LEZIONI DI GUERRA
Ogni guerra non è soltanto il tentativo di
risolvere ‘manu militari’ un conflitto, ma anche molto altro. È un test
di verifica, che dice di come una nazione affronta e risolve le
controversie internazionali, è un banco di prova per sistemi d’arma,
dalla cui prova sul campo deriverà o meno il successo ‘di mercato’.
Ma è soprattutto il terreno su cui le dottrine militari, le tattiche di
combattimento degli eserciti, subiscono il vaglio implacabile della
prova del fuoco, e da cui scaturiscono poi le ‘evoluzioni’ successive
dell’antica arte della guerra. E come sempre, c’è chi impara la lezione e
chi no.
I Leopardi di Abramo
Alla fine, i contorni della triste sceneggiata si sono delineati con sufficiente chiarezza. Benché gli USA ne dispongano a migliaia, i 31 MBT (main battle tank) M1A2 Abrams promessi all’Ucraina, verranno forniti nell’ambito di un progetto di costruzione apposita (privi della protezione in uranio impoverito), e quindi la consegna avverrà non prima della fine dell’anno in corso, se non nel 2024. La messa in scena – persino ridicola nel suo velocissimo sviluppo – si era resa necessaria perché Scholz, già sottoposto a fortissime pressioni da parte sia di membri del suo governo che di alleati europei, chiedeva che l’invio degli MBT Leopard 2 tedeschi avvenisse contestualmente a quello di MBT americani. Ovviamente, alla fine i carri tedeschi andranno subito, quelli made in USA forse tra un anno…
Ma la questione vera, qui, è duplice; a prescindere dalla sfacciata manovra americana, che punta a svuotare gli eserciti europei per poi rimpinguarli nuovamente con commesse all’industria militare USA, qual è l’impatto che questi carri potranno avere sul conflitto, e perché gli USA non hanno alcuna voglia di inviare i propri Abrams?
Cominciamo col dire che il Leopard è un carro concepito negli anni 80, che a suo tempo ha avuto un grande successo commerciale (l’hanno acquistato molti paesi NATO), ma che non solo risulta oggi assai datato, rispetto agli ultimi MBT russi come il T-90 Proriv ed il T-14 Armata, ma ha anche dato scarsa prova di sé sul campo di battaglia. Negli anni scorsi i Leopard furono utilizzati in Siria dai turchi, contro le milizie curde ed alcune formazioni dell’Isis, con risultati talmente pessimi (quanto a vulnerabilità) che lo Stato Maggiore turco se ne disse sconcertato. Facile immaginare come possa risultare nel confronto con l’esercito russo.
Al di là di tutto, il fatto è che il Leopard (insieme all’Abrams americano ed al K2 Black Panther coreano) rappresenta allo stato la punta di diamante nel settore MBT occidentale (1), mentre l’esercito russo è avanti di almeno due generazioni.(T-90 e T-14), ed anche a prescindere dagli scadenti risultati sul campo, basta una semplice comparazione per comprendere l’inferiorità dei Leopard rispetto agli T-90 (con cui presumibilmente si confronterà in Ucraina). Il Proriv, infatti, ha una maggiore dotazione di colpi per il cannone, una gittata di tiro maggiore (da 500 a 1500 m in più, secondo il munizionamento), è più leggero e costa quasi la metà.
A sua volta, la ragione per cui gli Stati Uniti sono in effetti riluttanti ad inviare in Ucraina i loro Abrams, al di là della legge che impedisce l’esportazione di armamenti con protezione in deploted uranium (2), e della effettiva difficoltà di addestrare in breve tempo i carristi ucraini, è di natura strategica e commerciale.
Da un lato, infatti, Washington teme che i russi possano catturarne qualcuno (3), e quindi venire dettagliatamente a conoscenza di tutti i suoi punti deboli. Dall’altro che possa dare una cattiva prova di sé in combattimento, riducendo così le possibilità di venderlo in giro per il mondo, a cominciare dagli alleati NATO. Si dà appunto il caso che anche l’Abrams abbia già dato prova di una pericolosa vulnerabilità, sia in Siria che in Yemen, contro gli Houti. Il MBT americano presenta infatti una certa vulnerabilità sulle fiancate e sulla parte posteriore della torretta, anche al fuoco dei moderni sistemi controcarro (4). Inoltre, vale per l’Abrams quanto già detto per il Leopard, in termini di comparazione col T-90, con l’aggravante che il carro americano è ancora più pesante e costoso, e consuma enormi quantità di carburante.
Gli altri MBT dati in arrivo sul fronte ucraino sono i britannici Challenge 2, i francesi Leclerc, ed i polacchi PT-91 Twardy (una versione sviluppata localmente, a partire dal sovietico T-72). A parte quest’ultimo, che è appunto una versione ammodernata agli anni 90 di un carro di vent’anni prima, sia il Challenge che il Leclerc presentano sostanzialmente i medesimi gap – rispetto al T-90 – già visti per i carri tedeschi ed americani: munizionamento inferiore, gittata minore, maggior peso e maggiore costo. Ma, anche a prescindere dalla specifica supremazia del carro equivalente russo (5), le questioni fondamentali – relativamente all’efficacia di questi sistemi d’arma nel conflitto – riguardano la quantità, e soprattutto le modalità di utilizzo tattico.
I numeri contano
In una guerra d’attrito, come quella in corso in Ucraina, la quantità
di mezzi (e quindi la velocità e l’economicità di produzione) e la
facilità di riparazione (e quindi la capacità del personale addetto e la
vicinanza delle officine) diventano un fattore assolutamente
determinante.
A quanto trapela dagli ambienti NATO, l’intenzione
sarebbe quella di equipaggiare tre brigate ucraine con i nuovi carri, di
cui una con gli Abrams – che però non saranno sul terreno
prima di un anno. Stiamo quindi parlando di un centinaio di carri o poco
più, di cui due terzi operativi presumibilmente entro l’estate, ed un
terzo nel 2024.
Ciò a fronte di uno schieramento russo che conta tra i 1.200 ed i 1.500 carri sul fronte (su una disponibilità totale della Federazione Russa che ammonta a 12/15.000 carri armati; e tenendo presente che, in undici mesi di guerra, i russi rivendicano di aver distrutto oltre 7.500 carri e corazzati da combattimento ucraini (6).
Questo centinaio di nuovi carri, quindi, non solo va considerato nel
suo valore assoluto, rispetto a quello russo, ma anche relativamente
alle condizioni dell’esercito ucraino al momento in cui entreranno in
servizio. Non sappiamo con esattezza su quanti carri armati possa oggi
contare l’Ucraina, tra quelli di cui disponeva all’inizio del conflitto e
quelli successivamente forniti da vari paesi NATO (tutto materiale
ex-sovietico, sinora). Di sicuro le perdite sono state ingentissime
(anche a voler prendere con le molle il dato fornito dai russi, che però
solitamente non sono soliti esagerare clamorosamente). Di sicuro, ad
esempio, dei duecento T-72 forniti mesi addietro dalla Polonia ne sono rimasti pochi operativi.
Per
l’esercito di Kyev, quindi, si porrà ancora una volta il problema già
postosi con gli HIMARS. Concentrarli in un settore del fronte,
aumentandone l’impatto potenziale ma esponendoli al rischio di
distruzione prima della battaglia (colpiti dall’aviazione, da missili, o
da droni e fuoco di artiglieria), o viceversa disperderli su più punti,
riducendone l’impatto ma suddividendo il rischio di annientamento. Di
sicuro, avranno avuto un impatto immensamente maggiore sui media
occidentali, e prima ancora di arrivare, di quanto potranno averne sul
campo di battaglia.
Le armi non sono tutto
Le qualità intrinseche di un sistema d’arma sono importanti, ma
costituiscono solo una parte della sua potenziale efficacia. Come ha
detto Franz-Stefan Gady (7), “nessun singolo sistema o piattaforma
d’arma può cambiare le regole del gioco”.
C’è ovviamente la questione
quantitativa, che determina l’estensione del suo possibile utilizzo, e
la possibilità di concentrarlo ove necessario. Questione che non
riguarda semplicemente la presenza sulla linea di fuoco, e/o le
eventuali riserve, quanto la stessa capacità di produzione –
fondamentale in una guerra di lunga durata. Ma, a monte ed a valle di
ciò, vi sono altri fattori che ne determinano il valore operativo.
Innanzitutto, c’è il fattore manpower; l’efficacia
di un’arma dipende principalmente dalla disponibilità di personale
militare ben addestrato, capace di utilizzarla al meglio, e
conseguentemente dalla possibilità (anche in termini di tempo) di
addestrarne sempre di nuovo, in sostituzione delle perdite.
C’è poi l’intero complesso dei fattori logistici: alimentazione, trasporto, riparazione.
Un
sistema d’arma richiede munizionamento in quantità adeguata, e
carburante per gli spostamenti. Richiede vie e mezzi di trasporto
adeguati, da e per la linea del fronte. Richiede personale qualificato e
pezzi di ricambio per le riparazioni, ed officine protette quanto più
vicine possibile al terreno di scontro.
E naturalmente c’è il fattore contesto, ovvero la situazione bellica concreta in cui verrà utilizzato.
Per quanto l’esercito ucraino sia stato addestrato ed organizzato da
personale NATO, almeno dal 2014 in avanti, fondamentalmente – anche per
motivi pratici – il suo armamento e la sua dotazione sono rimasti quelli
di produzione ex-sovietica. Ed è soltanto a partire da un momento
successivo all’inizio della guerra, e via via in misura crescente, che
comincia l’afflusso di mezzi ed armi occidentali (8).
Anche se questo
continuo rifornimento ha evitato il collasso delle forze armate
ucraine, è indubbio che al tempo stesso abbia determinato problematiche
logistiche in crescita esponenziale. Se per un verso, infatti, le armi
della NATO sono tecnologicamente più sofisticate, e quindi richiedono
una curva di apprendimento più lunga, dall’altro l’estrema varietà ed
eterogeneità di armi e mezzi ha reso complicatissimo l’addestramento,
sia del personale addetto all’uso operativo che di quello addetto alle
riparazioni. Particolarmente critici sono risultati i settori dei mezzi
(corazzati e non) per il trasporto delle truppe, e quello
dell’artiglieria (con una grande varietà di calibri, ed una diversa
resistenza al fuoco prolungato) (9).
Uno dei problemi logistici che si stanno manifestando sempre più criticamente, è quello della mancanza di ARV (armoured recovery vehicle), i mezzi corazzati precipuamente progettati per il recupero dei carri armati danneggiati in combattimento. La disponibilità di questi mezzi è ormai scarsissima, nell’esercito ucraino, che si trova costretto ad utilizzare a questo scopo blindati e persino altri carri; e poiché spesso i mezzi colpiti hanno perso i cingoli, o sono impantanati, a volte è necessario utilizzare sino a due, tre mezzi per trainarli. Di conseguenza, nel corso delle battaglie è facile per i droni russi Orlan-30 individuare queste lente concentrazioni di mezzi, ed indirizzare su di esse il fuoco d’artiglieria o l’aviazione d’attacco. Le difficoltà di recupero, le difficoltà di riparazione (trattandosi di una grande eterogeneità di mezzi, poco o nulla conosciuti meccanicamente dal personale ucraino), sommandosi al flusso continuo che arriva dai paesi NATO, fa sì che sempre più spesso i mezzi recuperati vengano cannibalizzati per aggiustarne altri, e soprattutto che quelli colpiti vengano semplicemente abbandonati sul posto (10).
Ovviamente, l’impiego di qualsiasi sistema d’arma, e nello specifico dei MBT, è fortemente condizionato dalla situazione sul terreno. Da un punto di vista teorico (come vedremo più avanti), nella dottrina operativa NATO una brigata corazzata è destinata allo sfondamento delle linee nemiche, seguita poi dalla fanteria meccanizzata (equipaggiata con BMP e carri leggeri M2 Bradley) con il compito di consolidare la posizione. Questo tipo di approccio però richiede il verificarsi di alcune condizioni operative, e fondamentalmente: possibilità di concentrare le forze in sicurezza prima dell’attacco, possibilità di preparare il terreno all’attacco stesso, e possibilità di offrire copertura aerea alle forze in avanzata. Tutte condizioni impossibili, per le forze NATO ucraine, nel contesto della guerra attuale.
L’ostinato errore della NATO
Uno dei problemi che classicamente affliggono le leadership militari,
è l’affezione alle proprie teorie e dottrine. E quasi sempre ogni
innovazione, tattica o strategica, è pervenuta da parte di potenze
emergenti, che avevano appunto necessità di sovvertire le regole della
guerra, per vincere in battaglia e sovvertire l’ordine precedente. Solo
successivamente ad una o più sconfitte, l’innovazione si è generalmente
fatta strada anche in altri eserciti.
Se guardiamo le cose da questo
punto di vista, ci rendiamo conto per quale ragione la dottrina militare
della NATO – che è sempre sviluppata dal Pentagono – sia ostinatamente
legata alle proprie idee in materia. Una caratteristica tipica
dell’impero americano, infatti, è la difficoltà ad imparare dalle
sconfitte, perché semplicemente queste vengono rimosse.
Mentre, ad esempio, l’esercito coloniale francese imparò molto dalla sconfitta in Indocina – e provò, sia pure maldestramente, ad applicare i principi della guerra rivoluzionaria in Algeria – la sconfitta nel VietNam non ha prodotto alcun cambiamento sostanziale nella dottrina militare statunitense. Che infatti si è sempre modellata sulla macro-dimensione del confronto con l’avversario strategico. Il quale, fintanto che è esistita l’Unione Sovietica, era una potenza (quasi) equivalente; ma dopo la sua caduta l’intero sistema bellico USA-NATO (organizzativo, tattico-strategico, ma anche industriale) si è modellato sull’ipotesi della guerra asimmetrica, contro nazioni decisamente più deboli (Iraq, Serbia, Libia…). Non per caso, ed in modo quasi simmetrico, la più clamorosa sconfitta dopo il VietNam è l’Afghanistan, in cui il nemico non era un esercito regolare – opzione per la quale gli USA non hanno mai saputo concettualmente attrezzarsi.
Questo problema si è riproposto, per certi versi ancor più clamorosamente, nella proxy war ucraina.
Non
solo gli strateghi statunitensi non hanno assolutamente previsto né la
capacità russa di sostenere (sotto ogni profilo) una guerra di lunga
durata, né la propria incapacità di fare altrettanto, ma si ostinano a
proporre, all’esausto esercito di Kyev, tattiche assolutamente
inadeguate alla reale situazione sul terreno.
Lo schema classico della dottrina NATO – operazioni delle unità DRG (Defence Research Group) per
sondare le difese nemiche, attacco delle formazioni
corazzate-meccanizzate, consolidamento dell’avanzata con le unità di
fanteria – è in effetti stato già utilizzato nel corso di questa guerra,
e quando le forze armate ucraine erano in condizioni migliori. Il
riferimento è alla doppia offensiva di alcuni mesi fa, quella che si è
infranta contro le forze russe nella regione di Kherson, e quella che ha
portato alla riconquista di un ampio territorio nel nord dell’oblast di
Lugansk. Solo che quell’unico successo, ancorché assai enfatizzato, fu
possibile essenzialmente grazie al fatto che le difese erano affidate a
pochi reparti, principalmente della Rosgvardija (la Guardia
Nazionale della Federazione Russa), e che peraltro preferirono ritirarsi
e cedere territorio piuttosto che farsi annientare.
Sia qui detto per inciso, l’esercito russo – benché sia di gran lunga
il più potente sul campo – preferisce sempre attenersi al principio di
Sun Tzu, per cui è preferibile cedere territorio e preservare l’esercito
(così da poterlo riconquistare), mentre gli ucraini – la cui condotta
strategica è fortemente condizionata dall’impatto mediatico –
preferiscono farsi massacrare che cedere territorio (perdendolo poi
comunque, e con esso le possibilità di riconquista).
La questione è
che, per tornare al punto, la tattica NATO è semplicemente al di fuori
della portata dell’esercito ucraino. E ciò per svariate ragioni, che
attengono alle condizioni dell’esercito stesso, alla natura del
conflitto (e del terreno su cui si sta svolgendo), nonché al profondo gap che intercorre tra la potenza di fuoco russa e quella ucraina.
Il predominio russo è irreversibile
Diversamente dalla scorsa estate, quando le forze armate di Kyev
avevano ancora un significativo vantaggio numerico, ed una maggiore
capacità operativa, le condizioni attuali sono drammaticamente diverse.
Non solo nel frattempo la Russia ha mobilitato (ed addestrato per mesi)
300.000 riservisti (più circa 100.000 volontari), ma l’esercito ucraino
ha accumulato perdite enormi. Non esistono dati ufficiali – e
probabilmente li conosceremo solo a guerra finita – ma secondo le ultime
indiscrezioni, che riferiscono di un dato fornito dal capo di stato
maggiore Zaluzhny al Pentagono, i caduti in combattimento (KIA)
sarebbero 232.000; secondo la società privata Stratfor Forecasting (11),
le perdite dell’Ucraina avrebbero superato i 305.000 morti. La cifra
più probabile, specie dopo le sanguinosissime battaglie di Soledar,
Bakhmut ed Ugledar, è oggi intorno ai duecentocinquantamila.
E
considerato il normale rapporto tra morti (KIA) e feriti (WIA),
significa che altri 7/800.000 uomini hanno riportato ferite, e molti di
questi sono ancora inabili al combattimento (12).
L’impatto di queste cifre sulla capacità operativa dell’esercito è
comprensibilmente enorme. Non si tratta infatti soltanto delle perdite
in sé, ma del fatto che la necessità di rimpinguare le perdite (quando
non di ricostituire interi reparti) ha reso necessario accorciare
drasticamente i tempi di addestramento. Che ormai vanno dai pochi
giorni, per il personale destinato ai reparti di fanteria, ad alcune
settimane per coloro che dovranno utilizzare sistemi d’arma NATO.
Laddove invece, negli eserciti dell’Alleanza, tale addestramento dura
mesi, a volte anche un anno o più.
Questa inadeguatezza
dell’addestramento non è limitata alla padronanza dell’arma (si pensi ad
avanzate batterie antimissile come i Patriot, ma anche a MBT come il Leopard),
ma ha una incidenza assai più profonda. Chiaramente, una cosa è saper
guidare un carro armato, e saper sparare col suo cannone, tutt’altra
cosa è saperlo fare in battaglia. Per non parlare del fatto che condurre
offensive come quelle previste dalla dottrina NATO richiedono
un’elevata capacità di coordinamento tra unità e tra reparti.
Un’altra condizione ostativa è data sia dalla natura del conflitto che da quella del terreno; e le due cose sono ovviamente connesse. In questa fase, infatti, i combattimenti sono concentrati in aree densamente abitate, ricche di insediamenti urbani piccoli, medi e grandi. Un tipo di territorio in cui chi si attesta in difesa può agevolmente utilizzare questa rete antropica per imperniarvi linee trincerate e fortificate, rallentando l’impeto dell’attaccante. La guerra è chiaramente una guerra di logoramento, non di mobilità ed ampie manovre. Lo stanno mostrando proprio i combattimenti più recenti (le già citate Soledar, Bakhmut, Ugledar, ma anche Marynka), dove l’avanzata del ben più potente esercito russo è costante ma lenta, e le formazioni di carri operano a stretto supporto della fanteria, piuttosto che come unità di livello superiore impegnate in azioni di sfondamento.
Ancora di evidente ostacolo è la crescente differenza nella capacità
di fuoco delle due artiglierie nemiche. Si è più volte fatto cenno, in
queste analisi, alla sempre più ridotta disponibilità di munizionamento
per le forze ucraine, tanto che ormai il rapporto tra le due è stimato
in 16 a 1 (per colpi sparati). Questo significa che l’artiglieria
ucraina non è neanche lontanamente in condizione di far precedere un
attacco da un intenso fuoco dei suoi pezzi, effettivamente capace di
annichilire le difese russe. E che, per converso, quella russa è
assolutamente in condizioni di porre in essere un potentissimo fuoco di
sbarramento.
Peggio ancora, l’assoluto dominio dell’aria da parte di
Mosca rende non solo impossibile concentrare forze sufficienti senza
essere localizzate, ma ancor più rende queste stesse massimamente
esposte al fuoco dall’aria durante la fase di attacco.
La questione del dominio delle forze aerospaziali russe è una di quelle assolutamente strategiche.
Ovviamente
non si tratta semplicemente del fatto che l’aviazione russa disponga di
una quantità ben superiore di caccia-bombardieri, di bombardieri d’alta
quota, nonché di missili e droni d’attacco e d’osservazione. Se si
trattasse semplicemente di questo, basterebbe che la NATO fornisse a
Kyev gli aerei che chiede insistentemente (e che verranno sicuramente
forniti, probabilmente entro l’anno). Non saranno quindi una o due
dozzine di Mig-29 o di F-16, a cambiare l’equilibrio
strategico – e non solo per l’esigua quantità. Il punto fondamentale è
che l’aviazione russa opera a partire dalle basi nella Federazione ed in
Bielorussia, quindi sostanzialmente al riparo da attacchi ucraini
(ammesso che ne avessero la capacità) ma con tutti gli obiettivi
perfettamente nel proprio raggio d’azione, mentre quella ucraina è
condannata ad operare dal residuo territorio nazionale, completamente
esposto agli attacchi missilistici russi. In buona sostanza, i russi
operano da oltre confine, cosa che l’Ucraina non può fare. Se infatti
l’aviazione di Kyev operasse da un paese limitrofo (la Polonia, o la
Slovacchia, o la Romania), ciò comporterebbe automaticamente il
coinvolgimento diretto della NATO, ed allargherebbe istantaneamente il
conflitto – portandolo forse, e rapidamente, anche verso una escalation pericolosissima.
La conseguenza, ineluttabile, è che l’unico fattore veramente determinante non è il ferro, ma la carne.
I continui trasferimenti di armi e mezzi, dalla NATO all’Ucraina, equivalgono a massicce somministrazioni di pervitin,
il cui effetto agisce su un corpo sempre più debilitato, e che prima o
poi collasserà. La metafora (ma neanche tanto…) del “fino all’ultimo
ucraino” è sempre più vicina a realizzarsi, ed a quel punto o la NATO
dovrà trovare una via d’uscita, o dovrà sopperire in prima persona. Per
come stanno le cose, gli unici disposti a morire per Kyev – ma in questo
caso forse bisognerebbe dire per Leopoli... – sono i polacchi.
Ma
come reagirebbero gli europei, dinanzi alla prospettiva di una guerra
che potrebbe prolungarsi per anni? Quanto a lungo è sostenibile, per i proconsoli di Washington, sostenere la politica imperiale a fronte del crescente malumore dei popoli?
1 – Il Main Ground Combat System (MGCS),
un progetto di Francia, Germania e Italia avviato nel 2012, con
l’obiettivo di sostituire loro carri armati attualmente in servizio, e
che avrebbe dovuto essere costruito da KMW+Nexter Defense Systems,
una holding con sede ad Amsterdam, e con interessi tedeschi e francesi,
probabilmente non vedrà mai la luce, poiché il veloce depauperamento
della già scarsa componente carri degli eserciti europei, determinato
dall’impegno a supporto dell’Ucraina, imporrà un altrettanto veloce
ripotenziamento; e questo non potrà che avvenire attraverso il ricorso
all’industria bellica statunitense, l’unica in grado di produrre
tempestivamente le quantità necessarie..
2 – Sarebbe ovviamente più
facile, e più veloce, smantellare tale protezione da una trentina di
carri in servizio, piuttosto che costruirli tutti ex-novo.
3 – Anche Londra ha gli stessi timori; secondo quanto riportato dal quotidiano The Sun, il ministero della difesa ha avvertito le forze armate ucraine che è “inaccettabile” che i carri armati Challenger 2 cadano
nelle mani dei russi. Pertanto, insistono sul fatto che non vengano
utilizzati in battaglie rischiose. Siamo in piena commedia.
4 – Vale la pena notare che, tra le altre cose, la Russia sta schierando in Ucraina i nuovissimi Shturm-S, un complesso anticarro che utilizza i missili supersonici 9M114 Kokon e 9M120 Ataka, con ricarica e lancio automatico, e con una portata effettiva compresa tra 5.000 e 8.000 metri.
5 – Molto probabilmente, questi carri saranno equiparabili, o leggermente superiori, ai T-80 (massicciamente presenti sul fronte ucraino), e certamente superiori ai più datati T-72 (e
precedenti) pure utilizzati dalle forze russe, che però difficilmente
li schiereranno laddove sono presenti i carri MBT NATO.
6 –
All’inizio del conflitto, l’Ucraina disponeva di circa 2.000 carri, e ne
ha ricevuti altri 410 nei primi mesi di guerra. Il fatto che adesso
dichiarino di avere bisogno di 300 carri per la fantomatica offensiva di primavera, testimonia che ne hanno persi quasi la totalità.
7 – Membro dell’International Institute for Strategic Studies di Londra. Citato in: “Ukraine faces logistics hurdles ahead of tank deliveries”.
8 – Secondo quanto riportato da 19fortyfive, (cfr. “Ukraine Won’t Get Leopard 2 Or M1 Abrams Tanks: Does It Matter?”),
dall’invasione, gli Stati Uniti hanno dato o affidato all’Ucraina oltre
60.000 sistemi/missili anti-corazza, 160 obici da 155 mm e 72 da 105 mm
(insieme a quasi 1,5 milioni di proiettili di artiglieria di ogni
calibro), 38 lanciarazzi HIMARS, 300 veicoli corazzati M113 , 250
veicoli blindati di sicurezza M1117, 580 camion blindati MRAP, 111
milioni di munizioni per armi leggere e letteralmente centinaia di armi e
strumenti di guerra aggiuntivi. Mentre le nazioni occidentali e di
altri paesi hanno fornito alle forze di Zelensky 410 carri armati
dell’era sovietica, 300 veicoli da combattimento di fanteria dell’era
sovietica, 550 veicoli corazzati non statunitensi, circa 500 MRAP non
statunitensi, 1.500 veicoli corazzati di fanteria veicoli a ruote
(inclusi 1.250 Humvee), più di 50 lanciarazzi multipli non statunitensi e
quasi 500 sistemi di artiglieria trainati e semoventi.
9 – Sempre 19fortyfive: (cfr. “Will M1 Abrams And Leopard 2 Tanks Win The War For Ukraine?”)
C’è un alto grado di variazione nell’esercito ucraino di carri armati
sovietici, veicoli da combattimento di fanteria e obici. Questi operano
insieme a un miscuglio di piattaforme statunitensi come i veicoli da
trasporto personale M113 dell’era del Vietnam, i camion blindati MRAP, gli Humvee, le auto da ricognizione M117 e altre varianti. Senza dimenticare inoltre il numero imprecisato di IFV polacchi, camion corazzati Kirpi turchi, veicoli corazzati canadesi per il personale Senator e veicoli di fanteria svedesi CV90.
10 – Di recente, secondo quanto riportato dal Wall Street Journal,
la Polonia ha avviato un’operazione di riparazione su larga scala per
l’Ucraina. A causa degli aspri combattimenti, l’equipaggiamento militare
ritorna dall’Ucraina gravemente danneggiato, ed i meccanici lavorano in
3 turni per riportare armi e mezzi in prima linea il più rapidamente
possibile. In media, ci vogliono fino a 2 mesi per le riparazioni.
11 – Strategic Forecasting, Inc. (conosciuta semplicemente come Stratfor)
è un editore statunitense e impresa di servizi di informazione
giornalistica globale, fondata nel 1996 ad Austin (Texas) da George
Friedman.
12 – Al conteggio dei KIA, andrebbero aggiunti tutti i
dispersi (MIA), o quanto meno quelli indicati come tali da Kyev. Nella
maggior parte dei casi, infatti, si tratta di caduti i cui corpi sono
stati abbandonati sul posto al momento di ritirarsi. Ciò consente
appunto di conteggiarli tra i morti (e di non pagare il risarcimento
alle famiglie). A tal proposito, è da segnalare una nuova orribile
pratica: durante l’avanzata nella città di Bakhmut, sono stati trovati
cadaveri di soldati con le mani e la testa mozzate (c’è la documentazione fotografica),
che in base ad alcuni effetti personali è stato possibile accertare
trattarsi di mercenari. Non è chiaro se le mutilazioni siano state
inferte per non consentirne l’identificazione, in quanto se ne voleva
nascondere la presenza, o se abbia a che fare con le polizze
assicurative (che prevedono il pagamento alle famiglie solo previo
accertamento dell’identità). E ovviamente, vanno considerati anche i
circa 13.000 prigionieri in mano russa.
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