LA FINE DELLE TALASSOCRAZIE
Non è solo l’unipolarismo ad essere tramontato. E lo è, dato che dal momento che viene così significativamente messo in discussione, ciò già implica di per sé che sia finito. Ad essere giunta al crepuscolo è anche una concezione (ed una pratica) strategica, su cui si è fondato il millenario dominio dell’occidente. A scomparire dietro l’orizzonte, in un ultimo, fiammeggiante bagliore, è la supremazia delle potenze navali.

La nascita dell’imperialismo navale
Storicamente, il commercio marittimo è sempre stato importante, in
quanto le vie del mare erano le più veloci, e consentivano di
trasportare grandi quantità di uomini e merci. Anche la storia antica
racconta di innumerevoli battaglie navali, da quella di Ecnomo – nel 256
a.c. – a quella di Lepanto – 1571. Ma è fondamentalmente a partire
dall’epoca delle conquiste coloniali europee in Africa, in Asia e nelle
Americhe, che si afferma il moderno imperialismo navale.
Il
possesso di territori lontani, con i quali era necessario mantenere un
contatto costante, sia per ragioni economiche che difensive, portò allo
sviluppo di grandi flotte da parte dei principali stati europei; la
competizione tra le varie case regnanti (peraltro tutte più o meno
imparentate tra di loro) determinò conseguentemente che tali flotte
assumessero quindi un ruolo determinante, sia nella conquista e difesa
delle colonie, sia nelle guerre tra stati. E da questo marasma, emergerà poi come massima potenza navale l’Inghilterra.
In senso pieno, quindi, sarà proprio l’Inghilterra a potersi definire una potenza thalassocratica (1),
capace cioè di assicurarsi il dominio navale sui mari. Anche se è poi
invalsa la convinzione che l’essere uno stato insulare fosse in sé una
condizione di vantaggio, sotto il profilo militare, ciò in effetti è
vero solo nella misura in cui tale condizione si aggiunge al dominio
talassocratico. Senza di questo, infatti, un isola non ha alcun
significativo vantaggio in termini difensivi (in epoche precedenti,
infatti, l’isola fu più volte invasa, da popoli diversi – vichinghi,
romani, normanni…), mentre ha ovviamente grandi svantaggi in termini
offensivi. La combinazione dei due fattori, però, funziona da
moltiplicatore di potenza.
Non a caso, una volta acquisito il dominio
marittimo, gli anglo-sassoni aprono una lunga stagione di imperialismo
navale – tranne 22 paesi, tutti gli altri nel mondo sono stati invasi
dalla Gran Bretagna ad un certo punto della loro storia; ciò equivale a
una media di quasi nove paesi su dieci dell’intero pianeta.
La condizione storica che ha reso possibile ciò, non è però dovuta al dominio talassocratico, anche se questo è stato lo strumento che, date le condizioni generali, lo ha consentito. Il presupposto necessario è stato quello di una realtà dominata dalle potenze europee, in cui tali potenze controllavano gran parte dei territori degli altri continenti, e che da questi traevano le ricchezze che gli consentivano (tra l’altro) di armare flotte ed eserciti potentissimi. Questo flusso di beni, dalle colonie verso i rispettivi paesi europei dominanti, passava essenzialmente per rotte marittime. Ecco che, quindi, si disegna il contesto in cui il dominio navale diventa lo strumento principe dell’imperialismo moderno. L’assoluta centralità politica ed economica dell’Europa. I mari come principale canale commerciale e militare. La predazione di risorse dai paesi extra-europei come fonte primaria per alimentare le macchine belliche, necessarie al dominio coloniale, alla sua espansione, nonché alla competizione bellica tra gli stati del vecchio continente.
Su questa condizione, l’impero britannico ha fondato le sue fortune per secoli. Finché, di là dall’oceano Atlantico, non è sorta una nuova potenza – tra l’altro sua ex-colonia – dotata della forza economica, dell’ambizione, e persino della convinzione di possedere un destino manifesto, che ha deciso di soppiantarla. Gli Stati Uniti d’America, essendo una potenza continentale (Canada e Messico sono considerati di importanza marginale), a loro volta si percepiscono come una nazione insulare. In un certo senso, si potrebbe dire che gli USA sono uno spin-off dell’impero inglese, che ad un certo punto ha surclassato la casa madre, e ne ha gradualmente preso il posto. Per quanto gli states siano un paese largamente multietnico, infatti, e nonostante i padri pellegrini del Mayflower fossero dei profughi fuggiti dall’Inghilterra per le persecuzioni religiose, il legame – linguistico, culturale – tra le due sponde dell’oceano è rimasto sempre saldo. Tant’è che non c’è stato conflitto, tra le due potenze, al momento del passaggio di mano dello scettro di potenza dominante. Soltanto uno scambio di ruoli.

L’imperialismo stars & stripes
La nascita della nazione americana passa attraverso una serie di
guerre (2). Da quella d’indipendenza a quella civile, e poi le guerre indiane (per
assoggettare i nativi e depredarli delle terre), e quella col Messico
(per conquistare quelli che poi diverranno il Texas, la California, il
Nevada, lo Utah, il Nuovo Messico, il Colorado, il Wyoming…), e quella
con la Spagna (per le Filippine)…
Ma il vero passaggio
dall’espansionismo all’imperialismo avviene con l’entrata in guerra, nel
1917, nel primo conflitto mondiale; gli Stati Uniti si affacciano, con
un peso determinante, sul suolo europeo – che era ancora il baricentro
politico-economico del mondo – ed al tempo stesso sulla scena
internazionale, come un attore che intende recitare da protagonista
assoluto. Benché l’apporto strettamente bellico fosse relativo, infatti,
tutt’altro era quello economico (i crediti di guerra erogati ai paesi
della Triplice Intesa), e soprattutto simbolico.
Anche se, come sempre sarà nella storia di questo paese, l’intervento
sarà ufficialmente giustificato per nobili ragioni ideali, c’è
l’ambizione politica, e l’interesse economico, alla base della decisione
di entrare in guerra. E – ancora una volta – si manifesterà un’altra
costante della politica estera statunitense, la doppiezza; ciò che è
lecito per gli USA non lo è per nessun altro.
Sino a quel momento,
infatti, le relazioni tra America ed Europa erano state improntate, da
parte di Washington, alla rigida applicazione della dottrina Monroe (3);
con l’intervento del 1917, invece si intromette in questioni europee,
facendo cioè esattamente ciò che – in senso inverso – riteneva
intollerabile.
Con l’intervento nel secondo conflitto mondiale,
decisivo quanto quello dell’Unione Sovietica, si completa infine il
passaggio di fase, e gli Stati Uniti si affermano come potenza globale,
che proietta il suo controllo sia verso est (Europa) che verso ovest
(Giappone).
A quel punto, avendo pienamente ereditato non solo lo scettro di
potenza imperiale, ma anche la percezione di sé che caratterizzava
quello britannico, per Washington si apriva la lunga stagione della guerra fredda,
così come quella della proiezione militare planetaria. Una espansione
che, dal 1945 ad oggi, non ha mai cessato di crescere, arrivando a
contare oltre 800 basi militari sparse nel mondo.
Nell’ambito di
questo disegno strategico di dominio e controllo del globo terracqueo,
grande importanza ha sempre avuto la capacità navale: la US Navy conta
su svariate flotte, ciascuna impegnata stabilmente nel presidio e
controllo di un settore navale, e numerose basi all’estero.
L’idea
sottesa alla strategia thalassocratica statunitense si fonda, appunto,
su una duplice convinzione: da un lato, la natura insulare del
continente americano, che lo metterebbe al riparo da qualsiasi tentativo
d’invasione, e dall’altro la capacità di proiezione navale militare
pressoché totale, che garantirebbe la possibilità di interdizione nei confronti di qualsiasi potenziale avversario (o anche solo riottoso non allineato).
Chi circonda chi
Il dispiegamento militare USA è strutturato secondo la logica del
contenimento, e quindi le basi e le flotte sono dislocate in modo da
costituire una cintura intorno ai paesi nemici, che negli anni
40 del secolo scorso era la Russia, ed a cui dagli anni 60 si è aggiunta
la Cina. Tale dispiegamento è a sua volta connesso con la struttura a cipolla del
potere politico-militare, il cui nucleo centrale è costituito dagli
Stati Uniti, lo strato successivo dai paesi anglo-sassoni (Gran
Bretagna, Canada, Australia, Nuova Zelanda), quello ancora più esterno
dai paesi vassalli (NATO, Corea del Sud, Giappone), ed infine dai clientes (paesi con cui vige un rapporto basato sul reciproco interesse, tipo l’Arabia Saudita).
Tutto
questo mastodontico apparato ha però un costo esorbitante, e basta un
elemento di crisi per farlo schizzare in alto. La previsione di budget
per la difesa è arrivata a quota 886 miliardi di dollari, con
un balzo di circa il 10% in più, mentre nel paese cresce la povertà, e
le stesse infrastrutture cominciano a scricchiolare sinistramente, in
conseguenza di minori disponibilità di spesa.

Tutta la strategia di dominio imperiale USA è quindi fondata
sull’accerchiamento del nemico, identificato nella massa continentale
euroasiatica. Il limite – gigantesco – di questo approccio risiede nel
fatto che non siamo più ai tempi della regina Vittoria, ed i rapporti di
forza sono profondamente mutati.
Per un verso, siamo lontanissimi
dall’epoca in cui bastava mandare un paio di cannoniere davanti alle
coste di un paese, per rimetterne in riga il governo recalcitrante, o
anche solo da quella dell’operazione Desert Storm, contro un
esercito di quarta categoria. E per un altro, è proprio la natura
geografica dell’Eurasia a rendere sostanzialmente irrilevante la
capacità di proiezione navale (ed aerea, che ne costituisce
sostanzialmente un’estensione), poiché tale blocco dispone di tutte le
risorse necessarie (a sé ed a gran parte del resto del mondo), e non ha
bisogno di espandersi per acquisirle.
Anche se la narrazione
atlantista non cessa di dipingere Russia e Cina come minacce,
sottintendendone una volontà imperialistica, questi paesi non
necessitano di colonie (da cui estrarre risorse) ma di partner
commerciali. Tutto l’apparato militare di questi paesi è concettualmente difensivo; è pensato in funzione della protezione della propria sicurezza ed integrità.
Già solo per tale semplice ragione, il potenziale militare russo e
cinese può essere concentrato in uno spazio (relativamente) limitato,
mentre quello statunitense deve necessariamente essere mantenuto
disperso, nella sua dimensione globale. Anche se – ad esempio – la
marina statunitense è complessivamente la più potente, tale potenza non è
più, già oggi, in grado di assicurare quel livello di dominio che
poteva garantire vent’anni fa. E ciò perché, ovviamente, non solo i
nemici hanno continuato a potenziare le proprie per fronteggiarla, ma
possono contare su un coordinamento crescente, e sulla possibilità di
concentrarsi laddove lo richiedano le esigenze di sicurezza nazionale.
I
rapporti di forza sono insomma in costante mutamento, e non solo gli
strumenti militari di proiezione a distanza sono sempre meno rilevanti,
ma i nemici accorciano le distanze. La marina militare cinese,
per dire, ha superato quella statunitense per numero di unità; anche se
quella USA conta 11 portaerei e quella cinese solo una, è evidente che
non è Pechino (nell’ipotesi di un confronto diretto) a dover attaccare
il territorio americano.
A tutto ciò va aggiunto che la crescente pressione statunitense spinge i nemici a coalizzarsi; da tempo, Russia, Cina ed Iran stanno sviluppando esercitazioni navali congiunte, il cui scopo principale è proprio raggiungere un elevato livello di coordinamento. E questi tre paesi non hanno in comune soltanto il dubbio privilegio di essere in cima alla lista dei rogue states, ma anche quello di essere i principali attori nel processo di costruzione delle nuove vie commerciali euroasiatiche, il Corridoio Nord-Sud (4) e la Belt and Road Initiative (5). Per non parlare del fatto che Russia e Cina (ma l’Iran segue a ruota…) hanno oggi la prevalenza nel settore dei missili ipersonici, e la Russia possiede la più temibile flotta di sommergibili nucleari al mondo.
Insomma, se da un lato la continua espansione aggressiva delle
alleanze militari capitanate dagli USA viene – giustamente e
comprensibilmente – percepita come una minaccia alla propria sicurezza
da Russia e Cina, è anche vero che questa pulsione all’accerchiamento –
soprattutto per una potenza in declino come gli USA – si traduce in un
pericoloso sbilanciamento. Le esigenze economiche per sostenere questo
elefantiaco sistema militare crescono a vista d’occhio, mentre gli
avversari, con una spesa militare infinitamente più piccola, stanno
comunque erodendone il primato.
E più di ogni altra cosa, l’idea che
una potenza declinante (che per di più sta miopemente indebolendo i suoi
migliori alleati) e con una popolazione di scarsi 230 milioni, possa
accerchiare e soffocare un blocco continentale che conta
miliardi di persone, due o tre eserciti enormi e potenti, ed una
quantità di risorse naturali ineguagliabili, è semplicemente follia.
I tempi di Francis Drake ed Oratio Nelson sono tramontati per sempre.
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