Il costo sociale della guerra in Europa
di Valeria Poletti - 09/05/2023
https://www.ariannaeditrice.it/articoli/il-costo-sociale-della-guerra-in-europa
Fonte: Valeria Poletti
Per quanto la cosiddetta “opinione pubblica” si sia
assuefatta all’idea che il Paese sia attore sempre più direttamente
coinvolto nella guerra in Ucraina e che il conflitto opponga in realtà
la NATO alla Russia, non c’è percezione comune di quanto l’Italia sia
compromessa negli eventi bellici.
Nello scenario di una guerra di
lunga durata che minaccia di espandersi sul territorio europeo, l’Italia
ha una posizione strategica nel Mediterraneo ed è deputata a ricoprire
un ruolo di primaria importanza: oltre al grandissimo numero di basi
militari USA e NATO, il nostro Paese ospita sul suo territorio alcuni
rilevanti centri di comando operativo e di intelligence.
Inoltre,
oggi un militare italiano su tre impegnato nelle missioni internazionali
all’estero appartiene a forze schierate nell’Europa orientale, in
Lituania, Ungheria, in Bulgaria (dove il comando del Battaglione di
pronto intervento della NATO è a guida italiana). Il nostro Paese è
coinvolto in maniera sempre più diretta nel conflitto in corso in
Ucraina.
Cacciabombardieri italiani sono allocati in Romania a
Costanza sul Mar Nero e la nostra marina militare è presente nel
Mediterraneo allargato, in particolare sul fronte orientale.
Da prima
del 24 febbraio dalle base di Sigonella decollano pattugliatori della
Marina Militare degli Stati Uniti, droni USA e NATO, pattugliatori
dell’aeronautica Militare italiana che svolgono attività di monitoraggio
e di intelligence fornendo informazioni strategiche per le operazioni
di attacco delle forze armate ucraine.
Da Pisa e da Pratica di Mare
(provincia di Roma) partono gli aerei cisterna che riforniscono anche i
bombardieri strategici B52 e i caccia di US Air Force; la scorta e la
protezione aerea di questi velivoli è stata fatta dai cacciabombardieri
F-35 dell’Aeronautica militare italiana partiti dalla base di Amendola
(Foggia).
Ancora da Pratica di Mare partono gli aerei spia Gulfstream
G550, di produzione statunitense-israeliana, che abbiamo acquistato e
che svolgono un ruolo di intelligence determinante.
Si prospetta
l’invio di batterie Samp-T, di produzione italo-francese. Si tratta di
sistemi d’arma che richiedono tempi per formazione e addestramento del
personale preposto al loro uso fino a sei mesi: si prospetta, dunque,
l’invio di tecnici delle forze armate italiane in Ucraina o l’ospitalità
– che già ha luogo – nelle caserme e nei centri italiani di militari
ucraini, un fatto che costituisce un passo ulteriore e ancora più grave
nella compartecipazione italiana alla guerra.
Il nostro Paese sarà,
inoltre, tra i protagonisti dello sviluppo di programmi ad altissimo
contenuto tecnologico per l’industria militare, un piano in ambito NATO
che coinvolgerà non soltanto l’apparato produttivo delle maggiori
imprese del settore, ma anche le nostre università.
Gli italiani
comuni, lavoratori e cittadini, saranno chiamati a pagare le spese vive
di questa guerra attraverso la compressione della spesa sociale e
l’aumento dell’impegno economico statale finanziato dalla tassazione, ma
saranno anche penalizzati, nel quotidiano, dalla ristrutturazione del
tessuto produttivo, dell’organizzazione del lavoro e della gerarchia di
accesso ai consumi e al benessere che l’economia di guerra impone.
La retorica dell’“economia di guerra”, una doppia bugia
Che
la guerra abbia portato ad una generale contrazione del potere di
acquisto dovuto all’ulteriore aumento dei costi energetici e al
conseguente balzo dei prezzi al consumo di molti generi di merci – in
primis i beni agricoli – è un dato di fatto sotto gli occhi di tutti.
Così come è consapevolezza comune il fatto che l’incremento delle spese
militari sottrae risorse per la spesa pubblica, la sanità, la cura
dell’ambiente. Così come è percezione comune che l’impoverimento sociale
che ne deriva sta diventando una condizione stabile, tanto che un
penoso senso di impotenza pervade i singoli quanto le associazioni che
rappresentano o raggruppano lavoratori e cittadini. nonostante
l’istintivo rigetto, largamente condiviso, al nostro coinvolgimento
nella guerra, non si è prodotto un movimento di opposizione alle
operazioni di concreta adesione del nostro Paese alla campagna bellica.
Non
risulta, invece, chiaro come la deviazione delle risorse per consumi e
investimenti civili verso consumi e investimenti di guerra, sia un passo
verso cambiamenti strutturali del sistema economico e politico.
Il
sostanziale fallimento della globalizzazione a egemonia statunitense
(l’unipolarismo) nell’assicurare il predominio finanziario e politico
degli Stati Uniti ha prodotto una contrapposizione tra blocchi
economicamente e strategicamente rivali forzati a mobilitare tutte le
proprie risorse ristrutturando la gestione delle proprie economie per
affrontare la competizione.
A seguito della crisi economica
conseguente al Covid, la Commissione Europea ha messo a disposizione un
fondo di circa 800 miliardi di euro come supporto agli investimenti e
alle riforme realizzate dagli stati membri per rilanciare la crescita.
Un piano che vale circa 222 miliardi per l’Italia[1]. Di debiti a carico
dei cittadini italiani, debiti che dovranno essere restituiti, seppure
in un lungo arco di tempo.
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza
(PNRR), il documento con il quale il Governo italiano ridistribuisce le
risorse finanziarie messe a disposizione dalla Commissione tra i vari
settori dell’economia, prevede di ripartire l’ammontare in questo modo:
digitale 25% (49,3mld), transizione verde 37,5% (59,5mld),
infrastrutture 25% (31mld), istruzione 30,8% (31mld), salute 18,8mld,
inclusione sociale 18,8% (19,8mld). Il digitale e la transazione
ecologica, da sole, assorbono oltre il 54% dell’importo complessivo.
Una
scelta molto lontana dalle esigenze di cittadini e lavoratori già
penalizzati dal decadimento dei servizi sociali, dalla precarizzazione e
dal peggioramento delle condizioni di lavoro.
Una scelta di priorità
condivisa dai Paesi europei. Perché? Perché sono i due comparti che
promettono di rilanciare l’economia italiana ed europea permettendole di
fronteggiare la competizione a scala mondiale, cioè di investire fondi
pubblici in tecnologia per rivaleggiare con la concorrenza e ottenere un
consistente ritorno in profitti privati [2].
Sebbene la ricerca
tecnologica nel settore degli armamenti abbia ricadute sul progresso
tecnico e scientifico complessivo di un paese, l’accento è, casomai,
posto sulla ricerca di realizzazioni dual-use (di impiego sia militare
che civile) che non possono essere considerati motori di miglioramento
sul piano sociale, ma fanno pagare parte del costo militare ai
consumatori.
Non c’è dubbio che Leonardo – maxi-impresa operante nel
settore dell’aerospaziale, della difesa e della sicurezza e partecipata
al 30% dal ministero del Tesoro e che, presente nei banchi del ministero
della Difesa dirige di fatto la nostra politica estera – si sia
aggiudicata bandi miliardari per la ricerca e l’innovazione[3]. Come
riporta il sito di Quifinanza, così si esprimeva, nel dicembre 2021, il
suo direttore generale Lucio Valerio Cioffi: “L’ambizione nazionale (…) è
quella di sviluppare un vero e proprio modello innovativo di
collaborazione tra Difesa e industria che possa rappresentare un punto
di riferimento per i programmi futuri. In una visione sistemica, le aree
tecnologiche spaziano dall’aeronautica all’elettronica, dal cyber
spazio alla gestione di potenza, facendo leva sull’intelligenza
artificiale, sul big data analytics, sull’informatica quantistica, sul
digital twin, sulla cyber sicurezza e sull’integrazione tra piattaforme,
con o senza pilota”[4]. Nel 2022, anno di guerra, Leonardo ha
registrato un risultato netto in crescita del 58,5% a 932 milioni.
Il
nostro Paese sarà, inoltre, tra i protagonisti dello sviluppo di
programmi ad altissimo contenuto tecnologico per l’industria militare,
un piano del 2021 in ambito NATO che coinvolgerà non soltanto l’apparato
produttivo delle maggiori imprese del settore, ma anche le nostre
università[5].
La strada verso la guerra era aperta e la scelta di
sacrificare il benessere sociale alla sfrenata competizione tra
capitalismi nazionali anche.
Una bugia: tutti i media ci raccontano
che le difficoltà economiche che ci troviamo a fronteggiare derivano
dalle condizioni create dalla guerra in Ucraina, che all’alto costo
dell’energia e alle sue conseguenze si può far fronte solamente
sostenendo la politica di aggressiva concorrenza tra Stati, che è
necessario trincerare le frontiere contro l’”invasione” dei migranti.
Che la prosperità e la pace sono un sogno che non possiamo permetterci.
Si comincia a parlare di economia di guerra. Ma quella che ci viene
imposta non è “economia di guerra”, è un’economia per fare la guerra.
Un’altra
bugia: siamo chiamati a sostenere un fronte bellico attivando misure
militari che, soprattutto se integrate nella politica di sicurezza e di
difesa comune (PSDC), dovrebbero tutelare la nostra “sicurezza”. Come
dobbiamo interpretare questa parola ce lo spiega il Segretario generale
del Consiglio dell’Unione Europea: “… L’UE migliorerà la sua autonomia
strategica e la sua capacità di cooperare con i partner allo scopo di
salvaguardare i suoi valori e interessi. Tutto ciò intensificherà
altresì i nostri sforzi collettivi, in particolare anche nel contesto di
un efficace multilateralismo e delle relazioni transatlantiche, oltre a
rafforzare il contributo europeo a un ordine mondiale fondato su regole
atlantiche”[6]. Difendere “valori e interessi” dell’ordine mondiale
euro-atlantico non significa tutelare la sicurezza dei cittadini, quella
che, nel senso comune, si riferisce ai diritti del lavoro, alla salute,
al benessere sociale, alla sostenibilità ambientale, alla pace.
Questa
“sicurezza”, nel quadro della attuale guerra in Europa, attiene
piuttosto all’impegno a proseguire il coinvolgimento in una guerra tra
blocchi imperialistici con interessi confliggenti, destinata a perdurare
allargandosi. Espone le popolazioni europee alla barbarie.
Questa
idea di “sicurezza” ci viene giustificata come necessaria a fronte di
uno stato di emergenza causato dalla guerra e dalla instabilità
dell’”ordine mondiale”: sfruttando una paura artatamente generata a
furia di propaganda, si contiene il dissenso accelerando il processo di
logoramento dello stato di diritto e di progressiva cancellazione della
seppur formale democrazia.
La guerra come attività economica che comporta costi e ricavi
L’adeguare
l’economia e la politica economica alle necessità della guerra non
impone solamente di rendere disponibili risorse per gli armamenti e per
aumentare l’efficienza degli eserciti, ma richiede di riorganizzare la
produzione privilegiando le imprese competitive sul mercato dei sistemi
d’arma, dell’innovazione tecnologica del comparto militare-industriale.
Si
tratta di investire capitali enormi, capitali troppo ingenti per essere
mobilitati dall’industria privata e dunque erogati dallo Stato alle sue
imprese partecipate (come Leonardo-Finmeccanica e Fincantieri) e,
attraverso queste, distribuite anche ad una filiera di imprese private
di settori tecnologicamente avanzati alle quali viene garantito un
mercato ed alti profitti tanto su quello interno quanto su quello
estero.
Si tratta di trasferire ricchezza pubblica ai privati
privilegiando i settori ad alto utilizzo di tecnologia e basso impiego
di manodopera, aumentando la disoccupazione e penalizzando la produzione
per il consumo di massa. Una produzione, questa, destinata ad essere
coperta dalle economie della periferia del mondo con basso costo del
lavoro, elevata capacità di estrazione di materie prime, inquinamento e
vessazione sociale.
Si tratta di finanziare con denaro pubblico la
ricerca bellica nelle università, sottraendo fondi alla ricerca di base e
a quella indirizzata ad impieghi civili o alla salvaguardia
dell’ambiente.
Il fatto che lo Stato diventi il maggior investitore
nella tecnologia di produzione – privilegiando il settore difesa e
sicurezza – implica che orienti tutto il processo produttivo verso un
modello di sviluppo basato sulla scarsità, a partire dal maggiore costo
di importazione delle materie prime (cominciando dall’approvvigionamento
a prezzo superiore di petrolio e gas dagli “alleati” Stati Uniti, a
finire con l’impossibilità di acquistare da Paesi “nemici”), sulla
contrazione degli investimenti pubblici in servizi sociali con
conseguente incremento della loro privatizzazione, sulla socializzazione
delle perdite di impresa risultanti in una riduzione generalizzata del
costo del lavoro.
Indipendentemente da quanto già sia di per sé
ingiusto, ineguale e anti-popolare il modello di sviluppo fondato sullo
sfruttamento del lavoro, delle risorse e della manodopera dei Paesi
della periferia del mondo e del saccheggio delle ricchezze naturali,
realizzando questa ristrutturazione capitalistica non si fa che
peggiorare le condizioni di vita sul pianeta.
I costi di una simile
riorganizzazione dell’economia globale e locale gravano interamente
sulle classi meno abbienti e sulla classe media anche in Occidente:
deindustrializzazione, disinvestimenti in favore della speculazione
finanziaria, inflazione, aumento del debito pubblico sono fattori che
inducono in tempi brevi un peggioramento sensibile delle condizioni di
vita per una parte consistente della società.
Pagare il riscatto ai pirati
“Anche
per il prossimo anno [2023] continua la tendenza di decisa crescita per
la spesa militare italiana. (…): il nuovo incremento complessivo è di
oltre 800milioni di euro. (…) Si passa infatti dai 25,7 miliardi
previsionali del 2022 ai 26,5miliardi stimati per il prossimo anno”[7].
“L’obiettivo
del 2% del Pil da destinare alle spese per la difesa entro il 2024 (…)
fa parte di un impegno assunto dall’Italia, insieme agli Stati membri
della Nato, in un vertice a Newport (Galles) nel 2014, che prevede altri
due punti: assicurare il 20% delle spese per la difesa all’investimento
e contribuire alle missioni, alle operazioni e alle altre attività nel
contesto dell’Alleanza atlantica. Impegni ribaditi a Varsavia nel 2016
con il cosiddetto Defence investment pledge (…) Per quanto riguarda,
invece, la percentuale relativa alle spese militari destinate agli
investimenti (…), i dati italiani sono coerenti con le linee guida Nato
del 20%: il nostro Paese si attesta a una percentuale pari al 21,8%”[8].
Fonti
NATO informano che ciascun italiano, nel 2022, ha speso 498 dollari di
contribuzione al bilancio dell’Alleanza[9]. Sempre per difendere i
“nostri” “valori e interessi”? O, come commenta Sergio Fabbrini su il
Sole 24ore del febbraio 2023, per “riportare l’America in Europa”[10]?
Perché
la NATO, braccio armato degli Stati Uniti, oltre alla guerra in Europa
sta combattendo una guerra contro l’Europa. Il rilancio dell’economia
americana – cioè dei suoi piloni delle fondamenta, il comparto militare
industriale, quello dell’energia e l’egemonia del dollaro – avviene a
spese degli europei. Staccata politicamente ed economicamente dalla
Russia, l’Unione Europea è costretta ad importare il gas liquefatto
americano a prezzi esorbitanti e con contratti pluriennali vincolanti
che consentiranno a Washington di investire capitali ingenti nel
settore, ma, soprattutto, la politica degli “interessi nazionali”
promette di spaccare l’Unione riducendone drasticamente l’importanza
economica e incrementando conflitti interni magari combattuti con le
armi sulle terre e con il sangue degli africani.
NATO ed Unione
Europea non sono blocchi monolitici, hanno contraddizioni e conflitti al
loro interno e diverse visioni tanto sul piano geostrategico quanto su
quello della affermazione e difesa degli “interessi nazionali”. I grandi
gruppi transnazionali, quelli del comparto energetico, quelli dei
complessi militari-industriali dei diversi Paesi influiscono sulle
relazioni interne all’Unione e sulla compattezza dell’Alleanza.
Un’Europa debole e divisa è certamente un obiettivo raggiunto dagli
Stati Uniti e rafforza la dipendenza dalla “protezione” atlantica.
Dopo
la ingloriosa “fuga da Kabul”, diverse cancellerie europee avevano
accusato gli USA di aver determinano situazioni e assunto
unilateralmente decisioni che avevano coinvolto direttamente i Paesi
europei per poi procedere incuranti delle difficoltà nelle quali avevano
lasciato gli alleati. Una volta di più, nel caso della guerra in
Ucraina, mentre la NATO e la UE dichiarano formalmente di essere per
necessità e per scelta complementari, l’Europa rinuncia a far pesare la
rilevanza del suo ruolo e l’esistenza al suo interno di visioni
geostrategiche differenti da quelle del Pentagono e del capitalismo
internazionale con base negli Stati Uniti e si rivela subalterna alla
potenza egemone facendone proprie le narrazioni e gli obiettivi.
Parallelamente
all’evoluzione di questo asimmetrico partenariato, il Parlamento
europeo si è progressivamente appiattito sulle posizioni statunitensi e
disciplinato ai programmi NATO: anche prima dell’invasione russa
dell’Ucraina, nel 2016 [Varsavia, 8 luglio] e nel 2018 [Bruxelles, 10
luglio], la UE aveva firmato con l’Alleanza due dichiarazioni congiunte
nelle quali si sottoscriveva la condivisione di obiettivi strategici
quali il contrasto alle “minacce ibride”, il rafforzamento della
cooperazione marittima (per esempio l’operazione Sea Guardian a fianco
della Missione Irini nel Mediterraneo), il raggiungimento della capacità
di rapido intervento militare.
Risulta chiaro come per “minacce
ibride” si possa intendere qualunque azione (inclusi i flussi migratori)
che si ritenga pregiudizievole della sicurezza dell’Occidente o dei
suoi “valori” di “democrazia e sviluppo”, azione portata da qualunque
attore esterno o interno ai confini euro-atlantici.
Non c’è più una
NATO de iure (di diritto) cui aderiscono un certo numero di Paesi, ma
una NATO de facto che si espande ed è pronta ad intervenire in tutti i
conflitti esistenti in qualunque area del pianeta.
Nel giugno del
2022, il Consiglio Europeo ha approvato la cosiddetta “Bussola
Strategica”, un piano d’azione per una politica di sicurezza e difesa
dell’Unione europea, che prevede, tra l’altro, che le forze messe a
disposizione da ciascuno Stato possano essere impiegate anche in
contesti ONU e NATO. Bisogna ricordare che già nel 2003 il Berlin Plus
Agreement consentiva alla UE di accedere alle capacità di pianificazione
e comando della NATO e di utilizzare i mezzi e le capacità collettive
dell’Alleanza per condurre proprie missioni. Nel medesimo periodo del
2022, è stata redatta una dichiarazione congiunta USA-NATO mentre
quest’ultima licenziava il testo del Nuovo Concetto Strategico.
Facendo
riferimento a questi due precedenti documenti, il 10 gennaio 2023 è
stata redatta una nuova relazione congiunta che, mentre assicura
l’impegno a confrontare la minaccia costituita dalla Russia e la
“pericolosa competitività” cinese, ribadisce che la NATO rimane il
fondamento della difesa collettiva. Una affermazione che non lascia
dubbi sulla gerarchia dei ruoli e sulla subordinazione degli Stati
europei al principale decisore delle politiche belliche.
Dal vertice
della piramide, la NATO ci ha trascinato in avventure belliche facendoci
complici delle aggressioni alla Jugoslavia, all’Afghanistan, all’Iraq,
alla Libia: sempre per i “nostri” “valori e interessi”? La
partecipazione italiana è stata garantita da tutti i nostri governi,
così come è ritenuto naturale che sia per quanto riguarda l’Ucraina e
per i conflitti che da questa guerra sortiranno. La NATO è alleanza o
subalternità?
Per far trionfare l’Occidente
Una maledizione
firmata il 4 aprile 1949 i cui scopi furono ben espressi dall’allora
presidente Truman in una conversazione con vertici politico-militari
degli Stati Uniti e i ministri degli Esteri dei paesi dell’Alleanza
Atlantica: “l’accettazione del mio discorso comporta inoltre il
sacrificio di alcuni tradizionali obiettivi economici e di sicurezza;
ciò potrebbe rendere l’accettazione non particolarmente auspicabile da
parte vostra. Ma, nell’odierno stato di crisi che caratterizza la nostra
era, ritengo che grandi problemi richiedono grandi decisioni e che la
prioritaria necessità di fermare l’URSS ci costringa a sacrificare
quelli che di fatto sono obiettivi secondari al crescente bisogno di
sviluppare una politica fruttuosa, capace in primo luogo di garantire la
nostra sopravvivenza e secondariamente di far trionfare
l’Occidente”[11]. Straordinariamente attuale? Basta sostituire URSS con
Russia. Il nemico non è più il comunismo, ma l’aspirazione delle classi
dirigenti e delle oligarchie post-sovietiche al multipolarismo[12],
naturalmente contrario ai nostri “valori”!
Truman continuava: “La
nostra opinione è che al problema esistano solo due soluzioni. La prima
consisterebbe nel battere i sovietici con le loro stesse armi – un vasto
programma di riarmo e una spietata soppressione del comunismo nei
nostri paesi. Tale soluzione è tuttavia impraticabile negli Stati
democratici. Riguardo al primo punto infatti è assai improbabile che il
governo degli Stati Uniti o della maggioranza dei vostri paesi possa
riuscire a far accettare di buon grado un programma di riarmo ai propri
popoli. (…) Esiste tuttavia un altro tipo di politica, più consono alle
nostre capacità (…)”[13]. Già, per esempio, all’attuale stato delle
cose, gettare nel combattimento diretto quei Paesi le cui popolazioni,
determinate ad accedere ai “privilegiati” mercati caldi dell’Europa
occidentale, sono meno disavvezze alla guerra finanziandoli e armandoli
con i soldi dei recalcitranti. Dopo l’Ucraina, le piccole nazioni del
Caucaso settentrionale, i Paesi dei Balcani occidentali e la Polonia
sono pronti all’avventura della guerra in Europa.
Ma, come scrive
Lucio Caracciolo sulle pagine di Limes, “prima o poi l’invio periodico e
limitato di armi occidentali ai combattenti ucraini non basterà più.
Bisognerà considerare l’invio di nostre truppe in Ucraina”[14]. Il costo
della guerra potrebbe non essere più solamente economico, politico e
sociale.
Senza contare che tanto gli Stati Uniti quanto la Russia
hanno recentemente puntualizzato che considerano superata la rinuncia al
“first strike”, cioè ad usare per primi l’atomica[15]. Bisogna anche
aggiungere che, in ambito NATO, anche Gran Bretagna e Francia sono
potenze nucleari e che l’Ucraina è in possesso delle tecnologie nucleari
create in epoca sovietica. E, soprattutto, c’è da tenere nella giusta
considerazione il fatto che in Italia, a Ghedi ed Aviano, sono stoccate
almeno 70 testate nucleari: la base militare di Ghedi ospita atomiche
americane pronte a essere aviotrasportate dalla nostra Aeronautica
Militare, ad Aviano ci sono aerei statunitensi attrezzati per il loro
trasporto e lancio. Questo per quanto riguarda quelle che vengono
definite atomiche strategiche, il possesso delle quali, appunto,
dovrebbe scoraggiarne l’utilizzo da parte delle grandi potenze
confliggenti in quanto progettate per il trasporto e lancio con voli
intercontinentali.
Ma sempre più frequentemente i media parlano del
possibile utilizzo delle cosiddette “atomiche tattiche” – peraltro
escluse dai trattati – realizzate per essere fatte esplodere a distanze
più brevi, inferiori ai 500km, e trasportate da vettori come aerei (a
breve, forse, anche da droni), navi o mezzi terrestri. La loro potenza
varia da frazioni di 1 chilotone a circa 50 chilotoni mentre quelle
strategiche possono avere una carica di oltre un megatone (la bomba
sganciata su Hiroshima aveva una potenza di 15 chilotoni). Va da sé che
il fatto che se ne parli ha l’obiettivo di preparare l’opinione pubblica
europea al loro probabile utilizzo, cioè ad abituare gli
“ipersensibili” europei a considerare che il loro impiego è nell’ordine
delle cose, qualunque contendente decida di fare il primo passo.
È inevitabile? È un destino o una scelta?
La guerra non è una calamità naturale, ma è comunque difficile fermarla quando è in corso.
Le
manifestazioni contro la guerra non fermeranno questa guerra, le
manifestazioni ambientaliste non fermeranno la devastazione ambientale
alla quale stiamo assistendo e che è prodotta anche dalla guerra.
Non
basta, evidentemente, opporsi a questa guerra, è necessario ostacolarne
l’allargamento contrastando i piani e le strategie militari e politiche
a lungo termine che ne stanno alla base, impegnandosi contro il riarmo e
il militarismo sul territorio.
La debolezza intrinseca di un
movimento che, al momento, non sa darsi un programma fondato su una
concezione politica che vada al di là della contingenza attuale è anche
frutto della militarizzazione sociale che ghettizza e isola il dissenso e
fa del disagio economico e della minaccia della povertà un taser,
un’arma per paralizzare le masse e impedire la rivolta.
La guerra è
“destinata” a durare ed espandersi, a determinare nuovi disequilibri o
equilibri geopolitici fino a trovare un esito finale. Mentre genera
condizioni di vita sempre più precarie e inaccettabili rischia di
distruggere, se non il pianeta, le basi della vita civile.
L’urgenza
di fermare il processo di distruzione è una condizione oggettiva, la
possibilità di farlo è una eventualità legata ai comportamenti sociali e
politici, la volontà di farlo è una scelta.
Occorre “far mancare l’acqua ai pesci”.
Smettere di pagare i costi della guerra
Pagando i costi della guerra non siamo solamente le vittime, siamo la truppa disarmata che lavora per la propria distruzione.
Se non possiamo fermare la guerra in corso possiamo non combatterla.
Possiamo
non rispettare le norme securitarie che limitano la libertà di
manifestazione del dissenso. Possiamo sostenere le lotte sociali per la
difesa del territorio contro l’estensione delle basi militari, contro
l’uso del terreno pubblico per esercitazioni e manovre militari e in
difesa dell’ambiente. Intraprendere campagne e azioni contro le servitù
militari USA e NATO in Italia.
Riconoscendo che lo Stato non è
l’interlocutore ma la controparte, possiamo rilanciare le lotte per il
rifinanziamento e il ripristino della sanità pubblica, per l’ampliamento
della previdenza sociale e per la tutela della sicurezza sul lavoro
imponendo l’aumento della spesa sociale.
Possiamo organizzare il sostegno e l’accoglienza ai renitenti e ai disertori di ogni nazionalità.
Possiamo non pagare il riarmo ponendo tutti gli ostacoli possibili alla filiera dell’industria bellica.
Possiamo
contrastare la manipolazione di massa dell’opinione pubblica da parte
della propaganda diffondendo informazione veritiera.
Possiamo
mobilitarci per impedire l’accesso alle scuole al personale
dell’esercito e non permettere la colonizzazione da parte dell’industria
della guerra della ricerca scientifica finanziata, direttamente e
indirettamente, con fondi pubblici.
Ma, soprattutto, possiamo
prepararci a non combattere e ad opporci concretamente alle guerre del
futuro, quelle che i governi europei subalterni alla NATO si apprestano a
combattere, con il sangue degli altri e con i nostri soldi, nei Balcani
e in Africa. Possiamo organizzarci per riaprire quello spazio politico
di confronto e resistenza che decenni di governi reazionari sono
riusciti a chiudere. Preparandoci a raggiungere quella massa critica di
partigiani dell’antimilitarismo e dell’internazionalismo necessaria a
spegnere l’incendio in Europa per impedire che dilaghi nel mondo.
[1]
Cos’è il Recovery Fund e quali progetti comprende – 23 dicembre 2021,
https://quifinanza.it/economia/recovery-fund-cose-a-cosa-serve/595882/
[2]
Chiara Rossi, Come andrà Leonardo secondo Leonardo – 14 marzo 2022,
https://www.startmag.it/economia/come-andra-leonardo-secondo-leonardo-guidance-2023/
[3]
Cfr, tra l’altro.: Patrizia Licata, Infrastrutture critiche, Leonardo
nel progetto “reti di imprese” connesso al Pnrr – 5 agosto 2021,
www.corrierecomunicazioni.it/cyber-security/infrastrutture-critiche-leonardo-nel-progetto-reti-di-imprese-connesso-al-pnrr/
[4]
Leonardo partner del programma globale di difesa 6.0 – 9 dicembre 2022,
https://business24tv.it/2022/12/09/leonardo-partner-del-programma-globale-di-difesa-6-0/)
[5]
Il progetto DIANA (Defence Innovation Accelerator for the North
Atlantic) del giugno 2021 “consiste nella realizzazione di una rete
federata di centri di sperimentazione e acceleratori d’innovazione con
il compito di supportare la NATO e i paesi alleati nel proprio processo
di innovazione, sostenendo le start-up a sviluppare le tecnologie
necessarie a preservare la superiorità tecnologica e facilitando la
cooperazione tra settore privato e realtà militari”. Un fondo di un
miliardo di euro è stato stanziato per finanziare le start-up coinvolte.
Torino è tra le città designate ad ospitare uno dei più importanti poli
di ricerca dedicato all’aerospazio, all’innovazione tecnologica di
interesse militare in sinergia con il polo aerospaziale che coinvolge
non solamente Leonardo, ma anche un centinaio di grandi, medie e piccole
aziende italiane oltre, naturalmente, all’Università che svolgerà un
ruolo fondamentale. La Spezia (in particolare per la ricerca di sistemi
dedicati alla guerra sottomarina nei centri NATO e EU) e Capua, in
Campania, saranno altri centri di primaria importanza dove la ricerca
sarà funzionale ai nuovi programmi della NATO.
[6] Una bussola
strategica per la sicurezza e la difesa – Per un’Unione europea che
protegge i suoi cittadini, i suoi valori e i suoi interessi e
contribuisce alla pace e alla sicurezza internazionali, 21 marzo 2022.
[7]
Enrico Piovesana, Spese militari italiane in aumento anche nel 2023 – 2
dicembre 2022,
www.milex.org/2022/12/02/spese-militari-italiane-aumento-anche-2023/?fbclid=IwAR1JuI6vzAf91fKepFbv9rgCpF8a0-ZDTbnkS9Yl8enBGR1KUq1p-xT2UJ4
[8]
Spese militari, investimenti, missioni: gli impegni Nato dell’Italia –
31 marzo 2022,
https://www.ilsole24ore.com/art/spese-militari-investimenti-missioni-impegni-nato-dell-italia-AEkhtEOB
[9]
Riccardo Saporiti, Nato, la spesa militare pro capite – 23 dicembre
2022, Nato, la spesa militare pro capite | Tableau Public
[10]
Sergio Fabbrini, Con la guerra russa è nato lo stato ucraino – 20
febbraio 2023,
https://www.ilsole24ore.com/art/con-guerra-russa-e-nato-stato-ucraino-AEOo9ZpC
[11]
La strategia segreta della Nato – Verbale – 30 dicembre 2019,
https://www.limesonline.com/cartaceo/nato-strategia-segreta-verbale-1949
[12]
A conclusione del loro 8° vertice, a Goa nell’ottobre 2016, hanno
affermato la loro intenzione di battersi per un mondo multipolare, in
cui le nazioni emergenti contino di più negli organismi internazionali e
nelle decisioni riguardanti l’economia mondiale.
[13] Invitiamo caldamente a leggere questa significativa conversazione
[14]
Lucio Caracciolo, La guerra in Ucraina avrà una soluzione militare o
non ne avrà – 23 gennaio 2023,
https://www.limesonline.com/rubrica/lucio-caracciolo-guerra-ucraina-fine-mandare-truppe
[15]
“L’NPR suggerisce che gli Stati Uniti possono utilizzare armi nucleari
in circostanze che non implicano l’uso potenziale di armi nucleari da
parte di potenziali avversari. Ad esempio, secondo il documento, le armi
nucleari devono scoraggiare un numero limitato di ‘attacchi di livello
strategico ad alte conseguenze’, il che implica che i cinesi o i russi
attacchino con armi chimiche o biologiche o ‘cyber, spazio,
informazione’ o armi convenzionali avanzate. capacità potrebbero
costituire tali attacchi. La revisione afferma inoltre che un ‘efficace
deterrente nucleare è fondamentale per una più ampia strategia di difesa
degli Stati Uniti’, ma non elabora” (2022 Nuclear Posture Review – 6
dicembre 2022. Sembra superfluo ricordare che gli USA hanno scatenato la
guerra contro l’Iraq giustificandola con il possesso iracheno di “armi
di distruzione di massa” che non sono mai state trovate! Il 28 febbraio
2023 la Russia ha sospeso la sua adesione al trattato New Start sul
controllo delle armi nucleari.
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