Benvenuti nel Blog di Claudio Martinotti Doria, blogger dal 1996
"Non nobis Domine, non nobis, sed nomini Tuo da gloriam", motto dell'Ordine dei Cavalieri Templari, Pauperes commilitones Christi templique Salomonis
"Ciò che insegui ti sfugge, ciò cui sfuggi ti insegue" (aneddotica orientale, paragonabile alla nostra "chi ha pane non ha denti e chi ha denti non ha pane")
"Quello che mi ha sorpreso di più negli uomini dell'Occidente è che perdono la salute per fare soldi. E poi perdono i soldi per recuperare la salute. Pensano tanto al futuro che dimenticano di vivere il presente in tale maniera che non riescono a vivere nè il presente nè il futuro. Sono come se non dovessero morire mai e muoiono come se non avessero mai vissuto." (Dalai Lama)
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L'Italia non è una nazione ma un continente in miniatura con una straordinaria biodiversità e pluralità antropologica (Claudio Martinotti Doria)
Il proprio punto di vista, spesso è una visuale parziale e sfocata di un pertugio che da su un vicolo dove girano una fiction ... Molti credono sia la realtà ed i più motivati si mettono pure ad insegnare qualche tecnica per meglio osservare dal pertugio (Claudio Martinotti Doria)
Lo scopo primario della vita è semplicemente di sperimentare l'amore in tutte le sue molteplici modalità di manifestazione e di evolverci spiritualmente come individui e collettivamente (È “l'Amor che move il sole e le altre stelle”, scriveva Dante Alighieri, "un'unica Forza unisce infiniti mondi e li rende vivi", scriveva Giordano Bruno. )
La leadership politica occidentale è talmente poco dotata intellettualmente, culturalmente e spiritualmente, priva di qualsiasi perspicacia e lungimiranza, che finirà per portarci alla rovina, ponendo fine alla nostra civiltà. Claudio Martinotti Doria
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Come valorizzare il Monferrato Storico
… La Storia, così come il territorio e le sue genti che l’hanno vissuta e ne sono spesso ignoti ed anonimi protagonisti, meritano il massimo rispetto, occorre pertanto accostarsi ad essa con umiltà e desiderio di apprendere e servire. In questo caso si tratta di servire il Monferrato, come priorità rispetto a qualsiasi altra istanza (personale o di campanile), riconoscendo il valore di chi ci ha preceduti e di coloro che hanno contribuito a valorizzarlo, coinvolgendo senza preclusioni tutte le comunità insediate sul territorio del Monferrato Storico, affinché ognuna faccia la sua parte con una visione d’insieme ed un’unica coesa identità storico-culturale condivisa. Se ci si limita a piccole porzioni del Monferrato, per quanto significative, si è perdenti e dispersivi in partenza.
Sarà un percorso lungo e lento ma è l’unico percorribile se si vuole agire veramente per favorire il Monferrato Storico e proporlo con successo come un’unica entità territoriale turistico culturale ed economica …
Per l'Italia nonostante le apparenze si avvicina sempre più il rischio di seguire il destino della Grecia
Come è già accaduto ad Atene, la sfiducia nello Stato e l'illegalità dilagante stanno per portare anche il nostro paese a una fase terminale. E invece di affrontare l'evasione e la corruzione, il governo ha tagliato lo Stato sociale. Una strategia che potrebbe ucciderci con la corda dei nostri vizi storici.
di Roberto Scarpinato,
Procuratore generale presso la Corte di Appello di Caltanissetta
da il Fatto Quotidiano del 15 marzo 2012
http://www.ilfattoquotidiano.it
Le misure di austerità, inevitabili e necessarie sono irrealizzabili senza una democrazia funzionante e una classe politica incorrotta. Ambedue le cose mancano in Grecia, a causa di una storia postbellica caratterizzata da profonda sfiducia nello Stato e da una cultura della legalità inesistente”. Con queste parole, riportate da Barbara Spinelli in un suo articolo, Alexis Papahelas, direttore del quotidiano Kathimerini, nel giugno 2010 pronosticava l’irredimibilità della crisi del suo paese, individuandone le cause in un male interno – sfiducia nello Stato e illegalità dilagante – giunto ormai alla sua fase terminale. Il caso greco offre importanti spunti di riflessione per l’Italia, paese nel quale la cultura della legalità è pure pressoché inesistente come attestano, tra i tanti indicatori, le dimensioni di massa della corruzione e dell’evasione fiscale e, soprattutto, lo statuto impunitario garantito a corrotti ed evasori da una successione di leggi che nel loro sapiente e progressivo stratificarsi hanno dato vita a un sistema che, come ha recentemente dichiarato il ministro della Giustizia Paola Severino, “scoraggia gli investitori premiando i corrotti e chi non paga, penalizzando le persone oneste”.
Chi conosce la storia italiana sa che corruzione ed evasione fiscale sono componenti risalenti e stabili della costituzione materiale del paese, con le quali, il sistema Italia ha imparato a convivere pagando prezzi altissimi. Analoghe considerazioni valgono per il male di mafia che, oggi come ieri, nonostante i successi ottenuti nel contrasto alla mafia militare, continua purtroppo a restare pressoché intangibile nel suo cuore di tenebra che si annida all’interno della c.d. borghesia mafiosa, nucleo duro e stabile di un potente blocco sociale in grado di aggregare e orientare quote rilevanti di consenso sociale nel libero gioco democratico.
Siamo tuttavia entrati in una fase storica nuova nella quale le vecchie strategie di sopravvivenza messe a punto nella Prima Repubblica, sono divenute impraticabili, sicché il paese, a meno che non si ponga in essere una brusca inversione di tendenza, rischia di avviarsi sulla via della grecizzazione, nonostante le nuove politiche di austerità. Nell’Italia degli anni del boom economico, i costi globali di corruzione, evasione fiscale e mafie furono metabolizzati e riassorbiti grazie a un ciclo economico espansivo talmente elevato da consentire di accumulare comunque le risorse fiscali necessarie per impiantare lo Stato sociale e per garantire una redistribuzione dei redditi che finanziava la capacità di spesa e di consumo delle masse popolari, contribuendo alla crescita del mercato interno nazionale.
Dopo la chiusura di quella fortunata parentesi storica, iniziò una seconda fase, protrattasi sino agli inizi degli anni Novanta, nella quale per compensare il mancato introito fiscale dovuto all’evasione, per finanziare gli enormi costi della corruzione e per continuare a gestire la spesa pubblica come instrumentum regni, si fece ricorso sempre più massiccio all’inflazione. Il ricorso alle svalutazioni competitive della lira consentiva inoltre di rimettere in pari il bilancio del commercio estero. Si trattava di un’economia in buona misura drogata che teneva a galla un paese che aveva messo a punto una ricetta di breve termine per coniugare illegalità di massa ed economia all’interno di un sistema domestico che poteva autogestirsi contando su risorse illimitate, grazie alle carte truccate di cui si è detto. E fu soprattutto a causa di tali carte truccate che il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo passò da quota 62,4% del 1979 a quota 124,2% nel 1994. Il libero mercato fondato sulla concorrenza garantita dal rispetto di regole legali era stato progressivamente sostituito, in molti comparti importanti, da un arcipelago nazionale di mercati protetti, soggetti a barriere di ingresso, e che si autoregolavano secondo codici illegali alternativi, finalizzati a eliminare i costi e i rischi della concorrenza, scaricando enormi oneri economici sul bilancio statale. La tempesta di Tangentopoli mise a nudo nel settore dei pubblici appalti, una delle tante declinazioni di una economia assistita e illegale che aveva eliminato la selezione meritocratica nel mondo delle imprese, rendendo superfluo l’investimento in innovazione e ricerca. Tutto si giocava sul terreno degli accordi collusivi, chi entrava a farne parte aveva una rendita di posizione garantita.
Anche l'evasione di massa faceva parte della costituzione materiale del paese sulla base di un tacito patto collusivo tra classe politica e imprenditoriale secondo cui si chiudevano entrambi gli occhi sulle tasse evase sui profitti di impresa che venivano utilizzati, oltre che per finanziare le tangenti per la corruzione, anche per compensare l’esborso degli oneri fiscali sui costi del lavoro subordinato e per garantire il livello delle retribuzioni. Il sistema Italia così descritto consentiva anche la coesione Nord-Sud all’insegna di reciproche convenienze. La spesa pubblica, alimentata pro quota anche con i prelievi fiscali effettuati al Nord del paese, veniva utilizzata al Sud per finanziare enormi reti clientelari, garanzia di un voto di scambio fidelizzato che assicurava il consenso elettorale ai partiti di maggioranza. Dalla metà degli anni Novanta siamo entrati in una terza fase storica estremamente pericolosa perché da una parte la corruzione, l’evasione fiscale, il management del sottosviluppo e le mafie restano realtà costanti e anzi ingravescenti, dall’altra sono venute meno tutte le leve alle quali il sistema Italia aveva affidato la sua strategia di sopravvivenza per coniugare illegalità di massa ed economia.
Il punto di svolta si è verificato a seguito dell’adesione dell’Italia al Trattato di Maastricht che ha posto fine alle svalutazioni competitive e, imponendo rigorosi vincoli ai bilanci statali dei paesi aderenti, ha impedito di finanziare la continua lievitazione della spesa pubblica tramite il ricorso all’inflazione. Come si fa allora a sostenere gli enormi costi macroeconomici generati dal male italiano? Come finanziare un debito pubblico che nel 2011 ha toccato l’ennesimo record arrivando a quota 1890,60 miliardi di euro? Dove reperire i fondi necessari per compensare il mancato introito annuo di 120 miliardi evasione fiscale? I capitali italiani illecitamente esportati all’estero e sui quali i proprietari non hanno pagato un centesimo al fisco si aggirano tra i 500 e i 700 miliardi.
Nelle casse dello Stato sono venuti a mancare 230 miliardi di introiti fiscali, tutta liquidità immediata che se correttamente investita per sostenere lo Stato sociale e per rilanciare la politica industriale, ci avrebbe consentito di restare alla pari della Germania, paese che non essendo zavorrato dagli enormi costi macroeconomici dell’illegalità di massa, ha brillantemente superato la crisi internazionale garantendo la piena occupazione e salari per il lavoro dipendente doppi rispetto a quelli italiani. E dove trovare i fondi necessari per compensare i costi macroeconomici di 60 miliardi di euro della corruzione, in gran parte impunibile grazie alla legalizzazione del conflitto di interessi, cioè dell’interesse privato in atti di ufficio, e alla costruzione di un vero e proprio scudo impunitario per il vastissimo universo sociale che vive dell’indotto della corruzione? Una corruzione che condanna al rachitismo il mercato interno e il tessuto imprenditoriale nazionale perché premia e rende vincente la parte più spregiudicata del mondo imprenditoriale: quella che sbaraglia la concorrenza e abolisce la selezione meritocratica utilizzando le carte truccate delle relazioni collusive con il mondo politico e amministrativo, per ottenere commesse pubbliche, finanziamenti, erogazioni del credito, le licenze necessarie per avviare e gestire l’attività. Così come negli anni Ottanta e Novanta, la corruzione resta la madre della creazione di mercati protetti, della costruzione di oligopoli, della ibridazione tra colletti bianchi del mondo politico-imprenditoriale e quelli della mafia.
Non essendo possibile intervenire per debellare la corruzione, divenuto purtroppo un rimosso e spinoso affare di famiglia trasversale alle classi dirigenti nazionali, non essendo altresì possibile intervenire incisivamente sull’evasione fiscale e su altre illegalità di massa, perché ritenuto penalizzante sotto il profilo del ritorno elettorale, si è così scelta una terza via: invece di tagliare i costi dell’illegalità, si sono tagliati i costi dello Stato sociale e gli investimenti destinati a innovare e rendere competitivo il sistema imprenditoriale del paese. Tagli alla scuola pubblica, ai fondi per la ricerca, ai servizi degli enti locali, alla sanità, riduzioni e congelamenti di stipendi eccetera.
Strategia perdente che rischia di strangolare il paese con la corda dei suoi vizi storici, avviandolo sulla strada di una occulta grecizzazione. Il taglio lineare delle provvidenze dello Stato sociale, al netto della razionalizzazione delle risorse e della eliminazione degli sprechi, ha determinato, infatti, come immediato contraccolpo, l’impoverimento del ceto medio e delle masse popolari la cui capacità di spesa e di consumo è stata sempre più compressa dalla triplice tenaglia della riduzione delle retribuzioni (le più basse in Europa), dell’incremento del carico fiscale diretto e da quello indiretto (Iva, tasse sulla benzina e sull’energia), e infine, della necessità di pagare servizi prima gratuiti o garantiti a prezzo politico dallo Stato sociale (dagli asili nido, all’assistenza agli anziani, dall’aumento del ticket sanitario ai costi dei trasporti pubblici e via elencando). La riduzione coatta dei consumi di massa determina la conseguente riduzione degli ordinativi e il calo della produzione. Producendo meno le imprese versano minori imposte allo Stato, innescando così un avvitamento recessivo sempre più pericoloso.
L’impossibilità, per i motivi che si è detto, di porre fine allo statuto impunitario di cui gode il vastissimo popolo che vive dell’indotto della corruzione e del management del sottosviluppo, vota all’insuccesso anche quel residuo di politica keynesiana che mira al rilancio dell’economia mediante nuovi investimenti nelle opere pubbliche e nel sostegno allo sviluppo delle imprese, anche grazie all’utilizzo dei fondi comunitari. Come la lezione dell’esperienza, insegna, immettere soldi pubblici in canali istituzionali infestati da enormi ragnatele corruttive e clientelari, equivale infatti a pompare acqua in un sistema idrico le cui condutture sono fuori controllo e lungo il cui percorso è costante il pericolo di emungimenti e allacci abusivi, sicché alla fine del percorso l’acqua che arriva a destinazione è troppo scarsa per irrigare i campi, per dissetare la popolazione e, talora, è pure infetta.
Esiste dunque in Italia una inscindibile correlazione tra questione economica e questione dell’illegalità che consente di replicare per il nostro paese la stessa diagnosi che nel 2010 Alexis Papahelas formulò per la Grecia. Non per problemi etici, né per problemi di giustizia, ma per evitare che la sindrome greca continui a pregiudicare e forse a compromettere definitivamente la ripresa economica del paese, precipitandolo in una spirale di declino irreversibile, la vera sfida con la quale deve misurarsi oggi il governo Monti, e con la quale dovrà misurarsi domani chiunque avrà la guida del paese, si muove dunque sul terreno ineludibile del ripristino della legalità e del principio di responsabilità, coniugando legalità e sviluppo, Stato regolatore e libero mercato.
Hanno scoperto che le grandi banche d'affari sono prive di etica ... Ci voleva un dipendente disgustato dotato di coscienza per rivelarlo
Scritto da Greg Smith
Greg Smith - The New York Times.
tradotto da ComeDonChisciotte.org www.comedonchisciotte.org
Oggi è il mio ultimo giorno a Goldman Sachs. Dopo quasi dodici anni in azienda - prima come tirocinante estivo mentre ero a Stanford, poi a New York per dieci anni, e ora a Londra - credo di aver lavorato abbastanza a lungo per comprendere la traiettoria della sua cultura, della sua gente e della sua identità. E posso dire onestamente che l'ambiente ora è tossico e distruttivo come non l’ho mai visto prima.
Per spiegare la cosa nel modo più semplice, gli interessi del cliente continuano ad essere secondari rispetto al modo in cui opera questa azienda e al pensiero di guadagnare soldi. Goldman Sachs è una delle più grandi e più importanti banche d’investimento al mondo ed è troppo integrale alla finanza globale per poter continuare ad agire in questo modo. La compagnia ha cambiato rotta da quanto ci sono entrato subito dopo l’università, e in buona coscienza non posso dire di potermi identificare con quello che rappresenta.
È probabile che tutto ciò sia sorprendente per il pubblico scettico, ma la cultura è sempre stata una parte vitale del successo di Goldman Sachs. Si basava sul lavoro di gruppo, l'integrità, sull'umiltà, facendo sempre le cose giuste per i clienti. La cultura era la ricetta segreta che fatto grande questa azienda e che ci ha consentito di guadagnare la fiducia dei nostri clienti per 143 anni.
Non si tratta solo di soldi; questi non possono sostenere una ditta così a lungo. Si parla di orgoglio e della fiducia dell'organizzazione. Sono triste nel dire che, osservandola oggi, non riesco a vedere traccia della cultura che mi ha fatto amare il lavoro in per questa compagnia per tanti anni. Non ho più l'orgoglio, o la convinzione.
kerlow-popupMa le cose non sono sempre state così. Per più di un decennio ho selezionato e formato i candidati con le nostre estenuanti interviste. Sono stato scelto per essere una delle dieci persone (in un’azienda con più di 30.000 dipendenti) che dovevano apparire sul nostro video per le assunzioni, che viene trasmesso in tutti i campus universitari che visitiamo nel mondo intero. Nel 2006 ho gestito il programma interno estivo per le vendite e il trading a New York per 80 studenti universitari che erano stati scelti, tra le migliaia che si erano proposti.
Ho capito che era giunto il tempo di andarsene quando ho capito che non potevo più guardare gli studenti negli occhi e dirgli quanto fosse bello lavorare per loro.
Quando i libri di storia parlano di Goldman Sachs, potrebbero segnalare che l’attuale direttore esecutivo, Lloyd C. Blankfein, e il presidente, Gary D. Cohn, hanno perso contatto con la cultura dell’azienda. Io credo fermamente che questo declino nella fibra morale dell’azienda rappresenta la minaccia più forte alla sua sopravvivenza nel lungo termine.
Nel corso della mia carriera ho avuto il privilegio di prestare consulenza a due dei maggiori hedge fund del pianeta, a cinque dei più grandi gestori di asset degli Stati Uniti, e a tre dei più importanti fondi sovrani del Medio Oriente e dell’Asia. I miei clienti hanno una base totale di asset superiore al trilione di dollari. Ho sempre provato un forte orgoglio nel consigliare i miei clienti sulle cose migliori per loro, anche se ciò comportava minori entrate per la mia azienda. Questo approccio è diventato sempre più impopolare a Goldman Sachs. Un altro segnale che era ora di andarsene.
Come siamo arrivati a questo punto? La compagnia ha cambiato il modo di concepire la leadership. Prima si basava sulle idee, dando l’esempio e facendo le cose nel modo corretto. Oggi, se guadagni abbastanza soldi per l’azienda (anche senza essere un boia), vieni promosso in una posizione influente.
Tre modi rapidi per diventare un dirigente? a) seguire le "asce" aziendali, che è il modo gergale in Goldman per persuadere i clienti a investire in azioni o in altri prodotti che stiamo tentando di liberarci perché loro vengono hanno un gran profitto potenziale; b) "Caccia agli Elefanti." In inglese: porta i tuoi clienti – alcuni dei quali sono sofisticati, mentre altri non lo sono – a trattare qualsiasi cosa che porti il maggior profitto a Goldman. Chiamatemi fuori moda, ma non mi piace vendere ai miei clienti un prodotto che è sbagliato per loro. c) Cerca di metterti in una posizione per poter scambiare prodotti illiquidi e opachi con un acronimo di tre lettere.
Oggi, molti di questi dirigenti annoverano un tasso di cultura di Goldman Sachs pari allo zero. Io partecipo alle riunioni per le vendite dei derivati in cui non viene impiegato un solo minuto per domandarsi come aiutare i clienti. Si parla solo di come riuscire a guadagnare da loro più soldi possibile. Se tu fossi un alieno che arriva da Marte e che si trova in mezzo a una di queste riunioni, crederesti che il successo o i progressi di un cliente non fanno parte dell’analisi del pensiero.
Mi fa stare male quando le persone parlano senza remore di ingannare i propri clienti. Negli ultimi dodici mesi ho visto cinque diversi direttori esecutivi definire i propri clienti "pupazzi", qualche volta nelle mail interne. Anche dopo il S.E.C., Fabulous Fab, Abacus, il lavoro di Dio, Carl Levin, i Calamari Vampiro? Umiltà uguale a zero? Non è possibile. Integrità? Sempre meno.
Non so se ci siano state condotte illegali, ma esistono persone che spingono per vendere ai clienti prodotti remunerativi e complicati, anche se non sono gli investimenti più semplici o quelli più direttamente corrispondenti ai loro obbiettivi? Certo che sì. Tutti i giorni.
Mi sbalordisce come gli alti funzionari non riescano a recepire una verità spicciola: se i clienti non si fidano, alla fine smetteranno di fare affari con te. Non importa quanto sei intelligente.
Questi giorni, la domanda più frequente sui derivati che mi viene fatta dagli analisti junior è, "Quanti soldi guadagniamo dal cliente?" Mi infastidisce ogni volta che lo sento dire, perché è un riflesso di ciò che stanno osservando dai loro dirigenti sul modo di comportarsi. Ora facciamo un salto di dieci anni nel futuro: non è necessario essere un fisico nucleare per dedurre che un’analista appena entrato che siede tranquillo nell'angolo della stanza, sentendo parlare di "fantocci", "strappare gli occhi dalle orbite" e di “farsi pagare", non diventi esattamente un cittadino modello.
Quando ero analista nel primo anno non sapevo neppure dov’era il bagno, o come allacciarmi le scarpe. Mi fu insegnato che dovevo preoccuparmi di imparare le basi, di scoprire cosa è un derivato, capire la finanza, di cercare di conoscere i nostri clienti e cosa li motiva, di imparare il modo in cui concepiscono il successo e come riuscire ad aiutarli per arrivarci.
I momenti di cui vado più fiero – quando ho ottenuto una borsa di studio per andare dal Sud Africa alla Stanford University, quando sono stato selezionato come finalista nazionale dei Rhodes Scholar, quando ho vinto la medaglia di bronzo di tennis tavolo ai Giochi Maccabei in Israele, noti come Olimpiadi Ebree – hanno tutti a che fare col a lavoro duro, senza scorciatoie. Oggi Goldman Sachs si basa troppo sui propri progressi. È una cosa che non mi sembra più giusta.
Spero che questa possa essere una sveglia per il consiglio d’amministrazione. Riportare il cliente ad essere il centro focale dell’impresa. Senza clienti non si fanno soldi. Alla fine, scompari. Vanno diserbate le persone moralmente fallite, indipendentemente da quanti soldi guadagnano per l’azienda. E riportare la cultura giusta, per fare in modo che le persone vogliano lavorarci per le giuste motivazioni. Le persone che si preoccupano solo di fare soldi non sosterranno questa compagnia - o la fiducia dei suoi clienti - per molto tempo.
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Oggi Greg Smith si è dimesso dalla posizione di funzionario esecutivo di Goldman Sachs e direttore della sezione statunitense dei derivati azionari per Europa, Medio Oriente e Africa.
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Fonte: Why I Am Leaving Goldman Sachs, The New York Times, 14.03.2012.
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE.
Lingua piemontese ancora discriminata, bandiera piemontese nascosta. Lo stato continua ad umiliare e denigrare il piemontese
Ciò che non funziona è che la ratifica della Carta da parte dell’attuale governo (non eletto, ma sostenuto da una sorta di “partito unico” comprendente quasi tutte le forze politiche) poggia sulla contestata e arbitraria lista di 12 minoranze linguistiche ricompresa nella Legge 482/99, la quale ha scandalosamente escluso le altre lingue parlate nello Stato italiano riconosciute dall’UNESCO: 31 in tutto, fra le quali il Piemontese.
Proprio la lingua piemontese, unanimemente riconosciuta quale lingua autonoma dai più eminenti glottologi di tutto il mondo, è stata in questi anni bersaglio di ripetuti affronti, dalla sua esclusione nella redazione della “lista” del ’99 alla sentenza politica del 2010 della corte costituzionale, che si è spinta su un terreno non di sua competenza giungendo a definire il piemontese addirittura “variante della lingua italiana” (sic!), obbligando (?) la Regione Piemonte a disconoscere una lingua della quale aveva preso atto dal ’97.
Questo passo fa peraltro seguito all’esclusione dalla legge statale (la 482/99) e, ancora più indietro, alla tristissima vicenda della ricusazione della legge “Calsolaro” sull’insegnamento del piemontese a scuola. Alla metà degli anni Settanta per ben due volte il governo italiano promosse e vinse il ricorso all’ineffabile corte contro la nostra lingua, mentre il medesimo governo si guardava bene dal promuoverne la tutela, come pure sarebbe stato suo dovere fare. Nel frattempo sono passate due generazioni, i locutori sono costantemente diminuiti e la strategia temporeggiatrice dell’Italia nei nostri confronti continua come prima.
In altre parole, l’Italia (con le sue istituzioni politiche, che ne rappresentano l’incarnazione) sta procedendo alla nostra eutanasia in quanto popolo.
Giunti a questo punto occorre riflettere.
Il definitivo disconoscimento della lingua piemontese da parte della Repubblica Italiana la estromette dall’insegnamento scolastico puntando, di conseguenza, alla sua estinzione. Per contro ne preordina la sparizione proprio nelle zone dove è più parlata, vale a dire le aree trilingui interessate dalla presenza del francoprovenzale e e dell’occitano/provenzale.
Poiché lo Stato italiano pretende di essere l’unico ente deputato alla definizione e alla relativa tutela delle lingue di minoranza, rifiutandosi però pervicacemente di muovere anche solo un dito per il piemontese – di cui anzi nega persino l’esistenza – e dal momento che per noi Piemontesi la nostra lingua ha un’importanza capitale nel definire i nostri caratteri di popolo, se per questo Stato non conta nulla la volontà della nostra gente, ne consegue una totale incompatibilità tra Italia e Piemonte.
In altri termini, sembra proprio che con questo atto, per il quale “ringraziamo” il governo italiano che ha finalmente levato la maschera dimostrandosi per quel che realmente è, si sia giunti alla fine di un bruttissimo film, basato sull’equivoco della “necessità” per noi Piemontesi di farci italiani e di assumere di conseguenza la lingua, la cultura, i costumi e la mentalità di quella gente e fondato sull’illusione di potere vivere liberamente in un Paese (l’Italia) che ci rispettasse. Cosa che palesemente non é.
Questo provvedimento è la tomba di qualsiasi pia intenzione di fare convivere le due idee (e di conseguenza le due realtà, anche politiche e istituzionali) di Piemonte e Italia.
Le prove di questa manifesta incompatibilità sono numerosissime, ma negli ultimi giorni gli esempi si sprecano.
L’ennesimo spregio contro la lingua piemontese segue di poco l’imposizione dell’inno di Mameli in una scuola sempre più straniera al Piemonte e che non è nemmeno più in grado di garantire l’incolumità fisica dei propri studenti (che sarebbero poi i nostri figli). Non per altro, ma noi non siamo stati mai “calpesti e derisi”… Anzi! Il nostro inno, poi, ce lo abbiamo già. E non abbiamo bisogno di adottare quella brutta marcetta resuscitata dalla repubblica italiana di Mussolini (quella di Salò, per intenderci).
Nella stessa giornata di ieri, con perfetto tempismo, lo Stivale ci ha è imposto anche una nuova “festa dell’unità d’Italia”, che ricorrerà ogni 17 marzo. Viene allora da chiedersi: ma se quest’Italia è già così unita e così meravigliosa (il “belpaese”, ovviamente “il più bello del mondo”), se tutti sono così fieri e felici e orgogliosi di dirsi italiani e di essere riconosciuti come tali anche all’estero, che bisogno c’era di tale ricorrenza? Excusatio non petita, o cattiva coscienza?
Per restare nel piccolo (ma i dettagli e i simboli sono importanti): il Comune di Torino, su sollecitazione di Gioventura Piemontèisa, ha nuovamente esposto in queste settimane la bandiera del Piemonte, della cui presenza sulla loggia del Palazzo di Città si era perduto il ricordo. Tanta sollecitudine ci era parsa sospetta e, infatti… il 6 di questo mese, in occasione della visita del presidente della Repubblica Italiana a Torino, pare che il Drapò sia stato ammainato da Palazzo Civico e addirittura da Palazzo Madama. Forse la Bandiera rossocrociata offendeva la sensibilità del presidente? Oppure è lampante che ormai Piemonte e Italia non possono più convivere in alcun modo? Possibile che dobbiamo continuare a sopportare in silenzio e non dire “basta!” a una condizione di palese oppressione culturale e di vero e proprio sfruttamento coloniale?
Sui giornali oggi la protesta riguarda soltanto la lingua veneta: “c’è nord e nord”, “i prof odiano il veneto”, “nelle scuole italiane si potrà insegnare il sardo, il friulano, persino il croato e l’albanese, ma il veneto no”, “la chiamano tutela delle lingue minoritarie: evidentemente il nostro è un dialetto per cretini”. I Piemontesi… ciuto la lenga!
Gioventura Piemontèisa non intende tacere. Anzi, ci presenteremo nelle occasioni pubbliche a domandare ai nostri rappresentanti piemontesi il motivo della palese inerzia della gran parte di loro nell’affrontare il problema dell’inserimento della lingua piemontese nella Legge 482/99. Che tuttavia è, ormai, soltanto una battaglia di retroguardia nell’àmbito di una rivendicazione che si è fatalmente spostata su tutt’altro piano (e non soltanto culturale). È infatti evidente che, ormai, dall’Italia non possiamo aspettarci più nulla.
Insomma, Mameli, la festa dell’ “unità”, il nascondimento del Drapò sotto il tappeto, l’ennesima inaccettabile discriminazione della nostra lingua non sono che gli ultimi atti dell’ormai secolare razzismo italiano nei nostri confronti, volto a sminuire e a ridicolizzare la nostra cultura. Con tale gravissima scelta il Governo italiano non ha fatto altro che ratificare l’ormai irrimediabile contrapposizione tra Piemonte e Italia e l’indispensabilità per il nostro Paese, il Piemonte, di giungere quanto prima con metodi democratici alla propria indipendenza nazionale. Parafrasando i Catalani (ma lo scrisse ancora prima il nostro Camillo Brero): adiù, Italia!
http://www.gioventurapiemonteisa.net/?p=7628
Gioventura Piemontèisa
Via San Secondo 7 bis
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www.gioventurapiemonteisa.net
Un libro rivela come si è formata l'Italia e svolto il Risorgimento, scoprendo queste dinamiche si spiega l'attuale situazione vissuta dagli italiani
QUELLA STRANA UNITA’ D’ITALIA
Fonte: L'Indipendenza, Quotidiano on line http://www.lindipendenza.com
di FRANCESCA SCANAGATTA
Per il 150° dell’unità sono stati pubblicati moltissimi libri: tanti belli, interessanti e dettagliati, ma anche molti ridondanti o addirittura inutili. Quasi tutti si sono occupati di fatti specifici o di descrizioni (o riscritture) di avvenimenti storici. In questo panorama multiforme il libro di Oneto (La strana unità, edizioni Il Cerchio) trova una sua particolarità: non è un (altro) libro di storia del Risorgimento ma è una specie di manuale, di prontuario per affrontare lo studio e il giudizio di quegli eventi. Il testo è infatti costruito per segmenti tematici.
Inizia elencando i “buoni” e i “cattivi”, chi c’era da una parte e chi dall’altra. Bra i “buoni” ci sono quelli di cui si sa tutto ma sono elencati puntigliosamente anche i soci occulti, come i massoni e – soprattutto – gli stranieri: spiccano il ruolo pesante avuto dalla Gran Bretagna ma anche quello meno noto degli Stati Uniti. Anche fra i “cattivi” compaiono attori di cui si è sempre saputo poco, come i combattenti italiani in uniforme austriaca o la Svizzera, considerata un nemico oggettivo, seppur del tutto passivo e perciò incolpevole, dell’unità italiana.
Un capitolo “pesante” è dedicato a tutti gli avvenimenti e le azioni fatti “contro”: dalla rivolta genovese del ’49, fino a quella milanese del 1898. In mezzo cinquant’anni di repressioni, resistenze e rivolte antiunitarie, da quelle meno note della Lunigiana a quella, abnorme, del cosiddetto brigantaggio meridionale.
C’è poi tutto un lugubre ma accurato conteggio dei morti, compilato solo per sfatare la pia e patriottica menzogna di un Risorgimento pieno di inni e bandiere, di una gioiosa primavera macchiata solo dal sangue di pochi martiri ed eroi: in realtà invece un disastroso bagno di sangue, un macello tenuto nascosto perché la maggior parte dei morti stava dalla parte “sbagliata”. Un’accortezza che si ritrova spesso nel racconto della nostra storia.
Un altro capitolo molto politicamente scorretto riguarda i Plebisciti, le votazioni che hanno legalizzato in termini “democratici” tutte le annessioni territoriali. Curiosamente di Plebisciti non si è proprio parlato nelle cerimonie del 150° e tanto pudore si capisce dai racconti e dai documenti che Oneto ha raccolto e riportato: brogli, vessazioni, truffe, menzogne e violenze che hanno fatto del voto una tragica messinscena rivelata anche dalle percentuali del consenso all’annessione, mai inferiori al 99%, una stranezza in un paese abbonato da sempre al fifty-fifty.
Il manuale prosegue con l’analisi piuttosto dettagliata degli effetti immediati e più duraturi dell’unificazione sulle popolazioni della penisola: tasse, leva, emigrazione, debito pubblico, giustizia, criminalità organizzata eccetera. Il tutto è accompagnato da numeri e da testimonianze del tempo, soprattutto straniere.
L’ultima più corposa (e, per il lettore, più gustosa) parte del libro si occupa della costruzione del mito risorgimentale, dei suoi protagonisti e delle invenzioni e omissioni che ne hanno accompagnato la descrizione storica. Eroi veri e di cartapesta, gente seria e quaraquaquà, onesti e margniffoni si affollano sul palcoscenico di una narrazione degna (e non potrebbe essere diversamente) della meglio riuscita “commedia all’italiana”, con continui intrecci di farsa e di tragedia, spesso drammatica e raramente seria. La morale che se ne estrae – e che l’autore sottolinea con forza – è che quasi tutti i nostri attuali guai nascono proprio allora, che tutti i comportamenti più facinorosi o scalcagnati dell’odierna vita pubblica e politica italiana hanno lì le loro radici, i loro inventori e antesignani: dalle tangenti al bunga-bunga, dai conflitti di interesse al trasformismo più cinico. Fra le pagine più celebrate del Risorgimento si trova di tutto, dall’uso distorto dei mezzi di comunicazione alla bulimia sessuale dei padri della patria, dal disprezzo per il “popolino”, considerato carne da cannone e contribuente da spremere, fino alle più ignobili collusioni fra potere e organizzazioni criminali. Ma ci sono anche, per fortuna, tante persone per bene, eroi piccoli ma veri, gente che ha mostrato coerenza, come Cattaneo o il musicista Rossini che hanno preferito l’esilio a un sistema politico che aborrivano. Ci sono stati tanti onesti che si sono “pentiti” e lo hanno fatto con la dignità di D’Azeglio («Non si fonda un’associazione umana qualunque su una serie di furberie, di perfidie e di bugie»), il dolore del garibaldino Nuvolari («se mi fossi immaginato il come sarebbero andate le cose, non mi sarei di certo imposto tanti sacrificii materiali e morali, perché non ne valeva proprio la pena!») o la sofferta sincerità di un Garibaldi vecchio che dice: «Quando i posteri esamineranno gli atti del governo e del parlamento italiano durante il Risorgimento vi troveranno cose da cloaca».
Il sottotitolo del libro è “Risorgimento: buono, inutile o dannoso?”. Non vi si trova la risposta ma tutti gli elementi per ipotizzarne una sulla base di un sereno giudizio. Per questo si tratta di un’opera assolutamente necessaria per chi non vuole più restare impastoiato in un groviglio di retorica, invenzioni e detrazioni, fra esaltazioni e revisionismi spesso eccessivi.
AUTORE: Gilberto Oneto; EDITORE: Il Cerchio; PAGINE: 296; PREZZO: 21 euro
L'Inquisizione fiscale attualmente applicata è simile a quella che reprimeva l'eresia alcuni secoli fa
L'Inquisizione fiscale
Fonte: Associazione Italiani Liberi http://www.italianiliberi.it
di Rosaria Impenna
Nell’epoca della “falsificazione del bene”, la nostra, come viene spesso ricordato ai lettori di questo sito, ci preme smascherare il significato che avvolge l’ufficialità di alcune tra le espressioni più usate da governanti, ecclesiastici e burocrati, dediti all’esercizio del Potere. L’operazione sarà applicata all’ambito che opprime da tempo gli Italiani per i modi con cui i detentori del potere ne arringano la legittimità dei sistemi vessatori, quello fiscale e finanziario. Seguendo il noto principio, per cui il linguaggio rivela quel che dice, ma soprattutto quel che tace, partiremo dall’analisi delle frasi più in voga per capire quel che spesso celano. Pensiamo infatti, che alcune dichiarazioni pronunciate nel segno della lotta all’evasione racchiudano una motivata ferocia perché riescono a evocare vicende storiche particolarmente crudeli. Per questo, i proclami in questione si identificano un po’ tutti e possono essere letti come parti di un medesimo discorso, estrapolati dal contesto, rimandano infatti a precisi significati. Come ad esempio: “È peccato non pagare le tasse perché oggi c’è da salvare l’Italia; ciascuno a suo tempo si esprimerà in coscienza rispetto al Governo di buona volontà”, pronunciata dal cardinale Angelo Bagnasco; oppure: “Il Governo sarà senza pietà con chi evade le tasse, staneremo ovunque gli evasori fiscali”, del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Antonio Catricalà, a cui fa eco il direttore generale dell’Agenzia delle Entrate, Attilio Befera: “L’effetto deterrenza si fa anche con la propaganda. Incutere un sano timore è necessario per ottenere il versamento spontaneo”, perché “Equitalia, che ha finalmente a disposizione un arsenale di controlli degno della Berlino comunista, vede tutto e sa tutto”; fino all’ignominiosa: “A mettere le mani nelle tasche degli Italiani sono gli evasori e non i governanti”, del presidente del Consiglio Mario Monti, che ha evidentemente dimenticato il folto stuolo dei suoi colleghi banchieri “miliardari”, che giocando in Borsa con i soldi che non possedevano hanno davvero messo le mani nelle tasche degli Italiani, dei Greci e di tutto il mondo. Tale spietata provocazione poteva pareggiare soltanto con il novello istituto della “delazione”, che vedrà addirittura premiato per un importo non inferiore al 15% e non superiore del 30% della somma recuperata, chi segnalerà la spiata. E poi ancora, intimidatori annunci come “redditometri”, “spesometri”; l’accesso illimitato e totale dell’Agenzia delle Entrate ai conti correnti bancari; “limite” di prelievo dal “proprio” conto; l’abolizione, di fatto, del contante con l’imposizione della moneta elettronica anche ai pensionati; l’enfasi da parte dei mass media per le “liste di proscrizione” pubblicate dal governo di Atene sul web, a indicare la gogna per un numero di ben 4.152 persone. Ecco, l’insieme di tali iniziative, minacciose e umilianti per la popolazione, ci portano a contesti storici precisi, quelli della lotta all’eresia. I metodi impiegati dai Tribunali per la caccia agli eretici ci sembrano infatti comparabili a quelli dei nostri “poliziotti” tributari e finanziari.
L’Istituto del Tribunale Inquisitoriale, nasce a Firenze nel 1231, con il pontefice Gregorio lX, che esautorò della giurisdizione in materia di fede il vescovo della città per dare incondizionato mandato al priore domenicano di Santa Maria Novella, Giovanni di Salerno. Alla sua morte la giurisdizione non ritornò al vescovo, in quanto l’esperimento aveva dato ottimi frutti, ossia molte condanne e nel 1257, il papa Alessandro lV, sentenziò l’estromissione dei vescovi dalle decisioni, il Tribunale dell’Inquisizione divenne così indipendente. Nel 1252, Innocenzo lV, con la bolla Ad Extirpanda, introdusse la pratica della tortura (di fatto sempre adottata in tutte le latitudini), come mezzo legale al fine di pervenire alla confessione del reo ostinato; dato che la “regina delle prove era la confessione”. Nel 1542, il papa Paolo lll Farnese, con la bolla “Licet ab initio”, darà all’Istituzione una base amministrativa centralizzata ponendola sotto il controllo della Congregazione della Santa Inquisizione dell’Eretica Pravità.
I tribunali speciali della Santa Inquisizione avevano l’esclusiva competenza di perseguire i reati in materia di fede, il più grave dei quali era “l’eresia”, considerata non solo una deviazione dall’ortodossia con l’inevitabile perdita dell’anima, ma anche “reato”, in quanto attirava l’ira di Dio sull’intera collettività. Se sostituiamo la parola “eresia”, e il profondo senso teologico che rappresentava, con quello attuale di “evasione fiscale”, nulla è cambiato. Scopriamo ad esempio, che l’investigazione iniziale poteva avvenire sia su “stimolo esterno”, ossia per denuncia anche anonima, sia su spontanea iniziativa dell’inquisitore, spinto da una semplice diceria popolare. Ma la grande novità del Tribunale Inquisitoriale sta nello stravolgimento del diritto romano; in quest’ultimo, accusato ed accusatore erano posti sullo stesso piano, l’accusato non doveva dimostrare infondata l’accusa, era l’accusatore obbligato a provarne la fondatezza e non poteva essere condannato in base a semplici “sospetti”. Il famoso giurista romano Ulpiano sosteneva che era preferibile lasciare impunito un colpevole che condannare un innocente. I giudici dell’Inquisizione, al contrario (come i nostri “poliziotti” tributari contemporanei), ritenevano che fosse meglio condannare cento innocenti che permettere ad un solo colpevole di sfuggire alla pena.
Nel processo, l’inquisitore è padre, prete, confessore, poliziotto, torturatore, accusatore ed infine giudice, ma non avvocato; infatti, rispetto al processo romano, l’imputato non era “assistito”, limitazione formalmente introdotta da Bonifacio Vlll. L’inquisitore agiva quindi con il potere più ampio e nel modo più arbitrario, ma di norma l’azione penale prendeva le mosse da una denuncia. Perciò, chi “ometteva” di denunciare un eretico era considerato sostenitore dell’eresia e perseguibile a sua volta come tale. “L’eresia va combattuta come una malattia contagiosa e quindi dannosa per tutto il corpo sociale”; perciò, “scomunica automatica” (latae sententiae) per i cristiani che non denunciavano l’eretico e un premio di tre anni di “indulgenza” per i “delatori”. L’obbligo di denuncia per combattere l’eretica pravità eliminava anche il “segreto confessionale”. Non esistevano neppure vincoli di parentela: il padre aveva l’obbligo di denunciare il figlio, il figlio il padre, la moglie il marito e questi la moglie. Il papa Gregorio lX si compiaceva di citare casi in cui i genitori avevano denunciato il figlio, la moglie il marito e viceversa. Nessuno poteva stare tranquillo, tutti sospettavano di tutti; la comunità si chiudeva a riccio e ciascuno vedeva nell’altro un possibile delatore. Bastava una parola, magari male interpretata, riferita all’inquisitore, per far cadere nella tragedia non solo l’accusato, ma l’intera famiglia e persino le generazioni future. Infatti, la scoperta di un antenato eretico, dunque già morto, comportava la confisca dei beni da lui ereditati, in tal caso si processava in “effige”. L’inquisitore, aiutato nelle indagini da un folto numero di aiutanti, chiamati “famigli” o famigliari, quasi sempre ex criminali, sue guardia del corpo, autorizzati a portare armi e non perseguibili per i reati commettessi, è dunque la figura centrale per la sua polivalente funzione. Esso come poliziotto è “cane di Dio”, un mastino che deve intervenire e colpire ovunque ritenga si annidi la peste dell’eresia. Ogni sua predica si concludeva infatti con “l’ammonizione generale” con la quale si ordinava a tutti di denunciare gli eretici o i sospetti tali, anche solo per sentito dire. E ammoniva i fedeli che se entro sei giorni (portati successivamente a dodici) non avessero ottemperato a questi obblighi sarebbero stati colpiti da scomunica, con tutte le conseguenze canoniche, civili e penali. All’ammonizione generale seguiva “l’editto di grazia”, con il quale si disponeva che gli eretici ed i “sospetti”, che entro un determinato termine si fossero presentati “spontaneamente chiedendo perdono” senza attendere la denuncia, avrebbero ottenuto “l’impunità”. Impunità simbolica e reale che da tempo non si vedono riconoscere gli Italiani, sicuramente il popolo tra i più perseguitati nella storia.
Rosaria Impenna
Roma, 22 febbraio 2012
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No Tav, il rito funebre dell'autorità dello Stato. Avendo perso ogni credibilità ed autorevolezza, non rimane che ricorrere all'autoritarismo
Sentite questa testimonianza in proposito: http://www.youtube.com/watch?v=kLh78IZR2nI
Fonte: Cado in piedi, la Comunità degli Autori http://www.cadoinpiedi.it
di Michela Murgia - 1 Marzo 2012
Mandare le forze dell'ordine in tenuta anti-sommossa a manganellare chi esprime il suo dissenso non è un esercizio di autorità, ma l'ammissione pubblica di averla definitivamente perduta insieme al diritto di pretenderla. I fatti della Val di Susa, in questo senso, segnano uno spartiacque
Michela Murgia Riporto anche qui un editoriale scritto per il numero di marzo di E-il mensile di Emergency, da qualche giorno in edicola. Alla luce dei fatti di questi ultimi giorni, ribadisce quello che penso del modo in cui lo Stato italiano ha scelto di affrontare la sacrosanta protesta popolare contro l'inutile opera della TAV. Solidarità totale ai valsusini in lotta per difendere il loro territorio.
L'estate scorsa lo Stato - non il governo, ma proprio lo Stato - ha permesso che in Val di Susa si celebrasse a suon di manganelli il rito funebre della propria autorità. Si è sbagliato tre volte. Il primo errore è stato credere che si potesse rubricare come cronaca locale la protesta della gente del movimento NoTav, in prevalenza giovani, anziani e famiglie che con i loro sindaci quel giorno marciavano in pace contro le ruspe. Il secondo errore è la modalità violenta con cui le forze dell'ordine hanno scelto di relazionarsi con quel dissenso, segnando una svolta definitiva nel registro di gestione dei rapporti tra le istituzioni governative e le proteste popolari in Italia, tutte. Il terzo errore si è compiuto nelle scorse settimane, quando le conseguenze di quei fatti sono proseguite fino all'arresto di 23 attivisti del movimento, con capi di imputazione che vanno dalla violenza alla resistenza a pubblico ufficiale. Si tratta di un atto giudiziario che, al di là delle appurabili responsabilità personali, è stato interpretato dalla popolazione resistente della Val di Susa come una risposta formale delle istituzioni all'intero movimento NoTav, che suona alle loro orecchie più o meno così: "badate che, se si arriva allo scontro definitivo, noi abbiamo i mezzi per imporci e voi non avete quelli per opporvi senza rinunciare alla legalità".
La percezione di questo messaggio ha trasformato la lotta dei NoTav in una battaglia simbolica che interessa tutte le forme di resistenza popolare che in Italia stanno agendo in forma organizzata contro decisioni statali ritenute lesive per i territori e chi li abita. I manganelli in Val di Susa hanno reso chiaro che non è più possibile ignorare la frattura tra la volontà dello Stato e le volontà della popolazione, non fosse altro perché - dagli studenti alle partite iva, dai forconi siciliani ai pastori sardi - quella frattura sta portando in strada sempre più persone, sebbene con diversa fondatezza, chiarezza e talvolta anche legittimità.
La questione della Val di Susa in questo scenario magmatico è un paradigma, perché è il solo caso in cui la violenza sia emersa forzatamente dopo anni di resistenza - per quanto inflessibile, comunque pacifica. I NoTav non possono rinunciare alla legalità per far valere le proprie ragioni, perché significherebbe perdere quell'autorevolezza etica che sin dall'inizio ha smosso il consenso popolare intorno alle ragioni del movimento, facendo sorgere solidarietà anche da molto oltre i confini territoriali del futuribile tracciato ferroviario dell'alta velocità. Ma la forza dei NoTav sta tutta dentro a un paradosso: nei sistemi democratici il tipo di autorevolezza sociale di cui il movimento dispone dovrebbe in realtà essere un patrimonio morale dello Stato, in quanto incarnazione strutturale dell'autorità collettiva; ma cosa può succedere quando quel deposito di consenso tacito comincia ad appartenere proprio a chi contesta le decisioni dello Stato?
L'esercizio di dell'autorità etica funziona solo se è retto da una relazione di reciproco riconoscimento tra due soggetti con ruoli chiari: questa è la base della pace sociale ed è in virtù di questo che gli atti di autorità per loro stessa natura non dovrebbero incontrare alcuna opposizione da parte di coloro ai quali sono diretti. Dato per buono il fatto che in una democrazia c'è sempre la possibilità teorica di opporsi, deve esistere da parte della popolazione la rinuncia cosciente e volontaria a servirsene: è solo questa rinuncia che consente allo Stato di essere normativo. In questa dialettica l'uso della forza non solo non è previsto, ma è proprio escluso, perché contraddittorio.
Quando uno Stato deve usare la forza contro i suoi stessi cittadini - come è accaduto con le proteste popolari NoTav - significa che questo meccanismo è andato in frantumi. Mandare le forze dell'ordine in tenuta anti-sommossa a manganellare chi esprime il suo dissenso non è un esercizio di autorità, ma l'ammissione pubblica di averla definitivamente perduta insieme al diritto di pretenderla. I fatti della Val di Susa segnano uno spartiacque proprio perché rivelano con chiarezza come in questo paese il patto di riconoscimento reciproco tra il diritto dello Stato a imporsi e la rinuncia delle popolazioni a opporsi sia venuto meno in maniera clamorosa, insinuando in un numero sempre maggiore di persone la certezza che la difesa del bene comune non possa passare, né ora né mai più, dalle mani che stringono il manico di un manganello.
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