
Nonostante tutti gli indizi fatti propri dalla classe intellettuale e politica al potere, nel tentativo di giungere per accumulo alla prova dell’esistenza dell’Italia, un indizio di segno contrario e dal peso non trascurabile viene proprio dal cuore di questa classe: per rendersene conto basta riflettere sulle difficoltà obiettive di collocare l’Italia non solo nello spazio, ma anche nel tempo: basta riflettere a come è stato implicitamente risposto, nell’Italia-Stato, da chi di dovere, a una domanda semplicissima: quanti anni ha l’Italia?
Uno storico, giustamente dimenticato, della fine dell’Ottocento, Licurgo Cappelletti, suggeriva più o meno l’età di 5.000 anni. La sua Storia d’Italia cominciava, infatti, dalla preistoria, quando il nome stesso d’Italia era di là da venire.
Un pertinace luogo comune, per fortuna rigettato dagli storici di professione ma ostentato ancora oggi, con disinvolta imprudenza, da alcuni celebri giornalisti in vena di divulgazione storica per le masse assegna all’Italia l’età veneranda di 2.750 anni: la sua storia comincerebbe nel 753 a. C., anno della supposta fondazione di Roma. Quest’opinione giustifica paradossalmente la celebrazione del Natale di Roma, di mussoliniana memoria.
Anche gli storici “veri” si mostrano in grave disaccordo tra di loro. Luigi Salvatorelli assegna all’Italia un’età di quasi 2.200 anni. Ne fa, infatti, cominciare la storia dal II secolo a. C., quando il protettorato romano (ma non la cittadinanza) si estese nominalmente su buona parte dell’Italia definita diciassette secoli dopo dai geografi generali (ma, come sappiamo, non su tutta).
Per Gioacchino Volpe, storico ufficiale del regime fascista ma studioso serio nei limiti delle proprie convinzioni, l’Italia ha invece 1.527 anni suonati: la sua storia comincia nel 476 (al momento del crollo dell’Impero romano d’Occidente).
Per Benedetto Croce, infine (e possiamo trarre finalmente un sospiro di sollievo), l’Italia ha 142 anni tondi.
La sua storia può cominciare soltanto nel 1861, al momento dell’istituzione del Regno sabaudo d’Italia, il primo Stato “italiano” degno di questo nome in quanto ragionevolmente esteso e soprattutto unitario. Prima di questa data ci sono soltanto le storie dei singoli Stati e dei singoli popoli che si sono spartiti nel tempo lo spazio promulgato a posteriori dai geografi generali.
La disputa continua oggi sulle pagine delle molte e voluminose Storie d’Italia pubblicate più recentemente (e su quelle in corso di stampa), oscillando tra l’ipotesi Volpe e l’ipotesi Croce. E allora: Volpe o Croce È facile osservare che, nel caso del Croce, più che di storia d’Italia si tratta di storia dello Stato italiano (ma di quale altra Italia certa si può onestamente parlare?).
Si può, tuttavia, intendere la storia dello Stato che oggi si denomina “italiano” come la storia di uno Stato dinastico che muta durante i secoli, espandendosi, la propria denominazione conservando una continuità, appunto, dinastica. Questo Stato sarebbe la Savoia (o, meglio, lo Stato familiare del nobile borgognone Umberto Biancamano, i cui discendenti divennero duchi di Savoia) che nell’XI secolo comincia a estendersi, oltre che di là, anche di qua dalle Alpi, su parti sempre più vaste dell’Italia-regione convenzionale fino a mutare, dal 1713 al 1718, per ragioni di peso e di rango relative allo status del sovrano, la propria denominazione in Regno di Sicilia; dal 1718 al 1861, scambiata la Sicilia, in Regno di Sardegna; e, nel 1861, in Regno d’Italia (mantenendo tuttavia, oltre alla dinastia, il proprio Statuto “sardo” del 1848).
Il Regno di Sardegna aveva paradossalmente ceduto un anno prima (1860) alla Francia il territorio originario da cui traeva il proprio nome iniziale (la Savoia, appunto). Non è un caso se Vittorio Emanuele continuò a denominarsi II anche se fu il primo re d’Italia e se il primo Parlamento italiano si numerò come ottavo. Il borbone Ferdinando IV di Napoli e III di Sicilia fu più corretto: divenne, nel 1816, Ferdinando I delle Due Sicilie (avvicinandosi così allo zero).
Come si vede, mancando un’Italia appena probabile, le Italie possibili sono davvero troppe.
TRATTO DAL LIBRO “L’ITALIA NON ESISTE“ (Leonardo Facco Editore)
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