Le università USA sono in crisi ed alla ricerca di un nuovo ruolo, anche quelle più prestigiose sfornano ormai prevalentemente disoccupati, e le rette estremamente onerose allontanano gli studenti e riducono gli iscritti ... |
Scritto da Michele Marsonet | |||||||||
Fonte: Legno Storto, quotidiano http://www.legnostorto.com/index.php | |||||||||
In
America, in altri termini, si sta verificando un fenomeno assai simile
a quello sperimentato da tempo nel nostro Paese. Le iscrizioni
diminuiscono in modo costante anno dopo anno e molti laureati, oltre a
non essere in grado di restituire il denaro ricevuto all’inizio, vanno
ad alimentare il serbatoio della disoccupazione. E, in questo caso, non
si parla dei tipici disoccupati senza qualificazione professionale, ma
di laureati che non riescono a trovare sbocco nel mercato del lavoro.
Il
sistema universitario americano è diverso da quello italiano. Mentre
il nostro è quasi totalmente pubblico, con pochi atenei nominalmente
privati che comunque attingono in maniera rilevante ai denari pubblici
del Fondo di finanziamento ordinario (FFO), quello americano è misto. I
risultati però non cambiano, se è vero che, secondo un recente
sondaggio effettuato negli USA, il 18% delle università private e il
15% di quelle pubbliche ammette un calo degli incassi dovuto tanto alla
diminuzione delle iscrizioni quanto al rifiuto di aumentare le rette
che sono già percepite come troppo alte.
Un fatto
nuovo dev’essere però sottolineato. E’ noto che negli Stati Uniti
esiste la “Ivy League” formata dalle università più celebri e,
immediatamente a ridosso, una nutrita schiera di altre istituzioni che
possono pur sempre vantare un prestigio nazionale e internazionale di
grande rilievo. Un esempio è la New York University (NYU) che negli
ultimi decenni ha scalato la classifica arrivando a posizioni di
primaria importanza. In precedenza chi si laureava in un ateneo di
questi due gruppi era in pratica sicuro di ottenere un buon lavoro alla
fine degli studi. Ora non più. La performance è ancora discreta per
quanto riguarda i settori scientifico-tecnologici, per gli altri le
vecchie garanzie stanno diventando un bel ricordo. Non a caso Gaggi cita
proprio la summenzionata New York University. Circola la battuta che
il suo acronimo – NYU – stia per “Now yuo’re unemployed”, ossia “Ora
sei disoccupato”. E il fenomeno si sta estendendo, sia pur lentamente,
anche a santuari del sapere quali Columbia, Harvard, Yale etc.
Senza
dubbio un cambiamento epocale che, fatte le debite differenze,
rammenta la situazione italiana. «Non conta più il blasone dell’ateneo
al quale ci si iscrive – sostiene Gaggi – ma il mestiere al quale ci si
prepara». Un fatto che ho già messo in rilevo nel mio articolo
precedente. La diminuzione delle iscrizioni si deve agli scarsi
rapporti tra la programmazione e l’offerta formativa universitaria da
un lato, e le reali esigenze del mercato del lavoro dall’altro.
Si
può infine aggiungere un’ulteriore considerazione non trattata
nell’articolo del “Corriere”. La crisi del sistema universitario in
Europa e USA non trova riscontro in altre nazioni che solitamente si
definiscono “emergenti”. La Cina, per esempio, sta conducendo in questo
campo una politica molto dinamica che ha consentito di attrarre docenti
e studenti stranieri. Lo stesso vale per l’India, Singapore, i Paesi
del Golfo e alcune nazioni del Sud America (Brasile in testa). Anche
l’istruzione universitaria risente insomma degli effetti della
globalizzazione, ed è importante che governi, politici e addetti ai
lavori ne tengano conto.
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