerra.

Le origini della Via della Seta

La Cina, nell’antichità, si è spesso rivelata una fucina di popoli dai livelli di civilizzazione sorprendenti, i cui traguardi in campo scientifico, manifatturiero o militare risultarono spesso più prestigiosi di quelli europei: dall’Oriente proveniva la carta utilizzata a Roma, la polvere da sparo impiegata dai Mamelucchi, svariate spezie acquistabili a Venezia ed una fra le merci più preziose: la seta.
Da quest’ultima venne in seguito coniato il nome del tragitto percorso da mercanti europei e medio orientali, per giungere nella terra del Dragone fin dal medioevo.
La Via, però, era già attiva da circa 1500 anni in quanto di commerci tra Europa continentale ed Estremo Oriente, se ne ha notizia fin dalla Dinastia Han (200 a.C.-220 d.C.), contemporanea dell’ultima fase della Repubblica Romana (146 a.C.- 31 a.C.)  e dell’Alto Impero Romano (31 a.C.-284 d.C.)
Di una sua progenitrice, la Via Reale di Persia, sia ha notizia dal 400 a.C. quando, nella figura di  Alessandro Magno, Mediterraneo ed Indie si incontrarono per la prima volta.
Alla luce di ciò, i viaggi di Marco Polo narrati ne “il Milione” risultano non spedizioni di scoperta, – come furono quelli di Colombo nelle Americhe – ma delle ambasciate che aiutarono i già millenari legami fra i due continenti a riallacciarsi.
In ogni sua versione, dalle più primitive a quelle medioevali, la Via della Seta non ricoprì solo un ruolo puramente economico, ma anche culturale: arte, idee, usi e costumi percorsero in entrambi i sensi il reticolo di quasi 8000 chilometri che garantì, quando percorso, periodi di pace e ricchezza.

La Nuova Via della Seta

Solo un anno fa, eravamo arrivati sul punto di soccombere ai trattati Trans-Pacifico (TTP) e Trans-Atlantico (TTIP) stilati da mano statunitense. Trattati sul libero scambio altamente iniqui che, nonostante le pressioni dall’alto, le istituzioni fondamentali dell’Unione sono riuscite (stranamente) a disinnescare.
La caratteristica fondamentale di TTP e TTIP era quella di essere talassocentrici cioè avevano il proprio baricentro non sulla terra ferma ma negli oceani Pacifico ed Atlantico. Secondo i redattori dei trattati le vie marittime si prestavano ad essere ideali vie di trasporto a basso costo e che la maggior parte del globo la pensasse allo stesso modo.
In verità, un’impostazione del genere sarebbe stata schifosamente vantaggiosa per chi avesse potuto minacciare di vietare l’accesso a queste vie di comunicazione a marine mercantili o militari: ostruendo il passaggio a Suez come a Panama, a Gibilterra come ad Ushuaia, nel corno d’Africa come nel Mar Cinese Meridionale, al primo sentore di antipatia per qualche nazione, la mano del più forte sarebbe sempre stata pronta a staccare la spina al motore del commercio internazionale.
Ovviamente, l’unica marina militare capace di dominare i sette mari in lungo ed in largo è, ad oggi, quella statunitense ed i benefici della più che originale interpretazione del “libero scambio” contenuta in quei trattati, sarebbero stati tutti avidamente goduti dal solo Zio Sam.
La One Belt One Road consiste invece, come vuole la sua millenaria tradizione, in un progetto geo-centrico.
Esso non è neppure condizionato da un baricentro contenuto in una nazione o in un gruppo di nazioni.
Il punto di forza del progetto è il varcare i confini dei Paesi interessati sfruttando molteplici vie di comunicazione sia terrestri che marittime, affinché tutti abbiano interesse a garantire alle merci il transito più efficiente possibile.
L’OBOR, infatti, si diramerà in due progetti paralleli: la Via della Seta marittima e quella terrestre.
Ecco i percorsi che, secondo il Wall Street Journal, seguirà la Via della Seta una volta completata.
La prima servirà a collegare i porti affacciati nel Mar Cinese meridionale al Mediterraneo attraverso Suez giungendo fino a Venezia o Trieste, la seconda si scorporerà in sei diversi corridoi che dalla Cina giungeranno in India, Russia, Pakistan, Turchia, Iran e sud-est asiatico.
Qualcuno, come è probabile, affermerà che dalle fauci di una belva (USA) saltiamo in quelle di un’altra (Cina) e che il rischio di volatilità dei cambi ed i problemi linguistici, burocratici e di intermediazione nei commerci siano insormontabili.
Come scritto in precedenti articoli, questi sono tutti punti di un elenco che sono già stati affrontati e sono ad oggi in via di risoluzione.
La Cina è un paese esportatore netto che ha tutte le ragioni per voler salvaguardare il libero commercio. Non solo, è anche primo importatore di petrolio ed idrocarburi, tanto che lo rende un attore ricattabile e senza incentivi particolari nel cercare rapporti conflittuali coi suoi fornitori, tutti tra l’altro molto distanti dai suoi confini.
La volatilità dei cambi e l’accentramento del potere monetario verranno superati dall’adozione di una qualche forma avanzata di Gold Standard (preceduto dal Petro-Yuan), quelli burocratici da una convergenza delle legislazioni, quelli linguistici da una convivenza di idiomi ufficiali nel campo del business come fu per il Latino, il Greco antico o il Persiano, i problemi di intermediazione dall’adozione più che probabile di una forma più evoluta della blockchain odierna.
La One Belt One Road è più che un progetto infrastrutturale: è una titanica impresa burocratica,  monetaria, tecnologica e sociale che coinvolge nel suo stato embrionale già sessanta nazioni fra avanzate ed in via di sviluppo e che fa impallidire ogni tipo di accordo militare o economico che gli USA hanno sbandierato fino ad oggi.
E non stiamo parlando di fantascienza: dal polo di Mortara, Pavia, il primo treno merci europeo è già partito alla volta della Cina. Con l’obiettivo di consegnare le sue merci con ben 40 giorni d’anticipo rispetto ad una nave mercantile.
Come da copione, ci sono e ci saranno frizioni fra i vari partecipanti, come appena accaduto con Pakistan e Nepal, ma non si può resistere a lungo alla possente ondata del cambiamento.
Quel che la Storia ci insegna è che se la ricchezza la si crea e si dà a tutti l’opportunità di attingerne, motivi che alimentino odio razziale, radicalizzazione o il farsi la guerra, si fa davvero fatica a trovarne.

Il sistema agroindustriale statunitense sta distruggendo l'ambiente e minando la salute degli agricoltori e consumatori



Di William Engdahl*

Per gran parte del secolo scorso, la cultura pop occidentale ha sistematicamente denigrato e sminuito quella che dovrebbe essere la professione più onorevole di tutte. Chi lavora la terra giorno dopo giorno per produrre il cibo che mangiamo ha troppo spesso assunto lo stesso stato sociale della terra che dissoda. Nessuno si pone una semplice domanda: cosa faremo una volta che avremo fatto fuori tutti gli agricoltori? Alcuni ingenui cittadini diranno: “Ma abbiamo la produzione industrializzata; ormai non c’è più bisogno di lavoro agricolo manuale.”
E i numeri sono davvero notevoli. Prendiamo gli Stati Uniti. Nel 1950 la popolazione totale era di 151.132.000 persone, di cui 25.058.000 agricoltori: poco più del 12% della forza lavoro totale. C’erano 5.388.000 aziende agricole con una dimensione media di 87 ettari. Quarant’anni dopo, nel 1990, gli USA avevano una popolazione di 261.423.000, di cui meno di 3 milioni agricoltori: appena il 2,6% della forza lavoro. Il numero delle aziende si era ridotto a 2.143.150, ovvero una perdita del 60%, ma la dimensione media era diventata di 187 ettari.

La rivoluzione agricola dei Rockefeller
A chi fra noi si rapporta con la carne, i latticini e gli ortaggi solo al supermercato, viene detto che questo è un grande successo: la liberazione di quasi 23 milioni di lavoratori agricoli verso impieghi urbani e una vita migliore.
Ma non ci vengono raccontati i veri effetti sulla qualità del cibo, prodotti dalla meccanizzazione e dall’industrializzazione dell’agricoltura in America da quando la Harvard Business School, grazie a donazioni della Fondazione Rockefeller, dette inizio al cosiddetto agrobusiness: la conversione dell’agricoltura in un business a puro fine di lucro e verticalmente integrato, sul modello del cartello petrolifero Rockefeller.
Dopo gli anni ’50, negli USA l’allevamento di maiali, vacche, bovini e pollame diventò gradualmente industrializzato. I pulcini vennero confinati in spazi così minuscoli che potevano appena stare in piedi. Per farli crescere più in fretta vennero riempiti di antibiotici e nutriti di mais e soia OGM. Secondo il Consiglio per la Difesa delle Risorse Naturali, l’80% degli antibiotici venduti negli Stati Uniti viene usato negli allevamenti animali, non dagli esseri umani. Gli antibiotici vengono somministrati agli animali mescolati al cibo o all’acqua, per accelerare la crescita. Dopotutto, il tempo è denaro.
Gli agricoltori tradizionali, com’era stato mio nonno in Nord Dakota, vennero in gran parte fatti lasciare la terra dalle politiche del ministero per l’agricoltura, che hanno favorito l’industrializzazione senza curarsi della qualità del cibo risultante. I trattori diventarono macchine mastodontiche computerizzate, guidate dal GPS. Un trattore così poteva essere telecomandato e fare il lavoro di molti agricoltori.
Il risultato finanziario è stato favoloso… per gli industriali come ADM, Cargill, Monsanto e per i venditori come Kraft, Kelloggs, Nestle, Unilever, Toepfer e Maggi. Il modello americano di agrobusiness Rockefeller-Harvard venne globalizzato a partire dai negoziati del GATT tenutesi in Uruguay a fine anni ’80 per la liberalizzazione del commercio, nei quali l’Unione Europea abbandonò la tradizionale protezione degli agricoltori locali per favorire il libero commercio.
Mentre i negoziati del GATT stavano per dare ai giganti statunitensi dell’agrobusiness quello che volevano (ovvero la libertà di violentare l’UE e altri mercati agricoli con i loro prodotti industriali, e di distruggere milioni di agricoltori europei che avevano coltivato la terra con passione per generazioni) mi recai a Bruxelles per intervistare da giornalista un burocrate UE di alto livello, responsabile per l’agricoltura. Sembrava ben istruito, era multilingue, danese di nascita. Ebbene, questi argomentò in difesa del libero commercio, dichiarando: “Perché dovrei pagare tasse in Danimarca per permettere agli agricoltori bavaresi di restare sul mercato con i loro appezzamenti minuscoli?”
La risposta, che allora tenni per me, è: semplicemente perché l’agricoltore familiare tradizionale è il solo adatto a fare da intermediario tra noi e la natura e a produrre cibo sano per gli uomini e gli animali. Nessuna macchina può sostituire la devozione e passione personale che ho visto ogni volta in tutti gli agricoltori che ho incontrato, i quali davvero si prendono cura del loro bestiame e raccolto.
Ora la stessa gente molto ricca e molto arida, quelli che io chiamo gli “oligarchi americani”, sta sistematicamente facendo tutto il possibile per distruggere la qualità del cibo. Chiaramente, secondo me, lo sta facendo con l’obiettivo di ridurre la popolazione. Non c’è altra ragione per cui la Fondazione Rockefeller spenderebbe centinaia di milioni di dollari (esentasse) per sviluppare tecniche OGM e supportare Monsanto e altri giganti della chimica come DuPont, ben sapendo di avvelenare lentamente la popolazione verso una morte prematura.
Pesticidi e depressione
Questo è stato dimostrato in test indipendenti sugli effetti tossici sugli animali e perfino sulle cellule umane di un embrione. Ora, indipendentemente dagli OGM, nuovi test dimostrano che i pesticidi chimici spruzzati sui raccolti provocano danni neurologici come depressione, Parkinson e perfino suicidio sugli agricoltori che li spargono. L’Istituto Nazionale Statunitense di Scienze della Salute Ambientale ha condotto un importante studio su 89.000 agricoltori e altri applicatori di pesticidi in Iowa e Nord Carolina. Il gigantesco studio ha concluso che “l’uso di due classi di pesticidi, (fumiganti e insetticidi organoclorurati) e di 7 pesticidi individuali […] era associato con i casi di depressione. (http://dx.doi.org/10.1289/ehp.1307450
La ricerca ha collegato l’uso prolungato dei pesticidi a maggiore incidenza di depressioni e suicidi. Anche una dose notevole in un breve periodo raddoppia il rischio di depressione.
Dopo aver taciuto i sintomi neurologici per anni, gli agricoltori e le loro famiglie hanno cominciato a parlare. Lorann Stallones, epidemiologa e professoressa di psicologia alla Colorado State University, afferma: “C’è stato un cambiamento, in parte perché ci sono più persone che dicono di essere state mentalmente debilitate.” Vedi: Scientific American-High Rates of Suicide, Depression, Linked to Farmers.
L’epidemiologa Freya Kamel e i suoi colleghi hanno riportato che, tra 19.000 casi esaminati, quelli che avevano usato insetticidi organoclorurati avevano fino al 90% di probabilità in più di essere diagnosticati con depressione. Per i fumiganti il rischio era maggiore dell’80%.
In Francia, secondo uno studio pubblicato nel 2013, gli agricoltori che usano erbicidi hanno una probabilità quasi doppia di essere in trattamento per depressione rispetto a quelli che non li usano. Lo studio, condotto su 567 agricoltori francesi, ha trovato che il rischio è ancora maggiore dopo 19 anni di applicazione di erbicidi.
In breve, stiamo distruggendo il valore nutritivo del cibo che mangiamo e stiamo distruggendo anche gli agricoltori rimasti a coltivarlo. E’ una ricetta perfetta per l’estinzione della vita sul pianeta. E non è un’esagerazione.
Credo fermamente che gli agricoltori biologici onesti e consapevoli dovrebbero ricevere notevoli agevolazioni fiscali, per incoraggiare altri coltivatori a lasciarsi alle spalle il grottesco modello dell’agrobusiness e tornare a coltivare e allevare come facevano fino a pochi decenni fa. Al contempo si dovrebbe imporre un’elevata tassazione agli agricoltori che usano prodotti chimici dimostrati tossici, come il Roundup di Monsanto, o i neonicotinoidi come Confidor, Gaucho, Advocate e Poncho della Bayer, o Actara, Platinum e Cruiser della Syngenta, giusto per citarne alcuni tra i più venduti.
Al contrario, i nostri governanti nell’UE e negli USA fanno di tutto per scoraggiarlo: cosa in effetti molto stupida, a meno che, ovviamente, alcuni aridi oligarchi drogati dal potere, seduti sulla cima della loro montagna a guardare con disprezzo noi comuni mortali, abbiano deciso che è proprio quello che vogliono. In questo caso, è compito nostro smettere di rivolgerci alla montagna e guardare cosa noi stessi abbiamo accettato come normale, quello che sta lentamente uccidendo noi e gli agricoltori che ci nutrono. Forse è arrivato il momento di cambiare questa situazione malata.
*F. William Engdahl è un consulente e docente di rischi strategici; laureato in politologia alla Princeton University e autore di best-seller sul petrolio e la geopolitica.
Fonte: Journal-neo
Traduzione: Anacronista

Pepe Mujica come simbolo di una politica sobria, onesta ed al servizio del popolo. Antitetico rispetto alla politica italica.

L'ex presidente dell'Uruguay "Pepe" Mujica è il simbolo vivente di come vorremmo fossero i politici in Italia, per poter risanare questo paese martoriato dai politicanti parassiti a lui antitetici. Nell'articolo sottostante lo vediamo mentre esce da una "lussosa" autovettura, totalmente privo di qualsiasi scorta, con un'abbigliamento da pensionato vittima della Fornero. Durante il suo mandanto, oltre a realizzare riforme economico sociali che sono  rimaste modelli di riferimento per coloro che auspicano una politica sobria ed al servizio del popolo, ha anche espresso concetti rivoluzionari per i nostri tempi e che mai in precedenza si sono sentiti pronunciati da un presidente di una repubblica, e mai purtroppo si sentiranno pronunciare. A differenza di altri ex presidenti che vengono invitati a tenere conferenze in cambio di generose "donazioni" ad anbigue fondazioni gestite a livello familistico, lui ancora oggi si pone gratuitamente a disposizione di coloro che lo invitano, col solo rimborso spese, perché non ha mai voluto emolumenti derivanti dall'attività politica, vivendo in assoluta austerità e sobrietà. Un alieno rispetto ai nostri ignobili politicanti italici. Un esempio vivente che ci rammenta costantemente di chi sia la responsabilità della rovina del nostro paese, non imputabile alle circostanze avverse o contesti epocali ma al parassitismo ed inettitudine della nostra classe politica.
Claudio Martinotti Doria.

Fonte: L'ANTIDIPLOMATICO
http://www.lantidiplomatico.it/dettnews-la_lezione_di_pepe_mujica_la_vita_umana_non_pu_ridursi_a_lavorare_pagare_le_bollette_e_accumulare_debiti/82_22262/

La lezione di 'Pepe' Mujica: la vita umana non può ridursi a lavorare, pagare le bollette e accumulare debiti

La lezione di 'Pepe' Mujica: la vita umana non può ridursi a lavorare, pagare le bollette e accumulare debiti
 

«L’unica cosa che non si può comprare è la vita. La vita si consuma. Ed è da miserabili consumare la vita per perdere la libertà»

  «La vita umana non può ridursi - come impone il capitalismo - a lavorare, a pagare le bollette e ad accumulare debiti», ha dichiarato l'ex presidente uruguaiano Jose ‘Pepe’ Mujica in una conferenza a Montevideo finalizzata all'organizzazione contro le riforme neoliberiste che colpiscono l'America Latina e il mondo.

«Difendere il tempo libero e la libertà è una questione di principio», ha detto durante un panel intitolato ‘Continuiamo a lottare: le sfide da affrontare per l’ondata conservatrice e gli attacchi contro la democrazia».

Si tratta di temi molto cari all’ex capo di Stato soprannominato il presidente più povero al mondo per il suo stile di vita molto semplice. Basti pensare che gira ancora in un vecchio VW Beetle del 1987. «Abbiamo inventato una montagna di consumi superflui. E viviamo comprando e buttando…», aveva dichiarato in un’intervista con il regista Yann Arthus-Bertrand per il documentario Human.

«Quello che stiamo sprecando», aveva spiegato Mujica, «è tempo di vita perché quando io compro qualcosa non lo faccio con il denaro, ma con il tempo di vita che ho dovuto utilizzare per guadagnare quel denaro».

«L’unica cosa che non si può comprare è la vita.
La vita si consuma. Ed è da miserabili consumare la vita per perdere la libertà», queste le sagge parole del leader uruguaiano che fecero il giro del mondo. 
Insieme a Mujica, alla Conferenza per la Democrazia e Contro il Neoliberismo, hanno preso parte tanti altri esponenti della società latinoamericana come Marcelo Abdala, presidente dell’Unione Sindacale dell’Uruguay, e Karin Nansen presidente di Friends of the Earth.

Il sindacalista ha evidenziato che gli Stati Uniti non hanno più il potere di agire unilateralmente ma sono costretti a negoziare con India, Russia e Cina, con cui i lavoratori uruguaiani lavoreranno per una vita migliore per tutti. I sindacati uruguaiani, ha aggiunto Abdala, continueranno a combattere collettivamente e, «vivere, amare e lottare" per un mondo giusto, «come rivoluzionari».
Fonte: teleSUR

L'italiano non è una lingua minoritaria ed emarginata, dovreste convincervi e promuoverla in ogni occasione.

Sono perfettamente d'accordo con l'autrice del sottostante articolo, sul fatto che l'italiano sia una delle più belle e complete lingue del mondo e si anche molto ammirata e studiata. In quasi tutte le Ambasciate, Consolati, Istituti di Cultura Italiana e sedi della Dante Alighieri in giro per il mondo si tengono corsi di lingua e cultura italiana, cui partecipano mediamente dalle 400 alle 500 mila persone ogni anno. Moltissimi intellettuali, insegnanti, studiosi, ricercatori, scrittori, ecc., in giro per il mondo, parlano correttamente l'italiano, essendo la seconda o terza lingua che hanno studiato e spesso perfezionato con lunghe vacanze o soste nel nostro meraviglioso Paese. In molti paesi contigui e del Mediterraneo non è difficile trovare qualcuno che parli l'italiano, a volte anche minoranze significative (cito solo ad esempio la Corsica, la Slovenia, Malta, la Svizzera, la Grecia, il Montenegro, ecc.). In Sudamerica poi è diffusissimo, in alcuni paesi è la seconda lingua parlata, per la presenza di moltissimi italiani stabilmente insediati da molte generazioni,  ed inoltre si trovano ovunque comunità di italiani all'Estero ed associazioni culturali ben organizzate, che raccolgono anche gli italiani di seconda o terza generazione emigrati all'Estero che ancora parlano la loro lingua cerncando di conservarne anche le tradizioni, la memoria, la storia. Per cui estendo con forte convincimento l'invito dell'autrice a parlare italiano quando si va all'Estero ed insistere finché non si trova qualcuno che lo parli o sia disposto ad apprenderlo. L'italiano è una lingua che merita di estendersi ed essere apprezzata, certamente più dell'inglese, estremamente riduttivo e banale.
Claudio Martinotti Doria

L’unico punto debole dell’Italiano sono gli Italiani

di Anna Maria Campogrande - 22/11/2017
L’unico punto debole dell’Italiano sono gli Italiani
Fonte: Bye Bye Uncle Sam

Noi Italiani, fedeli ‘sciuscià’ degli Statunitensi, abbiamo subito il lavaggio del cervello, siamo fissati con l’Inglese, stiamo massacrando la nostra lingua con assurdi termini inglesi allorché le parole in Italiano esistono e sono di grande chiarezza e riteniamo che si possa comunicare con il Mondo solo in questa lingua. Non è vero! Si può comunicare in Francese con quasi tutti i Paesi del Mondo, in Spagnolo con tutta l’America Latina e aldilà, si può anche comunicare in Italiano con molti Paesi tra cui quelli del Bacino Mediterraneo e dell’America Latina. L’Italiano è anche una lingua molto diffusa in tutta Europa. Me lo lasci dire poiché, per ragioni di lavoro, ho girato l’Europa e il Mondo e ho potuto sperimentare, di persona, le conoscenze linguistiche e l’attitudine dei cittadini verso le diverse lingue. In quest’ambito ritengo di dover mettere in evidenza e sottolineare il fatto che, ovunque, ho sempre incontrato una grande apertura nei confronti dell’Italiano. Non credo di esagerare affermando che l’Italiano è la lingua più amata del Mondo. Ma, gli Italiani lo ignorano e vanno in giro per l’Europa e per il Mondo utilizzando esclusivamente l’Inglese, la qual cosa costituisce un crimine culturale nei confronti della civiltà greco-latina, la nostra civiltà, aggredita dai faccendieri di livello mondiale a causa dei suoi valori incompatibili con il predominio dell’economia e della finanza che sta distruggendo il modello sociale europeo e i diritti fondamentali dei cittadini. L’unico punto debole dell’Italiano sono gli Italiani che non oserebbero mai iniziare una conversazione con altri cittadini del Mondo in Italiano, invece dovrebbero farlo, tenuto conto della grande apertura di livello mondiale nei confronti della nostra bellissima lingua, e passare ad un’altra lingua solo a richiesta dell’interlocutore.
C’è anche da mettere in evidenza l’importanza della qualità della comunicazione che non è assicurata dall’Inglese, in particolare, per coloro che dispongono di una “forma mentis” e di un linguaggio strutturato dal diritto romano e dalla civiltà greco-latina. Certo, si può comunicare facilmente in Inglese per una conversazione spicciola, da turista, ma quando si passa a questioni di fondo, all’espressione del pensiero, alla concezione, alla regolamentazione di tematiche fondamentali d’interesse comune, l’Inglese non dispone neanche delle parole corrispondenti e necessarie per esprimere idee, dispositivi e concetti derivanti dalla forma di pensiero conferitaci dalla nostra civiltà. Peraltro, noi siamo in Europa e dovremmo preoccuparci, in priorità, di questo nostro contesto istituzionale e culturale, nell’ambito del quale il Francese, il Tedesco, lo Spagnolo e l’Italiano sono lingue largamente diffuse e dispongono delle prerogative per assicurare la “qualità” alla nostra “comunicazione”. L’Inglese è, in effetti, l’ultima delle grandi lingue di cultura dell’Europa che dovrebbe essere utilizzata per la redazione dei testi regolamentari e legislativi prodotti dalle istituzioni europee perché non dispone dei termini appropriati per permetterne un’agevole trasferimento nei sistemi legislativi degli Stati Membri che si fondano sul diritto romano e sui codici napoleonici, sottoponendo giuristi e amministratori della cosa pubblica ad incredibili compromessi ed arzigogoli.

Il Ministero della propaganda UE decreterà cosa gli europei potranno leggere con patente di verità



Sputnik, l’ossessione dei media italiani

© Sputnik. Maksim Blinov-  18.11.2017
Chi sta dietro a Brexit, all’elezione di Trump e alla situazione catalana? Sputnik e RT, ovviamente. Questa è la vulgata che circola sui giornali italiani, il ritornello martellante sulla fatidica “macchina della propaganda” capace di decidere praticamente le sorti del mondo intero. Sputnik, l’ossessione dei media italiani.
Molti giornalisti occidentali, compresi quelli italiani, considerano i media russi responsabili degli esiti delle elezioni avvenute negli Stati Uniti, del referendum su Brexit in Inghilterra e inoltre responsabili anche della crisi catalana. I giornalisti però non spiegano come esattamente i media russi sfruttino questo immenso potere influenzando gli elettori di tutto il pianeta e costringendoli a comportarsi in un modo anziché in un altro. Analizzando il tutto a sangue freddo, effettivamente, la moda di dare sempre e comunque la colpa ai russi è uno strumento molto utile e comodo, facile da usare in ogni occasione: dai la colpa ai russi e vivi tranquillo, perché agisci secondo uno schema prestabilito.
Riflettiamo giusto un attimo. Perché è sempre colpa dei media russi? Perché non si parla mai invece dell'influenza del cinema e dei media americani in Europa? Ecco il parere espresso a Sputnik Italia da Bruno Ballardini, il più accreditato esperto italiano di comunicazione strategica.
"Ma chi può credere a queste sciocchezze? Noi siamo influenzati dall'America, non dalla Russia! È dal dopoguerra che gli USA investono fondi illimitati per bombardare l'Europa con la propaganda: non solo serial televisivi e cinema, ma anche think tanklobby, ong, per fissare l'immagine dell'America come paese leader e come migliore dei mondi possibili. I nostri media, viceversa, fanno regolarmente "copia-incolla" dai documenti forniti dagli americani, e in questo modo il delitto è perfetto".
© Sputnik. Vladimir Fedorenko

L'oggettività più assoluta, come anche un'unica verità, nel giornalismo difficilmente esiste, possiamo però parlare di una determinata cornice, come spiega nei suoi interventi il noto giornalista Marcello Foa. Esiste nel mondo mediatico occidentale "un frame" entro il quale scrivere, liberamente, certo, ma senza oltrepassare i limiti prestabiliti. In altre parole, per rispettare i limiti della cornice i russi devono essere per forza i cattivi.
Ci ricordiamo bene che nel 2015 tutti i giornali del mondo parlavano del doping degli atleti russi, esclusi in seguito dai Giochi di Rio. Il tutto prese inizio da un'inchiesta tedesca che in poco tempo però divenne la verità per il coro mediatico occidentale, compreso quello italiano. Nessun dubbio era ammesso. Due anni dopo si scopre la realtà dei fatti, la Wada (Agenzia Antidoping mondiale) scagiona 95 dei 96 atleti russi sospesi, ma questo ormai poco importa. Il messaggio sugli atleti russi brutti e cattivi, pure dopati, è arrivato al destinatario, cioè ai lettori del mondo intero. Funziona così il circo mediatico, in cui la verità spesso ne rimane vittima.
Molti giornali italiani hanno scritto in questi anni di sanzioni che in Russia si vivesse un clima di guerra riparandosi nei bunker e si facessero addirittura scorte di cibo! Robe da non credere. Oggi invece la parola d'ordine per ogni giornalista che si rispetti è Russiagate, la giostra continua, il messaggio da veicolare è lo stesso.

Ora, tornando al "processo" mediatico a cui sono sottoposti Sputnik e RT, va precisato un fattore importante e allarmante: la battaglia contro i media russi si conduce a più livelli. Esattamente un anno fa a Strasburgo è stata approvata una risoluzione a firma dell'eurodeputata Fotyga, la quale invitava a combattere contro i media russi, che rappresenterebbero una minaccia per la stabilità europea alla pari di Daesh. Sembra assurdo, eppure si tratta di un documento votato e approvato dal Parlamento europeo. Ora l'Ue invece si sta occupando di una task force (East Stratcom) sotto la guida di Federica Mogherini volta a lottare contro la "disinformazione" russa. Per il progetto verrà creato un gruppo di esperti che, non si sa su quali basi, decideranno quali notizie sono vere e quali no.
Questo "Ministero della verità" non potrebbe rappresentare una minaccia alla libertà di espressione? Ecco che cosa ne pensa Ballardini:
"È opera della CIA anche questa. Per chi analizza la comunicazione, è evidente che anche questo progetto fa parte di un'unica strategia di propaganda che ha come obiettivo screditare i nemici. Mi stupisco che nessuno nel Parlamento Europeo si ribelli all'assurdità di creare un organismo del genere. Oppure sono già stati comprati tutti come la Fotyga?"
In tutta questa vicenda non si presta attenzione ad un fattore molto importante: i lettori. Si vuole decidere tutto per loro, cos'è giusto e cos'è sbagliato, quale notizia vada letta, quale no. Quello che vediamo oggi per esempio su molti giornali italiani è una quasi quotidiana demonizzazione di Sputnik e RT, sembra una vera ossessione.  Come può un mass media essere una macchina capace di influenzare le elezioni del mondo intero e rappresentare una minaccia così potente come viene dipinto dai giornali italiani?
© AFP 2017/ EMMANUEL DUNAND / POOL

Roberto Vivaldelli, caporedattore di Oltre la Linea, autore di "Fake news. Manipolazione e propaganda mediatica, dalla guerra in Siria al Russiagate", ha così espresso il suo parere a Sputnik Italia:
"Penso che siano contestazioni pelose e pretestuose. In Italia esistono gruppi editoriali incredibilmente potenti e influenti, mi chiedo francamente cosa abbiano da temere. Tuttavia, l'isteria anti-russa dettata dai neocon e dai "liberal", sembra oramai essere irreversibile. I giornali che attaccano quotidianamente Sputnik lo fanno perché non riescono a tollerare che nell'opinione pubblica italiana o europea vi sia qualcuno in grado di fornire una chiave di lettura diversa rispetto a ciò che accade nel mondo. La campagna di demonizzazione contro Sputnik e RT è dettata da logiche politiche, e rappresenta un segnale molto preoccupante nei confronti della libertà di stampa e del diritto a informare in tutto l'Occidente, nonché un sintomo della grave crisi valoriale che sta colpendo le democrazie occidentali."
Forse si cela proprio qui il problema, una chiave di lettura diversa evidentemente non rientra nella cornice prestabilita da qualcun altro e questo proprio non va giù. La libertà dei lettori però non dovrebbe rientrare nei giochi da "guerra fredda" di oggi, ognuno dovrebbe leggere quello che vuole. Un mass media può anche non essere consultato, ma la scelta sta sempre al lettore, nessuno può permettersi di scegliere per lui. I lettori non sono stupidi, è giusto che traggano le proprie conclusioni da soli senza una commissione di esperti che indichi loro la "verità". 

Se volete un secondo passaporto ed un approdo sicuro, grazie agli ultimi distruttivi uragani caraibici i costi sono diminuiti



Passaporti e cittadinanze ai Caraibi, in saldo

A settembre, gli uragani hanno devastato i paesi dei Caraibi e, alcuni di loro, per aiutare l’economia a riprendersi, hanno ridotto il prezzo dei programmi di cittadinanza.
Il mese di settembre è stato drammatico per l’area dei Caraibi. Gli uragani Harvey, Irma e Maria hanno devastato la regione, provocando morti e miliardi di dollari di danni.
Una delle immediate conseguenze a questi sfortunati eventi è stata la riduzione dei prezzi dei cosiddetti Programmi d’Investimento per la Cittadinanza (PIC), ovvero cittadinanze e passaporti per stranieri in cambio di soldi.
St. Kitts & Nevis, per esempio, offriva già la possibilità di ottenere una doppia cittadinanza ma, ora, ha ridotto i costi per ottenerla del 50%: 150mila anziché 300mila dollari.
Dominica, uno dei paesi più colpiti e disastrati dagli uragani Irma e Maria (la tempesta ha distrutto oltre il 90% degli edifici sull’isola e provocato almeno 27 morti), per incentivare i futuri cittadini a scegliere questo paese, ha ridotto drasticamente tutte le spese di istruttoria (da 3mila a mille dollari) e la tassa di naturalizzazione (da 750 a 250 dollari). Il contributo da versare al governo locale è rimasto invariato a 100.000 dollari per singolo richiedente, così come la quota di iscrizione al programma di 25.000 dollari.
Questi paesi vendono la cittadinanza per attirare investimenti esteri e per contribuire alla ripresa dell’economia
Ma anche Santa Lucia, che ha attivato un suo programma di cittadinanza per stranieri nel 2015, ha deciso di abbassare i costi, portando il contributo governativo da 250.000 a 100.000 dollari per ogni candidato.
Per molte persone, un secondo passaporto è la chiave per una maggior e libertà di movimento in tutto il mondo, una maggiore flessibilità e la possibilità di beneficiare di regimi fiscali alternativi a quello del paese di nascita. Per i paesi che rilasciano queste cittadinanze del tutto legali, è un modo per attirare investimenti esteri e per contribuire alla ripresa della propria economia dopo le tempeste che li hanno messi in ginocchio.
La considerazione che sta alla base della scelta di comprare una seconda cittadinanza è che, in realtà, il passaporto di ogni cittadino è una proprietà dello Stato che lo ha rilasciato e, quindi, se un governo decide di impedire ai propri cittadini, o a qualcuno di loro, di uscire dai confini nazionali, può farlo revocando i passaporti. Ottenere un secondo passaporto garantisce da sorprese di questo tipo e offre un maggiore grado di libertà.
Anche se c’è chi si sorprende che sia possibile ottenere una seconda cittadinanza in cambio di denaro, è indubbio che il fiorire di questo mercato, rivolto soprattutto a persone benestanti, sia un indice evidente che la libertà in molti paesi del mondo sta attraversando un periodo di preoccupante regressione

Disinformazione: dati e statistiche come armi di distruzione di massa

Disinformazione: dati e statistiche come armi di distruzione di massa

(di Frank Montana)
15/11/17

Spesso si trovano dati contrastanti su media diversi in merito alla stessa notizia. Solitamente molti dicono una cosa e pochi dicono il contrario. A chi credere? Ovviamente il lettore arriverà alla verità in base alla suo personalissimo ragionamento. Però riflettere a fondo e capire diventa sempre più difficile anche per i più informati: il complesso mondo dei media e della raccolta delle informazioni risulta apparentemente semplificato in quanto estremamente diversificato.
"Trecento società dominano il mercato dell'informazione. Di queste società 144 appartengono all'America del Nord, 80 all'Europa, 49 al Giappone e 27 al resto del mondo. 4 agenzie tra queste trecento gestiscono l'80% del flusso delle notizie: sono le americane Associated Press e United Press International, la britannica Reuter e la francese France Press. La quasi totalità delle informazioni del Sud del mondo passa attraverso queste grandi agenzie di stampa prima di raggiungere i nostri giornali e i nostri Tg"1. L'interessante virgolettato, anche se datato di qualche anno, aiuta a fare chiarezza sul reale flusso delle informazioni e sui dati che vengono forniti ai fruitori finali dei mezzi d'informazione.
Giornalisti che ci hanno preceduto hanno lasciato importanti annotazioni e articoli su come vengano manipolate certe informazioni e di come certe strutture tentino di condizionare l'opinione pubblica tramite le agenzie di stampa, a volte a loro insaputa. Secondo Carmine Pecorelli: "Le agenzie di stampa sono il grande rubinetto dal quale sgorga il greggio. Insieme ne sono anche il filtro. Da esse i giornalisti attingono la materia prima detta 'notizia', da fornire al lettore-consumatore sotto forma di informazione, già depurata e raffinata dalle scorie. Comandare il rubinetto, cioè determinare ed orientare il flusso del prodotto greggio, quindi ritardare, filtrare o negare le notizie, significa ridurre e censurare, entro limiti più o meno vasti, il diritto dell'informazione. La scelta delle notizie erogate, o l'eliminazione di quelle censurate, è sempre legata a considerazioni di carattere politico e, in senso più esteso, economico"2.
Un vecchio detto sostiene che "tutto il mondo è paese" e proprio per questo si trovano forti analogie tra Paese e Paese. Qualche autorevole osservatore straniero ha sollevato dubbi sul sistema americano al quale peraltro si tende a fare affidamento e a prendere come modello. Secondo l'americano Noam Chomsky, uno dei massimi pensatori contemporanei: "Sono i grandi giornali e le catene televisione che fabbricano o manipolano l'opinione pubblica dell'ottanta per cento della popolazione. C'è un modo di trattare le notizie, sceglierle, limitarle e rilanciarle che è funzionale alla élite del potere. È un sistema pervasivo al quale è impossibile sottrarsi. Negli Stati Uniti ci sono circa 1800 giornali, 11 mila settimanali, 11 mila stazioni radio, 200 stazioni televisive, 2500 case editrici. Più del cinquanta per cento di tutto questo è controllato da una ventina di società. La loro fonte di sopravvivenza è la pubblicità. Non è il consenso del pubblico che fa vivere, ma la pubblicità (ovvero interessi particolari)"3.
 















Naturalmente per vendere più copie o aumentare l'audience servono emozioni forti, pertanto l'ottimo Paolo Murialdi "C'è il sensazionalismo, una tendenza che, da latente, è diventata una pratica molto frequente se non addirittura comune. Capisco le esigenze, ho fatto il giornalista per molti anni. Ma tutti questi grossi titoli a tutta pagina ripetuti per tutto il giornale sono eccessivi. Voglio dire che, mentre in prima pagina esiste ancora una gerarchia di scelte, all'interno si perde. C'è poi la questione delle fonti e del controllo delle fonti. C'è la seconda fonte? Lo chiediamo molto di raro"4.
Se un giornalista o una testata basa quasi tutta la sua potenza di fuoco sui dispacci di agenzia o da fonti ufficiali - o pseudo tali - il rischio di commettere errori aumenta considerevolmente, perché un conto sono i riscontri sul campo di battaglia (anche se danno una visione ad effetto tunnel) forniti da un giornalista che i lettori conoscono e apprezzano, un altro riportare i riscontri di qualcun altro che il lettore non conosce né è legato da un rapporto fiduciario. Ma anche sul campo di battaglia bisogna stare molto accorti, perché come spiega il bravissimo collega Giampaolo Cadalanu: "Nell'estate dell'anno scorso, a Tripoli, il mio traduttore libico si stupiva che mi indignassi davanti alle bugie dei ribelli. Erano i tentativi molto goffi del Consiglio nazionale di transizione di utilizzare la sete di notizie della stampa internazionale per convincere le opinioni pubbliche occidentali di atrocità esagerate o persino inesistenti, o più probabilmente per fornire ai governi dell'Occidente i pretesti adeguati per giustificare l'intervento militare"5.
Prendiamo un fatto storico poco noto in merito al Biafra e alla divulgazione delle notizie ma eccellentemente riportato da Goffredo Parise nel suo libro Guerre politiche: "Ci fu una guerra, fatta come poteva essere fatta. Per pubblicità alla sua causa e alla guerra presso le nazioni di tutto il mondo, il negro Ojukwu, in accordo con una potente società pubblicitaria svizzera, installò una telescrivente nella foresta. Non si limitò a questo, perché qualcosa bisognava pur dare in pasto ai lettori della telescrivente che smistava ai giornali di tutto il mondo; e questo qualcosa doveva essere sensazionale in misura esplosiva, tanto poco sensazionale ed esplosiva era la notizia di una guerra locale fra tribù"6.
Spesso ci si è imbattuti in vere e proprie bufale per non parlare di veri e propri prodotti su set appositamente organizzati e che non erano affatto nel luogo che facevano intendere.
 















Basti pensare che alla Casa Bianca c'era, sotto la presidenza di Bush Jr., l'Office of Strategic Influence, detto anche l'Ufficio delle bugie7. Gli interessi enormi in gioco danno di fatto carta bianca a qualsiasi tipo di iniziativa, anche le più audaci ed incredibili. Una tra tutte: il piano ideato dai servizi segreti del Kaiser di acquistare il controllo e l'intera proprietà di alcuni quotidiani del nostro Paese, giornali tipo “il Tempo” e “La Stampa”, al fine di spingere tramite una campagna di neutralità organizzata e veicolata proprio dalle testate giornalistiche acquisite. L'intento era spingere l'Italia fuori dalla Guerra Mondiale8.
Prendiamo ad esempio la presunta distruzione di Aleppo, quando invece solo un'area è stata interessata dai combattimenti o della fantasiosa notizia dell'ultimo pediatra della stessa città. Dati assolutamente non veritieri o inverosimili ma purtroppo rimbalzati sui media. Per non parlare della presa di Sirte strappata al controllo di Gheddafi. Altra notizia assolutamente non aderente alla realtà dei fatti nel suo quadro complessivo. Perché il 28 marzo iniziando con Al Jazeera nell'edizione delle 4:35 GMT, continuando con Sky New ore 7,19 GMT e finendo con Euronews sempre nella medesima giornata non si parlava d'altro che della imminente caduta di Sirte in mano ai ribelli, il tutto accompagnato da video dei ribelli in frenetica attività9. Per fortuna un giornalista italiano, l'ottimo Cristiano Tinazzi de “il Messaggero”, ha smentito con una prova video che quanto sostenuto dai cannoni di grosso calibro non era come riportato10.
Durante la crisi libica sono girate cifre sui morti da combattimento che sono state da assoluto capogiro. Parlare di 10.000 morti in pochi giorni di combattimento è qualcosa che chi conosce veramente la guerra non può non rendersi conto di quanto sia errato il dato.
Mimmo Càndido, autentico maestro del giornalismo di guerra, si è sentito in dovere di scrivere nel suo blog, ospitato su “La Stampa” in data 26 febbraio 2011: "Si è ripetutamente raccontato di 10.000 morti, forse anche 15.000, di bombardamenti a tappeto sulla folla, di fosse comuni fin sulla spiaggia, e sono apparsi sugli schermi dei tg immagini fugaci, che avrebbero dovuto rappresentare la fondatezza delle notizie (l'immagine "documenta" e "certifica" la realtà) che venivano trasmesse a voce dal conduttore o poi, sui giornali, dai titoli a caratteri cubitali. In quasi 40 anni di guerre raccontate in giro per il mondo, ho appreso ad avere qualche cautela nell'accogliere notizie di catastroficità incontrollabile.




















Diecimila morti è una dimensione di cui nemmeno il macello di Srbreniza riuscirebbe a dare una misura valutabile; e i bombardamenti a tappeto sulle città sono una pratica che non dovrebbe avere difficoltà a trovare riscontro nelle testimonianze (tanto più che i testimoni, spesso non abituati a "vivere" una guerra, e spesso coinvolti emotivamente prima ancora che culturalmente, tendono a esagerare il loro impatto con la drammaticità della esperienza che sono stati costretti a subire). Invece le testimonianze date dai primi che sono riusciti a lasciare la Libia parlavano certamente di scontri a fuoco violentissimi, di massacri perpetrati spesso da mercenari neri, ma non riferivano mai di questi bombardamenti sulla folla dei manifestanti, nè di violenze tali da rendere credibili quelle cifre mostruose"11.
Ma non tutte le vittime sono uguali, perché se prendiamo a modello Jerzy Popieluszko, prete polacco ucciso dal regime comunista, si vede chiaramente che a confronto con l'arcivescovo Oscar Romero, ucciso a San Salvador (El Salvador) dal regime locale, non c'è storia in quanto a copertura mediatica sul Time e sul Newsweek con una differenza di articoli dedicati di 16 a 3. Popieluszko è stato avvantaggiato per questioni strategiche12. Questo la dice lunga sull'interesse o meno di trattare una notizia che ha caratteristiche di fondo uguali: prelato ucciso dal regime. La differenza stava nel fatto che era più utile montare la notizia del polacco per ragioni di opportunità politica internazionale, più che quella del povero prelato salvadoregno.
La Primavera Araba non è stata altro che una operazione organizzata e che di spontaneo non ha quasi nulla. Per organizzare una iniziativa del genere basta solo rispettare i seguenti cinque punti: creazione di una organizzazione di attivisti; uso di diversi mezzi di comunicazione; impiego di simboli e slogan; creazione di pseudo eventi; orchestrazione del conflitto.13 Per chi fosse interessato a capire i cinque punti essenziali di come organizzare una tale messinscena, può studiarsi Samuel Adams (1722-1803). Comunque, fu fatta passare come una iniziativa che si è sviluppata grazie ai moderni sistemi di informazione alternativa via internet, invece il peso della Rete è stato tutto sommato relativo se non fosse stato per il supporto dei grandi media che hanno poi veicolato quanto girava in Rete. I motivi scatenanti erano altri e più radicati nelle società interessate. Uno di questi è stato anche il controllo più o meno aperto dei regimi nei confronti dell'informazione libera. Ma giocoforza certe sedimentazioni sociali richiedono anni e anni prima che arrivino a dare alla luce un embrione di ribellione. Guardare solo i fatti dell'ultima ora non porta sicuramente a capire le ragioni più recondite del malessere sociale. Se non c'è stata questa lunga sedimentazione del malcontento, la rivoluzione che ne consegue non può assolutamente reggersi sulle proprie gambe, tranne nel caso di una rivoluzione indotta dall'esterno. Dunque condizionata artificiosamente con tecniche raffinate. Ma questo ultimo tipo di condizionamento non garantisce stabilità nel cambio del regime, in quanto il grosso dell'opinione pubblica non lo riconosce e lo rifiuta.
 














Nel caso della Primavera Araba tutto si è sviluppato oltre il senso del logico grazie ad alcune testate giornalistiche, come Al Jazeera, che hanno rilanciato su scala mondiale i filmati degli improvvisati reporter tra i manifestanti. I social, poi, hanno contribuito a minare la verità verso l'estero, perché quasi tutti erano propensi a pensare che quanto arrivasse nelle redazioni fosse genuino per il solo fatto che fosse informazione clandestina e non di Regime. Questa propaganda ha portato alcuni governi a fare delle scelte scellerate come quella dell'embargo. Questa pratica è di fondo un crimine contro l'umanità, perché si impedisce ad un popolo, ma più correttamente all'individuo, di nutrirsi e curarsi e anche difendersi. Facciamo un esempio pratico e tangibile che potrebbe interessarvi da vicino: se tutti gli altri condomini decidessero di applicarvi l'embargo, voi sareste costretti a non uscire di casa e a nutrirvi e curarvi con quello che vi passano sotto la porta! Pagando anche cifre esorbitanti e indebitandovi sempre più. Se applicassero la No Fly Zone, non potreste più nemmeno calare il cestello di vimini con la cordicella fuori dalla finestra per poi farlo riempire da parenti e amici che arrivano in soccorso. Insomma, non è proprio un comportamento da paesi evoluti, ma stranamente i media certe volte assecondano questa pratica mostruosa o non la condannano abbastanza duramente.
Prendiamo ad esempio il caso della Siria. Il paese era organizzato e moderno per gli standard locali. Il consenso che Assad ha tra il popolo è genuino e il grosso dell'opinione pubblica è con lui. Quanto è avvenuto e sta avvenendo dimostra che i blog e i social, ma anche i media, non sono assolutamente sufficienti a scatenare una rivoluzione interna se l'opinione pubblica è schierata con il suo leader. Evidentemente l'intellighenzia e gli analisti internazionali non sono di questo parere, visto e considerato che le voci che si sono sollevate contro Assad sono state numerose. Ma i dati veicolati hanno fornito una chiave di lettura diversa. La “gay girl in Damascus” è uno dei tanti casi che hanno fatto notizia sul nulla. Per la sua liberazione gli appelli in tutto il mondo sono fioccati ovunque. Eppure la storia è stata inventata di sana pianta perché la sorprendente lesbica arabo-americana risultò essere un uomo di 40 anni americano, Tom MacMaster, che vive in Georgia e per di più sposato, il quale ha pure confessato14. Oppure il caso di Danny Syria, altro mirabile esempio di manipolazione mediatica. La sua storia o meglio le sue storie sono state messe in onda da Tv internazionali come CNN e BBC15. Il tipo era considerato un attivista che sfidava la morte per raccontare la verità. Peccato che un fuori onda della CNN sia stato fatale alla credibilità del ragazzo. Infatti si scoprì che le riprese erano fatte in sicurezza e poi montate ad arte per conferire un aspetto e un sonoro degno di chi sfida la morte.
Avaaz (Voce) è una organizzazione che si prefigge di far veicolare la verità scavalcando le censure16. Eppure questa organizzazione ha sede a New York e il vertice è composto da tre persone che in base al loro curriculum non sono proprio da considerarsi attivisti della strada17. Avaaz raccoglie fondi e compera materiale che poi farebbe arrivare in loco. Secondo voci, nel caso della Siria avrebbe inviato quanto serve ai blogger e agli aspiranti giornalisti anti regime: telefoni satellitari e sistemi anti intercettazione internet. Così la censura di Stato non può fermarli. Alcuni sostengono che così si aiuti l’informazione ad essere libera, ma è una ulteriore dimostrazione che anche volendo fare del bene, si rischia di dare materiale in mano a persone che fanno un lavoro giornalistico raffazzonato.
 
















Quanto dice l’Osservatorio Siriano dei Diritti Umani (OSDH) è oro colato18. L'Osservatorio è diretto da Rami Abdel Rahman. I suoi dati vengono addirittura pubblicati da molti media con ampio risalto. È l’unica fonte ufficiale e autorevole che viene presa in considerazione. Peccato che l'Osservatorio di siriano abbia ben poco, che sia ubicato in una anonima stradina nella città industriale di Coventry e che sia composto da un solo uomo19. Rami Abdel Rahman, questo il nome dell'indefesso dispensatore di dati, è scappato dalla Siria ancora anni addietro con il vero nome di Osama Suleiman e si è stabilito in Inghilterra. È interessante il fatto che secondo autorevoli giornali stranieri goda di contatti ad altissimo livello nel governo inglese. Rahman/Suleiman sarebbe dunque in grado di raccoglie una infinità di dati da solo e dalla sua stanzetta dalla profonda campagna inglese. Ha sostenuto di essere a capo di una rete di osservatori sul campo, tutti siriani e combattenti per la libertà. Fin qui tutto potrebbe anche stare dentro ad un quadro logico. Salta tutto, invece, quando ci si accorge che la maggioranza di quello che dice e pubblica non ha corrispondenza con la realtà dei fatti. E che l'Osservatorio fa acqua da tutte le parti20. Dati errati, situazioni inesistenti. Tanto che la portavoce del ministro degli Esteri russo Maria Vladimirovna Zakharova ha esortato a non credere a tutto quanto riportato dall’Osservatorio perché i fatti dimostrano il contrario21.
Il sistema d'informazione americano ad esempio (le grandi agenzie precedentemente citato) nel suo complesso è un meccanismo che limita l'indipendenza giornalistica perché condizionato dalla logica dei numeri, delle leggi e dagli aiuti governativi. Tutto questo va a creare una sorta di rete di protezione che impedisce o limita di fatto al giornalista di fare domande scomode e porta i giornali a dipendere così quasi totalmente dalle fonti ufficiali (uffici stampa, cioè strutture pagate per difendere e curare gli interessi del loro datore di lavoro) per fornire credibilità all'articolo attraverso tabelle e dati che poi sono difficilmente controllabili.
Una tabella statistica che descrive dei dati, fornisce anche una chiave di lettura. Ma non è detto che quella chiave sia quella che apra la porta della verità nuda e cruda, perché il potere gioca sempre con i numeri. Dunque si ritorna ancora al valore notizia per condizionare l'opinione pubblica e spesso per imprimere direzione e moto con più efficacia si usano a supporto i dati statistici.
 






















Capire i dati e le statistiche comporta sudore e ricerche continue, ma in un mondo dove i numeri hanno grande rilevanza, soprattutto se intesi di pari passo ai costi e benefici di determinate operazioni, va da sé che bisogna impegnarsi a fondo per fornire una informazione corretta e di qualità al lettore. Come ben spiegato dal giornalista David Randall nel suo manuale per giornalisti22, dal quale abbiamo preso libero spunto per le domande sull'argomento specifico e adattato alle esigenze dell'articolo, tutto parte da una domanda di buon senso: il dato che sto leggendo è credibile? E dalla naturale risposta si inizia un percorso lineare che tende a smontare tutto l'eventuale castello di falsità numeriche. 10.000 morti in pochi giorni sembrano plausibili? Delle tombe comuni singole scavate con accuratezza in riva al mare sono credibili? In ogni caso la domanda successiva è: chi ha fornito questi dati? Un Osservatorio dei diritti umani siriano?! Oppure una associazione non meglio definita o una università o chiunque altro? Ecco che deve scattare la ricerca approfondita sull’attendibilità di chi ha fornito i dati. Tenendo ben presente che un bel sito internet non fornisce nessuna garanzia di serietà. E poi, una volta preso i contatti con chi ha fornito i dati, si devono fare domande accurate e approfondite. Se non sanno dare informazioni certe da dove arrivino le informazioni e i dati, significa che non sono accurati e che potrebbe esserci altro dietro. Ma una domanda focale che gli analisti si devono fare è: perché escono ora questi dati? Certe volte il tempismo è sospetto, ma quando ci sono interessi enormi in ballo tutte le operazioni vengono pianificate col cronometro in mano e viene tenuto conto anche del fuso orario. La scelta del tempismo ha un motivo, solo che spesso non è evidente nell’immediato. Sta a chi deve capire, cioè i giornalisti e gli analisti, trovarlo.
Solitamente vengono usate cifre tonde: "10.000 morti", "2 milioni di persone senz'acqua" o cose simili. L’arrotondamento nasconde delle insidie. I dati vengono spesso resi accessibili graficamente con vignette o istogrammi o grafici a barre o a torta. Poco importa, perché la rappresentazione grafica nasconde alcuni trucchi: basta andare a toccare la dimensione verticale od orizzontale e il grafico cambia aspetto e fornisce una immagine fuorviante. Un classico sono i bidoni o qualsiasi altra cosa. Se l’accesso all’acqua potabile è il doppio dell’altro, di pari passo mostrano il secondo bidone doppio. È un errore, perché significa che l’area del bidone grande è quattro volte più grande e il volume otto volte di più. Questo trucco viene usato spesso.
Ma i veri trucchi contabili vengono fatti nel calcolo con le medie statistiche. Le medie sono di tre tipi: media aritmetica, mediana, moda. Sono tre maniere diverse di calcolare i dati. Altro campo che si presta a potenziali manipolazioni sono le percentuali. Bisogna tenere sempre bene in evidenza il dato di partenza ovvero la base di riferimento. Spesso la base di riferimento, non si trova. In ogni caso bisogna verificare la base di riferimento perché il trucco sta proprio in quel dato.
(foto: Difesa Online / web)
Note:
1 Gubitosa C., L'informazione alternativa, EMI, Bologna 2002, p.34
2 Pecorelli Carmine, Le idi di marzo, in OP, 13 marzo 1979
3 Chomsky Noam, intervista pubblicata su La Repubblica del 27 marzo 1994
4 Murialdi Paolo in Reset, n. 12, dicembre 1994
5 Cadalanu Giampaolo, Finché c'è guerra c'è notizia e notizia, I quaderni speciali di Limes, Anno 4, n.1, p.206
6 Parise Goffredo, Guerre Politiche, ed. Adelphi, pag. 101
7 Corriere della Sera, Bioterrorismo, le riviste scientifiche si censurano, 18/02/2003 p.10
8 Augias Corrado, Giornali e spie, Supersaggi Biblioteca Universale Rizzoli, 1994
12 Noam Chomsky-Edward S. Herman, La fabbrica del consenso, Marco Tropea Editore, p.62
13 Invernizzi Emanuele, Relazioni Pubbliche, McGraw-Hill, 2001, Cap.1, ppgg.5-6
22 Randall David, “Il giornalista quasi perfetto”, Editori Laterza, 2004, Cap. Dati e statistiche, ppgg 108-128