04 Ago 2022
Il fallimento di una classe dirigente: la Storia presenta il conto
Fonte: ControInformazione
di Fabrizio Pezzani
Anthony
Giddens della LSE (London School of Economics) ricordava impietosamente
come l’Italia tendesse sempre a fare la fine della rana nella pentola
portata ad ebollizione; la rana non percependo le variazioni termiche,
se messa a freddo in una pentola sul fuoco a bollire, finisce cotta
senza avvertire il rischio mortale se non quando è troppo tardi.
Al
tempo in cui Giddens esponeva la metafora sembrava solo volere
dimostrare la supponenza che gli inglesi hanno spesso avuto nei nostri
confronti, ma oggi sembra proprio che quell’immagine di insipienza
rappresenti fedelmente il fallimento di una classe dirigente sempre più
inadeguata ad affrontare il cambiamento epocale che ci è imposto dalla
Storia. Anche loro però stanno facendo la stessa fine, ma questo non
rallegra.
Così oggi ci troviamo ad affrontare un vuoto culturale e di
pensiero nella realtà di tutti i giorni rappresentato dalla rinuncia a
pensare in modo creativo, ad affrontare con lucidità ed un pathos vero e
ricco di solidarietà il vuoto dell’egoismo e della solitudine
quotidiani, il tutto sigillato appunto dal grigiore di una classe
dirigente ossificata e fallita al tribunale della “Storia“. Da
quarant’anni non produciamo più cultura vera, ma viviamo di quella della
rendita a tutti i livelli che brucia ricchezza ma non la crea ed il
debito pubblico, fuori controllo, ne è la palese dimostrazione.
Tutti
evocano l’importanza del merito ma quello dell’appartenenza che si
sposa, appunto, con la cultura parassitaria della rendita che porta ad
un abbattimento delle competenze professionali e morali a tutti i
livelli. Abbiamo pensato di continuare ad essere i cinesi d’Europa fino a
quando quelli veri ci hanno riportato alla realtà ed alla necessità di
ripensare un modello di sviluppo che sia coerente con la nostra storia,
la nostra identità ed in linea con un mondo che cambia, smettendo di
farci colonizzare da modelli culturali che non sono nostri e che sono
già falliti dove sono stati pensati.
L’economia reale, l’artigianato,
il commercio, la manifattura, il mondo agricolo, le medie e piccole
imprese (95% degli occupati) sono la nostra storia e da lì dobbiamo
ripartire per dare speranza e fiducia ai giovani. Siamo leader nel mondo
in diversi settori manifatturieri, nonostante tutto, ma avviare una
semplice attività imprenditoriale oggi sembra più difficile che mandare
un razzo sulla Luna.
Allora come facciamo a creare posti di lavoro se
non riprendiamo un cammino creativo che ha fatto la storia del paese?
Va incentivato e favorito questo mondo di libera creatività
imprenditoriale per competere in modo nuovo su un mercato globale – una
fantasia che ci è riconosciuta e deriva da secoli di artigianato che non
ha pari nel mondo – e non imbrigliato da una burocrazia ottusa e da una
finanza locusta che come le sirene di Ulisse ci ha fatto perdere il
contatto con la nostra storia.
La politica nel senso più nobile, come
la pensavano gli antichi Greci- “polis – ethos“-, dovrebbe aiutarci ad
uscire da un guado in cui rischiamo di rimanere, ma anch’essa è più
ridondante di slogan che di idee innovative e coraggiose in grado di
rispondere ad un mondo nuovo, una sfida che non possiamo affrontare con
la retorica ma con il pensiero. Non si sente un politico fare un pensiero compiuto che abbia un suo senso espositivo ed una sua logica strutturale; alcuni
di questi farebbero fatica a superare un test di ammissione all’asilo
se ci fosse; una possibile riforma? In questa confusione non si riesce
più a capire cosa è giusto e cosa no, cosa e come fare e cosa e come non
fare e tutto finisce nel dramma delle inutili e dannose accuse
reciproche.
Così siamo eternamente nella saga delle riforme-non
riforme, tutte eteree e lontane dal risolvere i problemi, pressati
dall’urgenza di fare alla svelta, “presto e bene non si conviene“ ma
pensare costa fatica, tempo e non paga subito e allora via con il nulla.
Abbiamo subito un modello fatto di contatti fulminei, virtuali con un
numero limitatissimo di parole, basato sull’effetto annuncio fatto di
twitter, facebook, selfie e tutto l’armamentario che allontana dal
pensiero vero.
Questa non-cultura scivola sull’onda, come un “surf“,
più velocemente del tempo che sarebbe necessario per andare in
profondità e provare a capire chi siamo, da dove veniamo e dove e come
vogliamo andare così finiamo per complicare i problemi, perdere la
bussola e diventare prigionieri di giochi più alti ed esterni a noi.
Ancora una volta, infatti, si affrontano i problemi a valle e non quelli
a monte rischiando di andare in loop per l’asimmetria creata tra paese
reale e quello istituzionale continuando a ragionare sui mezzi quando è
giunto il tempo di mettere in discussione i fini. Senza una visione più
lucida dello scenario a tendere per risolvere un problema si complica il
tutto.
Paradossalmente,
nonostante il “rigore“ imposto dal novembre 2011 ad oggi, il debito è
cresciuto del 25%, nonostante le “lacrime e sangue“, il crollo degli
interessi sul debito grazie allo spread- chewingum con un peggioramento
complessivo che dimostra l’inadeguatezza della classe dirigente.
Le
agenzie di rating che ci avevano colpito ai quei tempi per
l’inadeguatezza della tenuta politica oggi, che tutto è peggiorato,
vedono meglio il nostro futuro con un opportunismo strumentale che ci fa
capire quanto siamo ostaggio di interessi superiori che muovono le
pedine a seconda dei loro interessi e dimostra quanto la razionalità dei
mercati da tempo sia solo “mitologia“.
E’ lecito o no domandarsi se
c’è qualcosa che non va nel modello di governance del paese e nella sua
classe dirigente o dobbiamo ignorarlo presi dalla frenesia del cambiare
senza capire verso dove andare o dove ci stanno spingendo?
E’
necessario smettere di perdere tempo in un dibattito inutile ed ozioso
sul funzionamento tecnico delle istituzioni che può essere migliorato,
ma non sposta i termini del problema; non staremo meglio con un senato
elettivo, non elettivo, senza senato, con due senati se non ci sono gli
uomini; altrimenti siamo al cambiare tutto per non cambiare niente. Con
una classe dirigente responsabile, onesta, di buon senso e non fatua e
piena di slogan le riforme istituzionali non sono un problema come ci
hanno dimostrato i padri costituenti che hanno rimesso in carreggiata un
paese dissolto dalla guerra. Il dibattito sulle eventuali riforme deve
ripartire da un serio ed approfondito esame di “autocoscienza“ sui
valori fondanti una società. Come dicevano i nostri anziani: “non si
mette il vino nuovo nelle botti vecchie“ o potremmo dire: non si cuoce
il pane con le riforme del senato o le altre senza una visione di dove
vogliamo andare.
Non abbiamo ancora deciso quale assetto
istituzionale – centrale o federale – deve avere questo paese e siamo
sempre in mezzo al guado con un patto di stabilità asimmetrico al paese e
pensato su Marte. La situazione del paese è da manuale per la
rappresentazione del ciclo di vita delle società che cominciano a
collassare quando le élite al potere perdono la capacità di affrontare
le sfide nuove imposte dalla Storia ed affidano la loro legittimazione
all’occupazione del potere, ma questo nei secoli è sempre l’inizio della
fine.”La loro decadenza non dipende da una paralisi delle loro facoltà
mentali, ma dal collasso della loro eredità sociale che inibisce ogni
esercizio delle loro inalterate facoltà in un’efficace e creativa azione
sociale e culturale“ (A. Toynbee, Le civiltà nella Storia, 1947).
Le
responsabilità, sia pure a livelli diversi, sono di tutti e nessuno si
può sottrarre agli errori commessi, la presa di coscienza dei problemi
morali è, direbbe Kant, un imperativo categorico perché non possiamo
tradire i sacrifici dei nostri vecchi e le speranze dei nostri giovani e
fare la fine della rana nella pentola.
Fonte: Fabrizio Pezzani
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