di GUGLIELMO PIOMBINI
Se è vero, come sostiene la vulgata prevalente, che la crisi attuale è stata provocata dalla finanza senza regole
e dagli eccessi del capitalismo, allora i paesi europei economicamente
più liberi dovrebbero trovarsi nelle condizioni peggiori. Possiamo
verificare questa tesi confrontando la situazione economica di due paesi
confinanti abitati da popolazioni parzialmente simili, l’Italia ela
Svizzera. Quest’ultima, grazie alla sua forma confederale, ha sempre
avuto un settore pubblico più leggero di quello dell’Italia, ma negli
ultimi anni le differenze tra i due paesi si sono enormemente allargate.
Nella classifica mondiale della libertà economica 2014, curata annualmente dall’Heritage Foundation
e dal Wall Street Journal, il sistema economico svizzero risulta il
quarto più libero del mondo (dopo Hong Kong, Singapore e l’Australia),
mentre quello italiano si trova all’86esimo posto. Ancora meglio fa la
Svizzera nell’
indice mondiale della competitività, piazzandosi al primo posto su 148 economie mondiali, mentre l’Italia si trova al 49esimo posto.
La Svizzeraè particolarmente competitiva proprio in quel settore finanziario demonizzato
dagli avversari del libero mercato. Non esiste infatti un paese in cui
il settore finanziario rappresenti una quota così importante del PIL
come la Svizzera(il 13 % contro il 4 % della Francia o della Germania).
Nonostante questa maggiore esposizione ai rischi, la piazza finanziaria
elvetica si è dimostrata solida, e durante la crisi ha beneficiato di
aiuti statali in misura nettamente minore rispetto a quanto avvenuto in
altri Paesi (
fonte).
La recessione che ha colpito l’Europa sembra infatti aver risparmiato la Svizzera, che pur trovandosi incastonata nel cuore del vecchio continente, ha continuato a creare
business ad un ritmo costante. Secondo uno
studio della rete globale di revisione RSM,
tra il 2007 e il 2011 il numero di aziende in Svizzera è aumentato da
499.000 a 648.000, uno dei tassi più alti nell’area Ocse: +149.000
unità, pari ad un tasso di crescita medio annuo del 6,8%. Nel 2013 il
pil della Svizzera è
aumentato del 2%, mentre l’Italia ha chiuso il 2013 con un
calo del pil dell’1,9 % e un calo della produzione industriale del 3,8%.
Per quanto riguarda gli altri indicatori, secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale in Svizzera nel 2013
il reddito procapite a parità di potere d’acquisto è stato di 46.475
dollari contro i 30.094 dollari dell’Italia; l’inflazione su base annua
è stata dello 0,2 % contro l’l,3 % dell’Italia; l’incidenza della spesa
pubblica sul pil è circa il 33 % contro il 50 % dell’Italia; il debito
pubblico è in Svizzera il 36,4 % del Pil contro il 132,6 % dell’Italia;
il tasso di disoccupazione in Svizzera nel 2013 è stato del 3,3 %,
mentre in Italia nel gennaio 2014 ha fatto un nuovo balzo al 12,9 %;
particolarmente eclatante è il dato sulla disoccupazione dei giovani tra
i 15 e i 24 anni, che in Svizzera è solo del 3,6 % contro il 40 %
dell’Italia! (
Il Mondo, 9/9/2013).
Come ha fattola Svizzeraa realizzare queste straordinarie performance economiche? La verità è che la Confederazione Elvetica rappresenta un vero e proprio paradiso liberale, se paragonata all’Italia.
La tassazione
Benvenuti nel Paese con le tasse più basse d’Europa, titolava un recente articolo uscito su Il Sole-24 Ore.
La leggerezza del fisco elvetico è favorita dalla concorrenza fiscale
che si fanno i 26 cantoni per attrarre imprese e investimenti. Il fisco
svizzero agisce infatti su tre livelli: federale, cantonale e comunale.
L’imposta federale incide sul 7,83 % degli utili, quella cantonale varia
dal 4,4 al 19 %, quella comunale dal 4 al 16 %. In media quindi sulle
aziende l’erario esercita una pressione che varia tra il 16 e il 25 %,
sulle persone fisiche dal 5 al 20 %.
L’IVA è la più bassa d’Europa, all’8 % (contro il 22 % dell’Italia!), ma sui beni di consumo è al 2,5 %,
mentre l’istruzione e le cure mediche sono esenti. Non ci sono imposte
sulle successioni per i discendenti diretti. Alcuni Cantoni garantiscono
delle esenzioni fiscali per certi periodi o per certe attività, ed è
possibile stringere accordi con l’erario sulle tasse da pagare per gli
anni successivi.
Una notevole differenza con l’Italia riguarda il famigerato cuneo fiscale. Il datore di lavoro italiano farà un salto
sulla sedia quando scoprirà quanto pagano in tasse i colleghi della
Svizzera sugli stipendi dei dipendenti. «Per 1000 euro di salario il
datore di lavoro in Italia deve spenderne altri 1300, qui appena 200»,
spiega Gianluca Marano,
quarantenne di Milano che nel 2008 ha aperto a Chiasso una società di
consulenza per gli imprenditori e i privati che vogliono aprire
un’attività oltre il confine. Nel complesso il carico fiscale
complessivo delle aziende (
total tax rate) in Svizzera raggiunge al massimo il 28,7% del reddito d’impresa, contro l’incredibile 67,7 % dell’Italia, secondo i
dati della Banca Mondiale.
Non c’è quindi da meravigliarsi se negli ultimi anni centinaia di imprese italiane si sono trasferite nel Canton Ticino.
All’ingresso di Chiasso c’è un cartello che dice “Benvenuta impresa
nella città di Chiasso”. Uno dei tanti imprenditori italiani in
trasferta ha commentato: «Quando arriva un imprenditore in Svizzera lo
accolgono le autorità. In Italia gli mandano la guardia di finanza». Nel
complesso sono 558.000 gli italiani che risiedono in Svizzera, su una
popolazione di 8 milioni di abitanti, ai quali si devono aggiungere i
quasi
60.000 frontalieri che passano quotidianamente il confine per lavoro, aumentati del 75 % dal 2002 a oggi.
Di recente l’Ufficio Federale di Statistica ha svolto un’approfondita indagine sugli stipendi svizzeri.
I risultati confermano che in Svizzera si guadagna mediamente il doppio
o il triplo rispetto ai paesi confinanti: nel biennio 2007-2008 il
salario medio era infatti equivalente a circa 3000 euro mensili al netto
delle imposte. È vero che
il costo della vita è mediamente più alto che negli altri paesi europei,
tuttavia, rileva l’indagine, «in nessun caso è doppio o triplo. Per
fare un raffronto affidabile con gli altri paesi basti pensare che i
costi tra assicurazioni e imposte varie rappresentano in media circa il
30%-35% del budget totale di una persona, il resto serve per vivere».
Le pensioni
Probabilmente
non esiste al mondo un sistema pensionistico più ingiusto, rovinoso e
finanziariamente insostenibile di quello italiano. L’Inps si
fonda su un meccanismo diabolico che taglieggia i lavoratori privati per
concedere spropositati privilegi pensionistici alle categorie statali
privilegiate. La moria delle aziende è spesso dovuta all’impossibilità
di far fronte a un carico previdenziale completamente slegato dagli
utili prodotti, e la maggior parte delle cartelle esattoriali sono
costituite da contributi previdenziali non pagati. In Italia l’esosa
contribuzione previdenziale obbligatoria a carico degli artigiani e dei
commercianti, per non parlare di quella degli iscritti alla gestione
separata (prevista al 33% per il 2014), è la principale causa di
dissuasione dall’iniziare una nuova attività economica.
Il problema è che i lavoratori privati perdono la proprietà dei risparmi che versano all’Inps,
mentre la classe politico-burocratica riesce facilmente a dirottarli
verso le proprie tasche per mezzo di leggi, leggine e sentenze
amministrative. In sostanza, coloro che pagano i contributi e sostengono
l’intero sistema, i lavoratori autonomi e dipendenti del settore
privato, ricevono una pensione che rappresenta una frazione minuscola di
quanto hanno effettivamente versato; d’altro canto, alcune categorie
statali che non hanno mai versato contributi o che li versano solo in
maniera figurativa, come i politici, i magistrati, i militari e i
dipendenti pubblici in genere, si sono garantiti elevati trattamenti
previdenziali, vitalizi, pensioni d’oro, doppie, triple e baby.
Questi sperperi e queste palesi ingiustizie non possono esistere nel sistema pensionistico svizzero,
che si fonda su tre pilastri. Il primo è quello della pensione
pubblica, che richiede contributi obbligatori piuttosto limitati (il 4,2
% del reddito per il datore di lavoro e per il dipendente) e garantisce
solo il minimo fabbisogno vitale al momento della pensione. La pensione
pubblica è infatti quasi uguale per tutti: la minima è di 1105 franchi
al mese (poco più di 900 euro
al cambio attuale),
la massima è il doppio (2210 franchi, cioè 1813 euro). Sul piano
dell’equità non ci sono quindi paragoni con la distanza siderale che in
Italia separa il trattamento pensionistico di un pensionato sociale (500
euro al mese) da quello di un membro della casta politico-burocratica
(fino a 90.000 euro al mese, talvolta a partire dalla mezza età).
Il secondo pilastro pensionistico svizzero è quello della previdenza professionale, che a differenza della pensione pubblica
non è a ripartizione ma a capitalizzazione (si riceve cioè
l’investimento accumulato). I contributi per la previdenza professionale
sono in pratica obbligatori solo per i lavoratori dipendenti che
percepiscono un salario superiore a 20.000 franchi e inferiore a 82.000.
Per tutte le altre categorie, come quelle dei lavoratori autonomi,
questo tipo di assicurazione pensionistica è solo facoltativo. Infine,
il terzo pilastro pensionistico svizzero è quello della pensione
integrativa privata, che serve a colmare eventuali lacune; è facoltativa
ma viene favorita con delle agevolazioni fiscali.
Nel 2014 il sistema pensionistico svizzero è stato giudicato dal Global Retirement Index,
un indice che valuta 150 sistemi pensionistici internazionali, il
migliore del mondo quanto a capacità di garantire la sicurezza
finanziaria agli ex lavoratori. Fare ulteriori confronti con il sistema
pensionistico pubblico italiano, ricolmo di disparità e privilegi, e
destinato alla bancarotta a causa dei suoi colossali deficit, sarebbe
blasfemo.
La sanità
Se
il sistema sanitario italiano è ben conosciuto per i suoi enormi
sperperi, la corruzione, gli ospedali fatiscenti e le liste d’attesa
interminabili, niente di tutto questo si verifica nel sistema
sanitario svizzero, che è interamente privato e gestito dalle
assicurazioni. Il paziente paga mensilmente un’assicurazione
obbligatoria di circa 300 euro al mese, cifra nient’affatto elevata se
si tiene conto che in Svizzera gli stipendi sono mediamente molto più
alti che in Italia e le tasse molto più basse. Nessuno resta fuori
perché una società di “compensazione sociale” provvede a coprire le
spese di chi non può sostenerle. Il sistema svizzero è attentissimo ad
evitare gli sprechi, e per questa ragione è molto raro, ad esempio, che
un medico prescriva antibiotici.
L’assicurazione sanitaria privata comunque garantisce tutto, compreso il ricovero in ospedale in stanza singola
o con al massimo tre persone. Anche se si stenta a crederlo, quando un
paziente entra in ospedale per operarsi viene accolto da un infermiere
che, catalogo alla mano, gli chiede di scegliere quale stampa preferisce
avere sul muro (Picasso, Van Gogh, ecc.). Poi viene organizzato una
specie di seminario personale dove i medici spiegano al paziente tutti i
dettagli dell’intervento. Il paziente può scegliere di essere operato
dal primario oppure dall’assistente. Nel primo caso paga un surplus, ma
se quel giorno non c’è e opera un assistente (comunque sempre un medico
d’eccellenza) il supplemento viene immediatamente restituito con tante
scuse. Infine, l’assicurazione sanitaria spesso riduce il premio da
pagare a coloro che svolgono attività salutari, come frequentare la
palestra, la piscina o la sauna. Chi è più in forma, quindi, paga meno
per la sanità! (
Sanità? Vietato Sprecare, Il Fatto Quotidiano Zurigo, 12 aprile 2012)
Il mercato del lavoro
In Svizzera il mercato del lavoro, anche sotto il profilo dei licenziamenti, è molto liberale.
Solo in caso di malattia, incidente o gravidanza i lavoratori godono di
una protezione contro il licenziamento temporalmente limitata. Di
regola i lavoratori e i datori di lavoro sono liberi di licenziarsi o
licenziare nei termini concordati nel contratto di lavoro, o in mancanza
semplicemente rispettando i termini di disdetta previsti dal codice
delle obbligazioni. Questa grande flessibilità in entrata,
ricorda Paolo Malberti sul Corriere della Sera,
fa sì che «ogni giorno come apri il giornale sei subissato di annunci.
Se non ti trovi più bene dove stai, fai qualche colloquio e cambi ditta.
E con l’occasione puoi anche toglierti la soddisfazione di mandare il
capetto che te li ha rotti a quel paese».
In ogni caso per chi rimane senza lavoro non ci sono sussidi pubblici o casse integrazioni come in Italia,
che favoriscono senza ragione i dipendenti delle grandi aziende
rispetto a tutti gli altri. C’è invece un’assicurazione privata che
copre il rischio di rimanere disoccupati, usufruibile da chi ha lavorato
come dipendente in Svizzera per più di 12 mesi negli ultimi due anni.
Questa assicurazione contro la disoccupazione viene pagata con dei
contributi pari al 2 % dello stipendio, per metà a carico del datore di
lavoro e per metà a carico del lavoratore.
Il bello del mercato del lavoro svizzero è che le regole del settore privato non sono molto diverse
da quelle che valgono per il settore pubblico, comprese quelle sui
licenziamenti: ecco forse spiegata la ragione principale della
sorprendente efficienza della burocrazia svizzera. Tanto per fare un
paio di esempi,
ci vogliono solo due settimane per la registrazione al Registro del
Commercio e un solo giorno per immatricolare un veicolo. In Svizzera,
infatti, non esiste come in Italia il posto fisso a vita per il
dipendente pubblico che, in spregio a ogni sbandierato principio
costituzionale di uguaglianza, crea una società divisa in due caste: i
cittadini di serie A (gli statali ipertutelati qualunque cosa accada) e i
cittadini di serie B (i lavoratori privati assoggettati alle incertezze
dell’economia).
Negli ultimi decenni si è imposta infatti nella maggioranza dei cantoni e dei comuni svizzeri la tendenza
ad equiparare le condizioni di impiego degli impiegati pubblici a
quelle vigenti nell’economia privata. La Confederazione ha seguito
questa evoluzione con la
nuova legge sul personale federale entrata del 2002,
che ha abolito lo statuto di funzionario autorizzando così i
licenziamenti. Dal 1° luglio 2013 è entrata in vigore un’ulteriore
revisione legislativa che ha reso ancor più flessibile il rapporto di pubblico impiego.
In Svizzera comunque i dipendenti statali sono molto meno numerosi che in Italia: solo 1 su 47 abitanti, mentre in Italia sono 1 su 18
(1 su 23 in Lombardia). In particolare i dipendenti federali in
Svizzera sono circa 35.000, cioè uno ogni 200 abitanti: un rapporto che
esprime senza bisogno di troppe spiegazioni la leggerezza del governo
centrale nella confederazione elvetica. In sostanza la probabilità di
imbattersi in un dipendente pubblico svizzero è del 60 % inferiore
rispetto alla probabilità di imbattersi in un dipendente pubblico
italiano.
Quando le strade hanno cominciato a divergere?
Perché l’Italia è uno Stato fallito sull’orlo del crack, mentre la Svizzera è un successo planetario?
Se guardiamo alla storia, ci accorgiamo che le strade prese dai due
paesi hanno cominciato a divergere proprio negli anni dell’unità
d’Italia. In Svizzera le ultime turbolenze si ebbero nel 1848, nella
“guerra civile” del Sonderbund tra cantoni cattolici e cantoni
protestanti. Si trattò in realtà di uno scontro incruento, nel quale
morirono meno di cento persone e che durò solo 26 giorni. Alla fine
venne adottata una nuova costituzione, dopodiché la Svizzera imboccò
definitivamente la via della saggezza, della neutralità, del federalismo
e della riduzione ai minimi termini del governo centrale. Anche gli
italiani avrebbero potuto seguire la sorte felice degli svizzeri, se ai
tempi del Risorgimento fossero prevalse le idee di Carlo Cattaneo e di
coloro che proponevano un assetto confederale per l’Italia. Gli
avvenimenti presero purtroppo una piega opposta.
Un’interminabile serie di sciagure si sono infatti abbattute sugli italiani da quando la penisola
è stata forzosamente unificata per via militare dai Savoia. Fin da
subito le popolazioni del sud dell’Italia non accettarono la conquista
dei piemontesi, che avevano inasprito fortemente la tassazione e
introdotto la coscrizione obbligatoria, e si rivoltarono in massa.
Questa guerra civile durò una decina d’anni e, malgrado venga
minimizzata ancora oggi nei libri di testo come “lotta al brigantaggio”,
fu in verità il conflitto più cruento che si ebbe in Europa nel periodo
compreso tra le guerre napoleoniche e la prima guerra mondiale.
L’esercito piemontese represse la rivolta con lo stato d’assedio, i
campi di concentramento e la tattica della terra bruciata. Quante furono
di preciso le vittime tra la popolazione meridionale non si saprà mai,
ma le stime degli storici vanno dalle centomila (secondo Giordano Bruno
Guerri) al milione (secondo
La Civiltà cattolica).
Il 1874 può essere considerato l’anno simbolo della distanza ormai abissale che separava la Svizzera dall’Italia unita.
Una modifica della costituzione elvetica attribuì infatti ai cittadini
quel potere referendario di confermare, abrogare o proporre nuove leggi,
che ancora oggi rende la Svizzera famosa nel mondo. In quegli stessi
anni in Italia si era conclusa da poco la feroce repressione al sud, e
il Regno d’Italia era diventato uno degli stati più centralisti e
fiscalisti d’Europa. Come ricorda Gilberto Oneto, tra il 1860 e il 1880
la porzione di reddito nazionale assorbita dalla tassazione praticamente
raddoppiò. Fra il 1865 e il 1871 si ebbe un aumento del 63 % delle
imposte sul reddito e del 107% delle imposte sui consumi che gravavano
soprattutto sulle classi popolari, come l’odiata tassa sul macinato che
trasformava i mugnai in esattori, inaugurando la prassi italiana di
mettere cittadini contro altri cittadini. All’inizio degli anni Settanta
il ministro delle finanze Quintino Sella ammise che l’Italia era il
paese più tassato al mondo. Nel 1892 la pressione fiscale raggiunse il
18 % del pil contro il 7 % dell’Inghilterra e il 10 % della Germania.
La tassazione eccessiva provocò la rovina dell’economia italiana, e con essa un fenomeno sconosciuto prima dell’unità:
l’emigrazione di massa all’estero degli italiani. Tra il 1876 e il 1914
emigrarono 14 milioni di italiani, su una popolazione che nel 1881 era
di poco superiore a 29 milioni. All’inizio gli emigranti partirono
soprattutto dalle regioni del nord, in particolare dal Veneto. Il grande
esodo meridionale cominciò con l’adozione delle tariffe
protezionistiche del 1887, che colpirono soprattutto l’agricoltura del
sud, gettando nella disperazione milioni di persone già oberate dalle
tasse italiane e dalla pesante novità del servizio di leva, che
distraeva per anni dai lavori nei campi le braccia migliori (G. Oneto,
La questione settentrionale, 2008, p. 152, 154).
Il Regno d’Italia era anche uno Stato militarista e guerrafondaio: sentendosi grande e forte,
si lanciò in una serie continua di guerre che mai i piccoli Stati
preunitari si sarebbero sognati di intraprendere. Dal 1861 al 1871
impegnò metà dell’esercito nella repressione della rivolta delle regioni
del sud; nel 1866 entrò nella terza guerra d’Indipendenza senza alcun
motivo (dato che l’Austria aveva già offerto il Veneto al Regno d’Italia
in cambio della sua neutralità), rimediando alcune cocenti sconfitte;
poi cominciò l’epoca delle sciagurate avventure coloniali in Somalia ed
Eritrea, culminate con l’umiliante disfatta di Adua nel 1896, e in Libia
nel 1911.
Per gli abitanti della penisola, comunque, le disgrazie non erano finite. Nel 1915 il governo italiano non seguì il saggio
esempio di neutralità della Svizzera, e si gettò a cuor leggero nella
fornace della prima guerra mondiale. Milioni di coscritti, quasi tutti
poveri contadini, vennero spediti a morire nelle trincee. Quelli che
cercavano di salvarsi la vita disertando o rifiutandosi di avanzare
sotto il fuoco nemico venivano fucilati dai carabinieri che sparavano a
vista sui “codardi”, o dai plotoni d’esecuzione che per punizione
decimavano interi reparti. In questa “inutile strage” il Regno d’Italia
sacrificò la vita di quasi settecentomila italiani, mentre un numero più
che doppio di giovani rimasero feriti o mutilati.
Seguirono i vent’anni del fascismo, che dichiarava di voler portare a compimento la rivoluzione nazionale del Risorgimento,
e la catastrofe immane della seconda guerra mondiale, che lasciò
l’Italia completamente distrutta. Nel 1948 l’Italia evitò per un soffio
di diventare una dittatura comunista di tipo staliniano, ma nei
vent’anni successivi l’adozione di politiche economiche più liberali
generò il cosiddetto “miracolo economico”. Forse è stato questo l’unico
periodo positivo della storia dell’Italia unita. Nel 1968 si aprì
infatti la stagione degli anni di piombo, del terrorismo e della crisi
economica. Chiuso questo tragico periodo, negli anni Ottanta ebbe inizio
l’epoca dell’esplosione della spesa statale, del debito pubblico, della
tassazione e della corruzione, che ci ha portato alla crisi dei giorni
nostri.
Il verdetto della storia sembra chiaro. In 150 anni di vita lo Stato nazionale ha dato agli italiani
soprattutto due cose, morte e tasse. È venuto il momento di ripudiare
questo esperimento fallimentare, questa parentesi sbagliata della nostra
storia, e di rivendicare quella vocazione pluralistica e quelle libertà
che hanno reso grande non solo la Svizzera, ma anche la civiltà
italiana nei secoli passati.