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La nuova guerra fredda e la strategia dei liberal statunitensi che vogliono l’Impero
In un recente libro bianco, Christopher Mott dell’Institute for Peace & Diplomacy esamina un profondo riallineamento nell’ideologia politica americana, la sostituzione delle “vecchie razionalizzazioni per la supremazia, l’egemonia e l’interventismo” con un “neo-imperialismo dal volto morale”. Mott ritiene che questa transizione in corso rifletta i cambiamenti nelle norme della classe dirigente.
Le élite americane, più che mai legate agli attori e al potere statali, vedono ora la continuità dell’impero statunitense, il dominio globale e l’interventismo come chiari precetti morali. Lo scetticismo delle élite dell’epoca di Bush nei confronti dell’impero americano sembra essere ormai scomparso. Quella che Mott riscontra è una nuova rinascita della “tendenza atlantista a spingere il moralismo e l’ingegneria sociale a livello globale”. Poiché le élite sono confluite nella nuova ideologia sancita dallo Stato, è diventato sempre più importante segnalare pubblicamente la propria fedeltà ad essa, il che ha creato un circuito di retroazione che favorisce il continuo interventismo.
Questo riallineamento ha fatto rivivere il maccartismo della Guerra Fredda, ma con una svolta inaspettata: il partito “liberal” americano è ora in prima linea nel denunciare i presunti traditori e nell’elogiare militari, FBI e CIA. In un nuovo articolo per The Atlantic, ad esempio, il politologo Dominic Tierney rende esplicito questo riallineamento, elogiando l’esercito statunitense come istituzione egualitaria e “polizza assicurativa antifascista del mondo”. Per Tierney, scegliendo la strada dell’intervento militare, i liberal e i progressisti americani hanno scelto la strada giusta.
A prima vista è una cosa difficile da immaginare. Non molto tempo fa, uno strano riallineamento di questo tipo sarebbe stato quasi impossibile da concepire. Il caso e le strane contingenze storiche hanno convinto la sinistra mainstream americana (forse il centro-sinistra) che gli apparati militari, di sicurezza nazionale e di intelligence sono i servitori del popolo, saldi nella loro dedizione alla giustizia e allo stato di diritto. Il Russiagate – una teoria del complotto strampalata fondata sul desiderio, certo comprensibile, di affondare Donald Trump – ha creato uno strano, anche se non del tutto inaspettato, allineamento tra i liberal istruiti e urbani (che ci saremmo aspettati sapessero far di meglio) e un establishment militare e di intelligence da cui numerose generazioni della vera sinistra ci avevano messo in guardia. I loro avvertimenti si sono concentrati sul potere irresponsabile di agenzie le cui azioni si svolgono al di fuori della portata dei rappresentanti democratici eletti e i cui poteri si estendono allo spionaggio e persino all’omicidio di cittadini americani senza nemmeno la parvenza di un giusto processo. Il genere di cose, cioè, di cui ci si potrebbe aspettare che i liberal si preoccupino, almeno un po’ se non profondamente.
Ma il riallineamento a cui abbiamo assistito durante l’era Trump ha stravolto l’antiautoritarismo: i liberal dell’establishment, reagendo alla retorica anti-Washington e anti-burocrazia federale di Trump (ed era solo retorica), si sono posizionati come difensori di tutto l’impero militare americano e dei peggiori organismi di intelligence e di applicazione della legge nella storia del nostro Paese. Oggi, insomma, i liberal intelligenti e istruiti non vogliono essere percepiti come resistenti al potere irresponsabile del governo federale, o come difensori dei diritti individuali, o come oppositori di interventi “umanitari” all’estero.
Vale la pena di interrogarsi sui presupposti psicologici di un tale cambiamento. La tendenza che l’articolo di Mott prende in considerazione fa parte di una tendenza più generale che ha rimodellato il pensiero delle élite negli Stati Uniti negli anni in cui Donald Trump è diventato una forza e un’influenza importante nella politica americana. Un’attenta considerazione di queste condizioni psicologiche ricorda la lettera di dimissioni di William M. Arkin dalla sua posizione alla NBC News.
Arkin, un vero e proprio giornalista investigativo noto per aver sfidato le strutture di potere di Washington e per aver posto grandi domande, si è detto allarmato “per la rapidità con cui la NBC sostiene meccanicamente il contrario, per essere a favore di politiche che non fanno altro che generare più conflitti e più guerre”. Per Arkin era sconcertante che le élite apparentemente liberal dei media tradizionali “desiderassero la guerra fredda” e “lodassero” un'”istituzione storicamente distruttiva” come l’FBI. Sembrava che la professione giornalistica giudicasse le posizioni in base al desiderio di segnalare l’opposizione a Trump, piuttosto che in base ai meriti delle argomentazioni e delle prove. Chiunque abbia un minimo di familiarità con la storia americana sa che il nostro governo, attraverso organismi come l’FBI, la CIA e le forze armate, ha perpetrato una guerra continua contro il popolo americano in generale, e contro le comunità dei diritti civili e delle libertà civili in particolare.
Se non stiamo attenti, questa nuova guerra fredda potrebbe superare l’originale per potenziale di distruzione e danno. Proprio il mese scorso, l’ex funzionario della CIA Graham E. Fuller ha commentato la fanatica russofobia che attanaglia il Paese. Fuller, ex vicepresidente del Consiglio nazionale dell’intelligence, formatosi ad Harvard, ha osservato: “La parzialità è straordinaria, non ho mai visto nulla di simile quando mi occupavo di questioni russe durante la guerra fredda”.
Gli americani si trovano di nuovo in un momento in cui la nazione è alla resa dei conti: quando abbiamo iniziato a reagire contro l’interventismo suicida e l’impero, le élite hanno cambiato pubblicamente il loro peso e hanno creato un nuovo paradigma ideologico per l'”intervento umanitario”. Non beviamocela nuovamente.
QUI IL Link all’originale – TRADUZIONE DI PIETRO AGRIESTI
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