Per citare due esempi: dal concetto militare di patria, veicolato attraverso il servizio di leva, alla concezione localistica del mercato, delineata dai dazi e dal mito del “prodotto nazionale”.
A questo si aggiungevano la difficoltà di viaggiare all’estero, dovuta sia agli impedimenti doganali che agli alti costi dei trasporti, e la quasi impossibilità di reperire informazioni da altre nazioni se non attraverso il filtro della stampa, di nuovo, nazionale.
Pleonastico far notare che il mondo, e anche la penisola italica, sono un po’ cambiati.
Dal 2005 il servizio di leva è stato definitivamente abolito, ma già da diversi anni i contingenti erano scesi ben al di sotto della media di 800.000 – 1.000.000 degli anni ’80. Questo significa che intere generazioni, dai nati dei primi anni ’80, crescono senza essere militarmente indottrinati alla difesa della patria unita. Cresce invece il progetto di scambio per studenti Erasmus, che ha superato in Italia quota 20.000.
Il 40% degli italiani oggi è in grado di comprendere almeno una lingua straniera. Molto sotto la media europea, comunque nettamente superiore ai livelli riscontrabili fino a una trentina di anni fa.
Il traffico aereo in Italia è cresciuto dai 60 milioni del 2001 ai 116 del 2012, nonostante la crisi e in buona parte grazie alle low cost.
Gli italiani si spostano di più, e quando si spostano sono spesso (non ancora abbastanza) in grado di comprendere ed esprimersi.
Per non dire dell’enorme aumento di scambio di merci e servizi permesso dall’allentamento delle frontiere, non solo in area comunitaria.
I confini culturali dello stato-nazione cominciano a vacillare. Il colpo più duro, però, viene inferto dalla rete, da questa famigerata internet.
Usciamo per un attimo dagli angusti confini dell’Italia e proviamo a paragonare le grandi realtà di questo mondo agli stati-nazione.
Se gli utenti di Facebook fossero tutti cittadini con lo stesso passaporto, il popolare social network contenderebbe all’India il ruolo di seconda nazione più popolosa del pianeta.
Se il fatturato di Apple fosse il PIL di un Paese, questo si posizionerebbe a metà fra Kuwait (esportatore di petrolio) e Nuova Zelanda (spesso citata come esempio di crescita e libertà di intraprendere).
Ogni mese 1,1 miliardi di persone effettuano 114 miliardi di ricerche su 60 trilioni di pagine web attraverso Google: non esiste niente di paragonabile.
Ci sono poi le voci di Wikipedia, i cinguettii di Twitter, i messaggi su Whatsapp, le foto su Instagram…
Un immenso mare di informazioni a disposizione di individui che parlano più lingue, viaggiano e sono stati solo parzialmente indottrinati al concetto di stato-nazione. Dirompente.
Il segnale più autentico di quanto questo stia per cambiare la visione stessa dell’organizzazione territoriale dell’Italia e del mondo viene da due indizi fondamentali: il primo è che in ogni recente moto di ribellione la rete ha avuto un ruolo fondamentale.
Il secondo risiede nella reazione, a volte aggressiva e spesso scomposta, che gli apparati degli stati-nazione stanno palesando nei confronti della rete. Facile citare le censure iraniane o cinesi, ma non dimentichiamoci che viviamo nel paese che sta per applicare la web tax.
Se in Italia c’è una certa libertà di espressione, lo stesso non vale per il commercio. I nostri brillanti amministratori hanno quindi pensato di applicare a un’economia di scambio liquida e a-nazionale i vecchi criteri di territorialità da economia industriale, nella vana illusione che si possano imporre le dogane al web. Come cercare di fermare un proiettile con la carta igienica: il mondo sta cambiando e lo stato-nazione cesserà presto di esistere, in buona parte anche grazie alla rete.
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